Bancarotta e reati fallimentari
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Lo Studio Legale Del Giudice dedica da anni particolare attenzione alla materia dei reati fallimentari, con un approccio che unisce competenza penalistica e conoscenza approfondita della disciplina concorsuale e societaria.
I procedimenti per bancarotta rappresentano infatti uno dei settori più complessi del diritto penale dell’economia, dove si intrecciano esigenze di garanzia individuale, tutela dei creditori e salvaguardia della corretta funzionalità del mercato.

L’esperienza maturata in giudizi di elevata complessità, unitamente a un costante aggiornamento scientifico e giurisprudenziale, ci consente di offrire una difesa tecnica qualificata in un ambito caratterizzato da una legislazione stratificata e da un ruolo determinante dell’interpretazione giurisprudenziale.

In questa cornice, proponiamo un’analisi dei reati di bancarotta alla luce del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, evidenziandone le continuità con la disciplina storica e le prospettive di evoluzione nel quadro del diritto penale contemporaneo.

1. Origini storiche e sviluppo del sistema

La bancarotta costituisce uno dei delitti più antichi e longevi del diritto penale commerciale, e la sua genesi si colloca ben prima della codificazione moderna.

Le radici dell’istituto affondano nel diritto mercantile medievale, allorché l’insolvenza del mercante veniva percepita non come una mera evenienza economica, ma come un atto di frode nei confronti della comunità cittadina.

La celebre “rottura del banco” – gesto plateale consistente nel distruggere fisicamente il banco di lavoro dell’insolvente nelle piazze delle Signorie e dei Comuni – rappresentava al tempo stesso una sanzione sociale e un segnale pubblico di inaffidabilità, volto a tutelare la fiducia dei terzi nei traffici commerciali.

In tale prospettiva, l’insolvenza era intrinsecamente carica di disvalore: il fallito era, in re ipsa, un soggetto fraudolento e indegno di continuare a operare nella comunità dei commercianti. Non a caso, il diritto comune assimilava il fallimento a un comportamento doloso, prescindendo da un accertamento delle specifiche condotte, e ne conseguiva la stigmatizzazione sociale e giuridica del debitore insolvente.

Il progressivo sviluppo dell’economia moderna e la crescente complessità delle relazioni mercantili portarono, nei secoli successivi, ad un mutamento di prospettiva.

La procedura fallimentare iniziò ad assumere una funzione non solo punitiva ma anche economico-ordinatrice, volta a regolare collettivamente lo stato d’insolvenza e a garantire, attraverso la procedura concorsuale, la par condicio creditorum.

Si affermò così una distinzione concettuale tra l’insolvenza in quanto fenomeno fisiologico e la condotta fraudolenta in quanto deviazione patologica del comportamento dell’imprenditore.

Nonostante ciò, sul piano penalistico, le incriminazioni conservarono una struttura arcaica, incentrata sulla presunzione di fraudolenza del fallito.

Tale impostazione si è consolidata nelle codificazioni ottocentesche e ha trovato sistemazione definitiva nel Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare), che ha disciplinato in maniera organica i reati di bancarotta (artt. 216 ss. l. fall.) secondo una logica di tipizzazione casistica.

È significativo notare che, mentre in altri ordinamenti – in particolare quelli di matrice anglosassone – già dal XVIII secolo si era affermata una visione più “neutrale” del fallimento, inteso come “unavoidable misfortune” e non necessariamente indice di dolo, l’esperienza italiana (e più in generale continentale) ha continuato a connotare penalmente l’insolvenza, mantenendo il fallito entro una cornice di sospetto e di colpevolezza presunta.

Il risultato di questa evoluzione è stato un diritto penale fallimentare caratterizzato da una straordinaria continuità normativa: nonostante le numerose riforme in materia concorsuale e societaria, il nucleo essenziale dei reati di bancarotta è rimasto pressoché immutato, perpetuando sino ai giorni nostri la medesima impostazione concettuale del legislatore del 1942.

