La seduta della Seconda Sottocommissione dell'Assemblea Costituente del 5 settembre 1946 offre uno spaccato illuminante sul dibattito istituzionale che ha plasmato la nostra Costituzione.
Tra le voci più originali e isolate in quella discussione vi è quella di Piero Calamandrei, giurista raffinato e pensatore lucido, il quale si distingue per una posizione in controtendenza rispetto ai suoi colleghi costituenti: la difesa della repubblica presidenziale in un'Italia che si avviava a configurarsi come repubblica parlamentare.
Calamandrei parte da una constatazione che oggi appare quasi profetica: la democrazia ha bisogno di stabilità per sopravvivere.
La sua riflessione nasce dall’esperienza del passato recente, quando il sistema parlamentare debole e frammentato aveva aperto la strada al fascismo.
A suo giudizio, il problema non è solo teorico, ma pratico: se la repubblica parlamentare non riesce a garantire governi duraturi e funzionanti, il rischio di una nuova deriva autoritaria diventa concreto.
La sua frase emblematica riassume il cuore della sua preoccupazione: "Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi democratici."
Questa riflessione è un monito a non sottovalutare gli effetti di un’instabilità cronica: il vuoto di potere, l’alternanza continua di governi deboli e incapaci di realizzare programmi di lungo termine possono creare un clima di sfiducia nella democrazia stessa e spingere l’opinione pubblica a cercare soluzioni autoritarie.
Nella sua analisi, Calamandrei critica apertamente il parlamentarismo instabile che si fonda su una pluralità di partiti incapaci di generare un esecutivo coeso. Le crisi politiche, secondo lui, non dipendono tanto dai meccanismi formali del voto di sfiducia o dalle regole interne al Parlamento, quanto dalla natura frammentata del sistema dei partiti, che impedisce la formazione di una maggioranza solida.
L’Italia, osserva Calamandrei, non ha la struttura bipartitica di Stati Uniti e Regno Unito, dove il meccanismo presidenziale o parlamentare funziona grazie alla presenza di due grandi partiti in competizione.
Nel nostro Paese, invece, la molteplicità di formazioni politiche e le coalizioni forzate producono governi precari, spesso vittime di crisi extraparlamentari generate da dissidi interni alle coalizioni.
Di fronte a questi problemi, Calamandrei propone una soluzione netta: un sistema in cui il Capo dello Stato sia eletto direttamente dal popolo e goda di un mandato fisso, garantendo così la continuità dell’azione di governo. A suo avviso, il modello presidenziale potrebbe:
assicurare un esecutivo forte e stabile;
eliminare il problema delle crisi parlamentari continue;
creare una leadership capace di rappresentare tutta la nazione al di sopra delle divisioni partitiche.
Calamandrei non nega che vi siano rischi in questo modello, ma ritiene che il vero pericolo non sia un governo forte, bensì un governo incapace di governare. Egli vede nel presidenzialismo uno strumento per rafforzare la democrazia, rendendola più efficiente e meno soggetta a paralisi interne.
Oggi, a quasi ottant’anni di distanza, le parole di Calamandrei risuonano con una forza straordinaria.
L'Italia ha vissuto decenni di instabilità politica, con una sequenza di governi di breve durata e una difficoltà cronica nel portare avanti riforme strutturali. Il dibattito sul presidenzialismo è tornato ciclicamente nell'agenda politica, spesso come risposta alla percezione di un sistema inefficace e incapace di garantire governabilità.
Calamandrei ci lascia una lezione chiara: non basta difendere la democrazia nei principi, bisogna renderla funzionale nella pratica. Un sistema che non garantisce stabilità non solo è inefficace, ma rischia di diventare il terreno fertile per nuove forme di autoritarismo.
Forse è arrivato il momento di riprendere in mano il suo insegnamento e chiederci se l'Italia sia pronta ad adottare quei correttivi istituzionali che possano finalmente darle quella stabilità politica di cui ha sempre avuto bisogno.