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Libertà di espressione e reputazione dell’Università: il docente è tenuto al decoro

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Avv. Salvatore del Giudice - Avvocato penalista Napoli
università

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 10323 del 23 dicembre 2024, ha affermato che la libertà di manifestazione del pensiero di un docente universitario, garantita dall’art. 21 della Costituzione, incontra un limite nel dovere di tutela dell’immagine e della reputazione dell’istituzione accademica di appartenenza. Pertanto, un docente può essere sanzionato disciplinarmente se l’espressione del suo pensiero, pur avvenuta in ambito privato e su piattaforme social, si traduce in una condotta che compromette il prestigio e il decoro dell’università.


La vicenda processuale

Il caso ha riguardato un professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università degli Studi di Milano, il quale, nel novembre 2020, aveva condiviso sulla propria pagina Facebook un meme raffigurante la Vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, con un testo ritenuto offensivo e sessista. A seguito delle reazioni suscitate dal post, l’università ha avviato un procedimento disciplinare, conclusosi con la sanzione della sospensione per un mese dall’insegnamento, con privazione della retribuzione, ai sensi dell’art. 10 della l. 240/2010 e dell’art. 33 dello Statuto dell’Ateneo.

Il docente ha impugnato la sanzione dinanzi al T.A.R. Lombardia, il quale ha respinto il ricorso ritenendo la condotta del professore in contrasto con il suo ruolo accademico. L’interessato ha quindi proposto appello al Consiglio di Stato, chiedendo l’annullamento della sanzione.


Le questioni di diritto affrontate dal Consiglio di Stato

1. Libertà di espressione e limiti per i docenti universitari

Il Consiglio di Stato ha confermato che la libertà di manifestazione del pensiero non è assoluta, specialmente per chi svolge un ruolo pubblico e formativo come un docente universitario. La pubblicazione di un contenuto su un profilo Facebook, seppur personale, non è paragonabile a una conversazione privata, ma costituisce una forma di comunicazione potenzialmente idonea a raggiungere un pubblico vasto e indeterminato.

2. Rilevanza della lesione all’immagine dell’Università

La Corte ha ribadito che un docente universitario rappresenta l’istituzione anche al di fuori dell’ambito accademico. Nel caso specifico, il fatto che il professore si presentasse nel proprio profilo social con la qualifica di docente universitario ha contribuito a creare un nesso tra la sua condotta e l’Ateneo, determinando un potenziale danno all’immagine dell’istituzione.

3. Necessità di un bilanciamento tra diritti fondamentali

Il Giudice amministrativo ha ritenuto che, nel bilanciamento tra la libertà di espressione del docente e l’interesse dell’università a tutelare la propria reputazione, dovesse prevalere il secondo. La pubblicazione del meme è stata valutata come una condotta idonea a ledere la fiducia dei cittadini nell’Ateneo, giustificando l’applicazione della sanzione disciplinare.


Conclusione

Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello, confermando la legittimità della sanzione disciplinare inflitta al docente. Questa decisione rafforza l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i docenti universitari, pur godendo della libertà di espressione, devono esercitarla in modo compatibile con il decoro e la reputazione dell’istituzione accademica di appartenenza.

I docenti universitari devono prestare attenzione ai contenuti che condividono online, poiché possono essere valutati come espressione della loro funzione pubblica.

Le università hanno il diritto di intervenire disciplinarmente in presenza di comportamenti che compromettano il loro prestigio, anche se tali condotte avvengono in ambiti privati.

Il principio di bilanciamento tra libertà di espressione e doveri connessi al ruolo pubblico trova un’ulteriore conferma nella giurisprudenza amministrativa.


La sentenza integrale

Con ricorso al T.A.R. Lombardia, Milano, il prof. -OMISSIS- ha impugnato il decreto del Rettore dell'Università degli Studi di Milano del 14 maggio 2021, recante irrogazione a suo carico della sanzione disciplinare della sospensione per un mese (dal 1° giugno al 30 giugno 2021) dallo svolgimento delle funzioni di professore universitario e da ogni altro incarico comunque assegnatogli in ambito accademico, con privazione della retribuzione e corresponsione di un assegno alimentare in misura non superiore a meta` dello stipendio.