In tal senso, la bancarotta rappresenta un settore paradigmatico della difficoltà del diritto penale di adeguarsi alla mutata realtà economica: mentre la procedura concorsuale ha conosciuto nel tempo molteplici interventi di riforma, fino alla recente sostituzione della nozione di “fallimento” con quella di “liquidazione giudiziale” nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, il diritto penale fallimentare continua a fondarsi su categorie e fattispecie sostanzialmente invariate, che rispecchiano una concezione punitiva dell’insolvenza propria di un’epoca storica ormai superata.

2. La disciplina penale-fallimentare nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), frutto della Commissione Rordorf e attuativo della legge delega n. 155/2017, ha introdotto una riforma organica delle procedure concorsuali, muovendo da una precisa ratio culturale: emancipare il linguaggio giuridico dalla storica connotazione stigmatizzante del termine “fallimento” e favorire un approccio fondato sulla prevenzione e gestione anticipata della crisi.

Il mutamento lessicale – la sostituzione della parola “fallimento” con “liquidazione giudiziale” – non deve essere sottovalutato: si tratta di una scelta di politica legislativa che intende segnare un cambio di paradigma, riconoscendo che l’insolvenza non costituisce di per sé una colpa, ma può essere il frutto della normale esposizione al rischio d’impresa. In questa prospettiva, la responsabilità penale non scaturisce automaticamente dallo stato di decozione, ma è legata a condotte specificamente descritte dal legislatore come fraudolente o colpose.

Tuttavia, se sul piano concorsuale il Codice ha segnato un passaggio epocale, la disciplina penale ha conservato una sorprendente continuità con il passato. Gli artt. 322–347 CCII, contenuti nel Titolo IX rubricato “Disposizioni penali”, ripropongono quasi integralmente le fattispecie già previste dagli artt. 216 ss. del R.D. 267/1942.

Non vi è stata, dunque, una rifondazione del diritto penale fallimentare, ma piuttosto una trasposizione testuale, con minimi aggiustamenti, delle norme incriminatrici preesistenti.

La Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare espressamente la continuità normativa tra le incriminazioni previgenti e quelle introdotte dal CCII (Cass., sez. V, 10 dicembre 2019, n. 4772). Ciò comporta che la giurisprudenza formatasi sotto la legge fallimentare del 1942 resta pienamente applicabile anche sotto il vigore del nuovo Codice, assicurando un’evidente stabilità interpretativa.

Si tratta, in verità, di una scelta sintomatica: il legislatore, pur avendo l’occasione per intervenire in maniera organica, ha preferito non innovare, forse per evitare tensioni in un settore in cui l’equilibrio tra esigenze punitive e garanzie difensive è da sempre precario. In questo modo, però, il diritto penale fallimentare rimane ancorato a categorie elaborate in un contesto storico ed economico profondamente diverso, affidando il compito di adattamento quasi esclusivamente alla giurisprudenza.

È proprio in questa cornice che si colloca la critica, autorevolmente formulata in dottrina, circa il carattere “statico” del diritto penale fallimentare, contrapposto alla dinamicità delle procedure concorsuali. Se queste ultime sono state oggetto di frequenti riforme e aggiornamenti, le fattispecie penali sono rimaste sostanzialmente immutate, con l’effetto di cristallizzare un impianto concettuale incapace di cogliere appieno le trasformazioni del tessuto imprenditoriale contemporaneo.

3. Tipologie di bancarotta nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Il legislatore, nel trasporre nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza la disciplina penale della bancarotta, ha mantenuto un’impostazione casistica, modellata sul precedente impianto del R.D. 267/1942. Gli artt. 322–330 CCII distinguono le fattispecie non tanto sulla base di un concetto unitario di “insolvenza fraudolenta”, quanto piuttosto attraverso una molteplicità di ipotesi di reato, caratterizzate da differenze di soggetto attivo, elemento soggettivo e oggetto della condotta.

Questa tecnica legislativa, se da un lato consente una descrizione analitica delle condotte tipiche, dall’altro rivela l’assenza di un principio sistematico unificante, con il rischio di frammentarietà e sovrapposizioni interpretative.

La dottrina più attenta (Pedrazzi, Zanchetti) ha osservato che la varietà di tipizzazioni non corrisponde a una reale differenziazione delle condotte, ma piuttosto ad un retaggio storico della tradizione penal-fallimentare, la quale tendeva a considerare il fallito come intrinsecamente sospetto, moltiplicando i casi incriminati.

 

3.1. Soggetti attivi: bancarotta propria e impropria

Una prima distinzione è data dal soggetto attivo:

  • Bancarotta propria: riguarda l’imprenditore individuale o i soci illimitatamente responsabili delle società di persone dichiarati in liquidazione giudiziale (artt. 322–323 CCII). Si tratta del fallito in senso stretto, ossia del soggetto la cui insolvenza è stata formalmente accertata.

  • Bancarotta impropria: riguarda amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e, in generale, soggetti che rivestono cariche di gestione o controllo in società dichiarate insolventi (artt. 329–330 CCII). In questo caso, il dissesto colpisce l’ente collettivo, ma la responsabilità penale è posta in capo alle persone fisiche che hanno gestito o vigilato sull’impresa.

L’ampiezza soggettiva di questa seconda categoria ha portato la giurisprudenza a estendere la punibilità anche agli amministratori di fatto (art. 2639 c.c.), configurando un ambito applicativo molto ampio e potenzialmente critico sul piano del principio di legalità.

 

3.2. Elemento soggettivo: fraudolenta e semplice

L’elemento psicologico consente di distinguere la bancarotta fraudolenta dalla bancarotta semplice.

  • Nella bancarotta fraudolenta, l’agente agisce con dolo (generico, o specifico nelle ipotesi di esposizione di passività inesistenti o simulazione di attività). La condotta è caratterizzata da un intento di depauperamento fraudolento dell’attivo o di alterazione della documentazione contabile, con conseguente lesione diretta degli interessi dei creditori.

  • Nella bancarotta semplice, invece, l’elemento soggettivo può essere costituito anche da colpa grave: è sufficiente la negligenza nella tenuta delle scritture, l’imprudenza nella gestione o l’inosservanza di regole cautelari.

La Cassazione penale, sez. V, 6 ottobre 2020, n. 27598, ha precisato che il discrimine fra le due figure non risiede nella condotta in sé, ma nell’elemento soggettivo: la bancarotta documentale è fraudolenta se sorretta da dolo (anche solo generico), semplice se determinata da colpa o imperizia.

 

3.3. Oggetto della condotta: patrimoniale, documentale, preferenziale

Altro criterio distintivo è dato dall’oggetto dell’offesa:

  • Bancarotta patrimoniale: concerne le condotte che incidono direttamente sull’attivo o sul passivo (distrazioni, occultamenti, simulazioni, esposizioni di passività inesistenti).

  • Bancarotta documentale: riguarda le scritture contabili, la cui irregolare tenuta o distruzione impedisce la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

  • Bancarotta preferenziale: punisce l’imprenditore che, in stato d’insolvenza, favorisca taluni creditori a danno della par condicio.

È evidente come la logica unitaria sottostante sia quella di tutelare la garanzia patrimoniale dei creditori, sia in termini di conservazione dell’attivo, sia in termini di trasparenza contabile, sia in termini di parità di trattamento.

 

3.4. Momento della condotta: pre e post liquidazione giudiziale

Infine, si distingue tra:

  • bancarotta prefallimentare: condotte anteriori alla dichiarazione di liquidazione giudiziale (es. distrazione di beni prima della sentenza);

  • bancarotta postfallimentare: condotte successive, realizzate nel corso della procedura (es. sottrazione o distruzione di beni inventariati).

Tale distinzione non ha solo rilievo cronologico, ma implica differenti riflessi sul piano della tipicità e della struttura del reato: mentre nella bancarotta postfallimentare il dissesto è già conclamato, nella bancarotta prefallimentare il comportamento è sanzionato in quanto idoneo a ledere in prospettiva i diritti dei creditori, subordinandone la punibilità alla successiva apertura della procedura concorsuale.​​

4. Il bene giuridico tutelato

L’individuazione del bene giuridico protetto dalle norme penali in materia di bancarotta costituisce uno dei nodi teorici più discussi del diritto penale fallimentare. La questione non è meramente speculativa: dalla definizione dell’interesse protetto discendono conseguenze rilevanti sul piano della tipicità, della struttura del reato e, in ultima analisi, della sua legittimazione costituzionale.