Ha impugnato, altresì, gli atti presupposti, connessi e conseguenti, tra cui la delibera del Consiglio di Amministrazione dell'Università del 14 maggio 2021 di inflizione di detta sanzione disciplinare (con il relativo verbale), il parere del Collegio di disciplina e la nota del Rettore del 16 novembre 2020 di contestazione formale degli addebiti al docente, nonché, ove occorresse, il Codice di comportamento dei dipendenti dell'Ateneo e il Codice etico dello stesso Ateneo.


In punto di fatto, l'odierno appellante, professore ordinario di Storia delle Dottrine politiche presso l'Università di Milano, in data 8 novembre 2020 ha condiviso sulla propria pagina "Facebook" un "meme" (equivalente a una vignetta) prodotto negli Stati Uniti d'America, recante l'immagine della Vice Presidente degli Stati Uniti Kamala Harris con un testo a lei riferito. La pubblicazione di questo "meme" ha suscitato vaste reazioni di indignazione per il suo contenuto, il che ha indotto il docente a rimuoverlo in data 13 novembre 2020, accompagnando la cancellazione con parole di scusa e con il riconoscimento che il messaggio "era di cattivo gusto". Pur tuttavia l'Università ha avviato nei suoi confronti il procedimento disciplinare, conclusosi con l'irrogazione della sanzione della sospensione ai sensi dell'art. 10 della l. n. 240/2010 e dell'art. 33 dello Statuto dell'Ateneo.


Il docente, come già detto, ha avversato la sanzione innanzi al T.A.R. Lombardia, Milano, ma l'adito Tribunale con sentenza della Sez. I n. -OMISSIS-del 12 giugno 2023 ha respinto il ricorso, ritenendo infondate tutte le censure in esso contenute.


Avverso detta sentenza è insorto il prof. -OMISSIS-, impugnandola con l'appello indicato in epigrafe e chiedendone la riforma.


Dopo un'analitica esposizione dei fatti che hanno portato all'irrogazione a suo carico della sanzione della sospensione, nonché dello svolgimento del procedimento disciplinare e del giudizio di primo grado, l'appellante ha dedotto a supporto del gravame i seguenti motivi:


I) violazione degli artt. 2 e 21 Cost., violazione degli artt. 8 e 10 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (CEDU);


II) violazione degli artt. 10 e 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, violazione dell'art. 54 del d.lgs. n. 165/2001;


III) violazione degli artt. 1 e 9 del Codice di comportamento dei dipendenti dell'Università degli Studi di Milano;


IV) violazione dell'art. 8 del Codice etico dell'Università degli Studi di Milano;


V) eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà, illogicità ed ingiustizia manifesta, eccesso di potere per travisamento, violazione del principio di proporzione.


In estrema sintesi e salvo quanto si dirà in sede di analisi delle singole censure, l'appellante lamenta l'erroneità della sentenza impugnata nelle parti in cui: 1) ha considerato il "post" ("meme") offensivo; 2) ha ritenuto pregiudicata l'immagine e il decoro dell'Università; 3) non ha ritenuto che la sanzione disciplinare violasse la libertà di manifestazione del pensiero dello stesso docente; 4) ha considerato la condotta dell'appellante rientrante fra quelle disciplinate dall'art. 9 del Codice di comportamento dell'Ateneo; 5) non ha ritenuto violato il principio di proporzione.


Si è costituita in giudizio l'Università degli Studi di Milano, depositando di seguito una memoria e documentazione sui fatti di causa e concludendo per la reiezione dell'appello, in quanto infondato in fatto e in diritto.


All'udienza pubblica dell'8 ottobre 2024 è comparso il difensore dell'appellante, che ha brevemente discusso la causa. Di seguito, questa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.


Diritto

Viene in decisione l'appello del prof. -OMISSIS- contro la sentenza del T.A.R. Lombardia, Milano, che ha respinto il ricorso da lui promosso avverso la sospensione per un mese dalle funzioni di professore universitario e da ogni altro incarico accademico, nonché dalla relativa retribuzione, inflittagli dall'Università degli Studi di Milano.