 

4.1. La concezione economico-sistemica: reato contro l’economia pubblica

Un primo indirizzo dottrinale, risalente e oggi minoritario, ha qualificato la bancarotta come reato contro l’economia pubblica. L’assunto poggia sull’idea che l’insolvenza di un’impresa produca un effetto “a catena” in grado di destabilizzare l’intero sistema economico, data la stretta interconnessione con gli istituti bancari e con la rete di fornitori e creditori. In questa prospettiva, il fallito non lede soltanto i propri creditori, ma minaccia la stabilità complessiva del mercato.
Tale visione, benché suggestiva, è stata criticata perché eccessivamente ampia e indeterminata: non ogni insolvenza è in grado di generare un impatto macroeconomico, e ancorare la punibilità a un concetto vago di “fiducia nei traffici” rischierebbe di collidere con il principio di determinatezza.

 

4.2. La concezione processuale: reato contro l’amministrazione della giustizia

Diversa è l’impostazione sostenuta da Nuvolone, secondo cui la bancarotta si configura come un reato contro l’amministrazione della giustizia. La lesione consisterebbe nell’alterazione del corretto svolgimento della procedura concorsuale, il cui scopo è assicurare una ripartizione paritaria delle risorse tra i creditori (par condicio creditorum).
Secondo questa lettura, condotte come la distrazione di beni o l’occultamento delle scritture contabili offendono direttamente il regolare funzionamento della procedura fallimentare, impedendo al curatore di adempiere al proprio compito di ricostruzione del patrimonio e di soddisfacimento dei creditori.

 

4.3. La concezione patrimonialistica: reato contro il patrimonio dei creditori

L’indirizzo oggi largamente prevalente, sostenuto da Alessandri e da buona parte della dottrina contemporanea, qualifica la bancarotta come reato contro il patrimonio, ed in particolare contro l’interesse patrimoniale collettivo dei creditori.
Ciò che conta, in questa prospettiva, non è tanto la lesione di un’astratta regolarità procedurale, quanto il concreto depauperamento della garanzia patrimoniale che assiste i creditori al momento della concessione del credito. Ogni condotta che eroda tale garanzia – sia essa una distrazione di beni, una falsificazione delle scritture o una preferenza indebita – incide direttamente sulle aspettative creditorie, riducendo le possibilità di soddisfacimento.

 

4.4. La teoria plurioffensiva

Non mancano, infine, interpretazioni che riconoscono al reato di bancarotta una natura plurioffensiva. Oltre al patrimonio dei creditori, sarebbero tutelati anche l’economia pubblica, la regolarità della procedura concorsuale e persino l’affidamento dei terzi nei traffici commerciali. Tale impostazione, pur suggestiva, rischia di ampliare eccessivamente l’ambito della tutela, con possibili ricadute negative sul piano della determinatezza e della tassatività.

 

4.5. Rilievi conclusivi

La disputa sul bene giuridico riflette un tema più ampio: la difficoltà del diritto penale fallimentare di emanciparsi da un’impostazione sospettosa verso l’imprenditore insolvente e di assumere una funzione selettiva coerente con il principio di offensività.
Se si accoglie la concezione patrimonialistica, ne consegue che il diritto penale dovrebbe intervenire solo quando la condotta incide effettivamente sulle garanzie dei creditori. Diversamente, l’adesione alle teorie economiche o processuali rischia di legittimare una punibilità eccessivamente ampia, fondata su offese indirette o simboliche.

Non è un caso che la dottrina più recente (Minicucci) abbia sottolineato la necessità di recuperare il ruolo dell’elemento soggettivo come criterio selettivo: un “dolo di frode” capace di distinguere le condotte realmente offensive da quelle che, pur astrattamente tipiche, non ledono in concreto l’interesse patrimoniale dei creditori.

5. La centralità dell’elemento soggettivo

Il nodo più delicato della disciplina penal-fallimentare è rappresentato dall’elemento soggettivo. La giurisprudenza di legittimità, nel corso dei decenni, ha mostrato una significativa tendenza ad ampliare l’area del penalmente rilevante, facendo spesso ricorso al dolo generico e, in particolare, alla sua forma più attenuata del dolo eventuale.

Questa scelta interpretativa ha comportato conseguenze di grande rilievo: da un lato, ha consentito di colmare lacune normative in fattispecie caratterizzate da formulazioni ampie e talvolta atecniche; dall’altro, ha rischiato di diluire il confine tra condotte fraudolente e mera mala gestio imprenditoriale, con effetti distorsivi sul piano della tipicità e del principio di colpevolezza.

 

5.1. Dolo generico e dolo specifico nelle fattispecie

Le norme penali contenute nel CCII non adottano una linea unitaria in tema di dolo. Alcune fattispecie – come la bancarotta fraudolenta patrimoniale mediante distrazione o dissipazione – sembrano presupporre la semplice volontà cosciente dell’atto dispositivo (dolo generico). Altre – come l’esposizione di passività inesistenti o l’occultamento doloso delle scritture – evocano invece la necessità di un fine specifico di pregiudizio nei confronti dei creditori.

Il problema si acuisce per la bancarotta documentale, che può essere fraudolenta o semplice a seconda che la irregolare tenuta delle scritture sia sorretta da dolo o colpa. In proposito, la Cassazione penale, sez. V, 6 ottobre 2020, n. 27598 ha precisato che la discriminante risiede proprio nell’elemento soggettivo: dolo generico nella bancarotta fraudolenta, colpa anche lieve nella bancarotta semplice.

5.2. L’uso del dolo eventuale

Nella prassi giudiziaria, il confine è stato spesso segnato attraverso il ricorso al dolo eventuale, applicato in modo elastico fino a rappresentare un vero e proprio surrogato della colpa. In base a questa impostazione, l’imprenditore risponde di bancarotta fraudolenta se, pur non volendo direttamente il pregiudizio dei creditori, abbia accettato il rischio del dissesto o dell’alterazione contabile.

Si tratta, tuttavia, di un’operazione ermeneutica criticata dalla dottrina, che vi ravvisa un vulnus al principio di determinatezza e al divieto di responsabilità oggettiva (art. 27, co. 1 e 3 Cost.).

Come osserva la dottrina più recente, l’applicazione indiscriminata del dolo eventuale conduce ad un’erosione del confine tra dolo e colpa, con il rischio di criminalizzare anche condotte imprudenti ma prive di reale carica fraudolenta.

5.3. La teoria del “dolo di frode”

Per rispondere a tali criticità, parte della dottrina più recente ha elaborato la nozione di “dolo di frode”, inteso come criterio selettivo e correttivo delle fattispecie. Non si tratta di introdurre una nuova categoria soggettiva, ma di attribuire al dolo generico una connotazione più ricca, che richiede:

  • una componente rappresentativa rafforzata, centrata sulla consapevolezza dell’insolvenza o del pregiudizio arrecato ai creditori;

  • una componente volitiva effettiva, incompatibile con la mera accettazione del rischio tipica del dolo eventuale.

Secondo questa lettura, la bancarotta fraudolenta non può esaurirsi nella semplice coscienza e volontà di un atto dispositivo in sé neutro, ma richiede la consapevolezza e volontà di compromettere la garanzia patrimoniale dei creditori.

5.4. Giurisprudenza costituzionalmente orientata

L’orientamento verso una lettura più restrittiva trova un fondamento implicito anche nella giurisprudenza costituzionalmente orientata, che valorizza il principio di offensività e la necessità di evitare interpretazioni che trasformino la bancarotta in un reato di mera condotta. Le Sezioni Unite, 31 marzo 2016, n. 22474, Passarelli hanno chiarito che non è necessario alcun nesso causale tra la condotta e lo stato di insolvenza, ma hanno al contempo ribadito la centralità dell’elemento soggettivo nella definizione della tipicità.

5.5. Considerazioni critiche

La questione dell’elemento soggettivo si inserisce, in definitiva, nella tensione costante tra l’esigenza di reprimere condotte fraudolente e la necessità di non trasformare il diritto penale in una sanzione automatica dell’insolvenza. La prospettiva del dolo di frode offre un criterio ricostruttivo coerente con i principi costituzionali, consentendo di distinguere tra:

  • l’imprenditore che scientemente utilizza la procedura concorsuale come strumento di frode;

  • e quello che, pur fallendo, ha agito nella buona fede imprenditoriale, senza consapevole intento di pregiudizio.

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6. La sentenza di liquidazione giudiziale come presupposto del reato di bancarotta

Tutte le ipotesi di bancarotta condividono un presupposto indefettibile: l’apertura di una procedura concorsuale. Nella disciplina previgente era la sentenza dichiarativa di fallimento, oggi è la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale.

Questo elemento ha sempre sollevato un dibattito intenso: si tratta di un elemento costitutivo del reato, oppure di una condizione obiettiva di punibilità? La risposta non è solo teorica, ma incide sulla struttura stessa della fattispecie, sulla configurabilità del dolo e sull’ambito applicativo delle condotte prefal­limentari.

6.1. La posizione classica: elemento costitutivo

Per lungo tempo ha prevalso l’idea che la dichiarazione di fallimento fosse un elemento costitutivo del reato, parte integrante della tipicità. Le Sezioni Unite del 1958 (sent. n. 2/1958) avevano collocato la declaratoria fallimentare nel cuore della fattispecie, ritenendo che senza di essa non si potesse parlare di bancarotta. Tale impostazione rafforzava il nesso causale e psicologico tra la condotta dell’imprenditore e il dissesto, finendo per trasformare la bancarotta prefal­limentare in un reato di evento.

6.2. L’evoluzione verso la condizione obiettiva di punibilità

A partire dagli anni ’80 e ’90, si è progressivamente affermata un’interpretazione diversa, che guardava alla sentenza fallimentare come a un dato esterno alla condotta, funzionale unicamente a rendere punibile un fatto già completo sotto il profilo oggettivo e soggettivo.

Questa impostazione è stata consacrata dalle Sezioni Unite, 31 marzo 2016, n. 22474, Passarelli. In quell’occasione, la Corte ha affermato che la dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) costituisce una condizione obiettiva di punibilità estrinseca:

  • non è richiesta alcuna relazione causale o psicologica fra la condotta e lo stato di insolvenza;

  • le condotte distrattive, dissipative o simulatorie sono in sé complete e tipiche, ma diventano penalmente rilevanti solo se sopravviene la sentenza civile.

6.3. La conferma del 2017 e l’insindacabilità della declaratoria

La Cassazione penale, sez. V, 22 marzo 2017, n. 13910, ha ribadito la tesi delle Sezioni Unite, qualificando la sentenza di fallimento come evento successivo e autonomo, esterno alla condotta. Contestualmente, ha escluso che il giudice penale possa sindacare la sentenza dichiarativa, neppure in via incidentale.

Il principio è stato ulteriormente consolidato dalla Cass. pen., sez. I, 1° marzo 2017, n. 10033, che ha richiamato le Sezioni Unite del 2008 (n. 19601) per affermare che la sentenza di fallimento vincola il giudice penale “purché esistente e non revocata”, in quanto atto giurisdizionale richiamato dalla fattispecie penale. Ne consegue che eventuali vizi della pronuncia (anche in ordine ai presupposti soggettivi e oggettivi della fallibilità) devono essere fatti valere esclusivamente davanti al giudice civile, attraverso i rimedi processuali ordinari o straordinari.

6.4. Critiche dottrinali

Questa impostazione, pur garantendo coerenza sistematica, ha suscitato critiche.

Parte della dottrina (Zanchetti, Reccia) ha osservato che la riduzione della sentenza di fallimento a mera condizione obiettiva rischia di svuotare la tipicità, trasformando le condotte distrattive in reati di pericolo astratto, la cui offensività concreta si manifesta solo ex post.

Altri Autori hanno denunciato il rischio di responsabilità oggettiva: se la condotta è in sé neutra (es. un atto dispositivo ordinario), diventa penalmente rilevante solo per il sopravvenire di un evento esterno non dipendente dall’agente. Ciò porrebbe un problema di compatibilità con il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, co. 1 e 3, Cost.).

6.5. La questione della “bancarotta riparata”

Ulteriore profilo critico riguarda la c.d. bancarotta riparata. Se un imprenditore, prima della dichiarazione di fallimento, rimedia alla condotta distrattiva reintegrando l’attivo, secondo l’impostazione dominante egli resta comunque punibile, in quanto la condotta era già tipica al momento della realizzazione. Questo esito è stato giudicato poco coerente con la logica di un diritto penale orientato al danno e all’offensività, e ha spinto parte della dottrina a invocare una rimeditazione della natura della declaratoria fallimentare.

6.6. Considerazioni conclusive

Il dibattito sulla qualificazione della sentenza di liquidazione giudiziale rappresenta il terreno più fecondo della dogmatica penal-fallimentare. Oggi prevale la lettura della dichiarazione come condizione obiettiva di punibilità estrinseca, coerente con la giurisprudenza di legittimità. Tuttavia, non mancano spazi per un ripensamento in chiave costituzionalmente orientata, che valorizzi il principio di offensività e distingua tra condotte realmente lesive e comportamenti imprenditoriali privi di carica fraudolenta.

7. Considerazioni conclusive

Il diritto penale fallimentare rappresenta, ancora oggi, un settore in cui la continuità storica prevale sull’innovazione normativa. La trasposizione quasi testuale delle fattispecie dagli artt. 216 ss. R.D. 267/1942 agli artt. 322 ss. del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza conferma la resistenza di un impianto concettuale che, pur nato in un contesto economico e sociale profondamente diverso, continua a governare la repressione penale dell’insolvenza.

Le novità lessicali introdotte dal legislatore – in primis la sostituzione della parola “fallimento” con “liquidazione giudiziale” – hanno un valore simbolico e culturale importante, segnando il tentativo di liberare la disciplina concorsuale dallo stigma tradizionalmente associato alla decozione. Tuttavia, sul piano penale, le fattispecie rimangono caratterizzate da una struttura casistica, frammentata e talvolta atecnica, che affida alla giurisprudenza il compito di fornire coerenza sistematica.

7.1. Le criticità del sistema vigente

Tre sono i principali nodi irrisolti:

  1. La staticità normativa, che non ha accompagnato le profonde riforme del diritto concorsuale, lasciando immutato un diritto penale modellato sugli schemi del 1942.

  2. La centralità problematica dell’elemento soggettivo, spesso appiattito sul dolo generico o addirittura sul dolo eventuale, con il rischio di criminalizzare condotte prive di reale carica fraudolenta.

  3. Il ruolo ambiguo della sentenza di liquidazione giudiziale, ridotta a condizione obiettiva di punibilità, con conseguente rischio di punire ex post comportamenti in sé neutri, in contrasto con il principio di offensività e con l’art. 27 Cost.

7.2. Le prospettive di riforma

Alla luce di tali criticità, la dottrina più attenta ha indicato alcune possibili direttrici di rinnovamento:

  • recuperare il concetto di “dolo di frode” quale criterio selettivo delle condotte realmente offensive, distinguendo l’imprenditore fraudolento da quello semplicemente incapace o sfortunato;

  • rafforzare il principio di offensività in concreto, subordinando la punibilità a un effettivo pregiudizio per la garanzia patrimoniale dei creditori;

  • ripensare la natura della sentenza di liquidazione giudiziale, al fine di evitare derive verso forme di responsabilità oggettiva.

7.3. La nostra posizione

Il nostro Studio professionale, forte di una consolidata esperienza nei procedimenti per reati fallimentari, sostiene la necessità di un diritto penale minimo, coerente con i principi costituzionali e convenzionali, che limiti l’intervento punitivo alle sole ipotesi di vera frode, evitando di confondere la mala gestio imprenditoriale con la criminalità economica.

Difendere chi si trova accusato di bancarotta significa, per noi, non solo padroneggiare la tecnica processuale, ma anche contribuire a un dibattito giuridico più ampio, volto a restituire razionalità a una materia che ancora oggi oscilla tra residui storici e nuove esigenze di tutela.

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