In via preliminare, va escluso che la circostanza, riferita dall'Ateneo in sede di memoria difensiva, delle dimissioni del prof. -OMISSIS- dall'incarico di docente presso l'Università degli Studi di Milano a far data dal 4 marzo 2024, possa incidere sul suo interesse alla decisione dell'appello, residuando in capo al docente un'utilità sia patrimoniale, sia morale a una decisione di accoglimento del ricorso da lui proposto e dovendo, perciò, escludersi che questo sia divenuto improcedibile (cfr. C.d.S., Sez. V, 27 ottobre 2022, n. 9172; id., 22 ottobre 2018, n. 6025; Sez. IV, 9 settembre 2022, n. 7857; id., 20 agosto 2018, n. 4969; Sez. VII, 16 febbraio 2022, n. 1155; Sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2004; Sez. II, 29 gennaio 2020, n. 742; Sez. III, 10 aprile 2017, n. 1678).


Come riferisce la sentenza appellata, la sanzione è stata inflitta al docente per avere egli condiviso sulla sua pagina "Facebook" un "meme", equivalente a una vignetta, creato da altri, con un'immagine raffigurante la Vice Presidente degli Stati Uniti d'America, Kamala Harris, accompagnata dal testo seguente: "She will be an inspiration to young girls by showing that if you sleep with the right powerfully connected men then you too can play second fiddle to a man with dementia. It's basically a Cinderella story" ("Sarà una fonte di ispirazione per le giovani ragazze giacché ha dimostrato che se vai a letto con gli uomini giusti e potenti anche tu puoi diventare il secondo violino di un uomo affetto da demenza. Essenzialmente è la storia di Cenerentola"), senza l'aggiunta di alcun commento o considerazione.


Come si legge nel verbale del Consiglio di Amministrazione dell'Università del 14 maggio 2021, che riporta in proposito il parere del Collegio di Disciplina (ambedue tali atti hanno formato oggetto di impugnazione), l'Ateneo ha ritenuto:


- che pur avendo il prof. -OMISSIS- dichiarato di non condividere più il "meme" da lui pubblicato e di avere compreso la natura potenzialmente offensiva del messaggio ivi espresso, non fosse possibile escludere la responsabilità del docente;


- che pur nel rispetto della libertà di manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, la condotta dell'appellante contrastasse con il suo ruolo di docente e con le responsabilità educative ad esso connaturate, tanto più per la diffusione della notizia sui mezzi di stampa nazionali e locali, ove era stata sottolineata la qualifica dell'autore di docente dell'Università di Milano, così da arrecare un danno all'immagine e alla reputazione dell'Università stessa;


- che anche se la condivisione di un "meme" differisce dalla pubblicazione di un messaggio originale, può avere lo stesso effetto per intensità, forza del pensiero espresso e visibilità;


- che pertanto il prof. -OMISSIS- avesse "violato il Codice di comportamento dell'Università degli Studi di Milano e le norme di buona condotta che, ai sensi di legge, un docente universitario è tenuto ad osservare sia nel diretto esercizio delle proprie funzioni sia nei rapporti privati di rilevanza pubblica" e che il suo comportamento rappresentasse "una violazione di particolare gravità nei confronti della sua funzione docente" (così il verbale del Consiglio di Amministrazione sopra citato).


Il T.A.R. ha disatteso il primo gruppo di censure dedotte nel ricorso, osservando:


I) che la condivisione da parte del docente sulla sua pagina "Facebook" del "post" realizzato da altri anche sotto forma di "meme", senza l'adozione di espresse cautele o di prese di distanza dal contenuto del documento che si rende pubblico anche nella cerchia delle proprie conoscenze, equivale, secondo l'id quod plerumque accidit, ad approvazione del contenuto del documento stesso;


II) che il contenuto intrinseco della pubblicazione, non accompagnata dall'aggiunta di altri elementi di contrario avviso, "è sicuramente offensivo del genere femminile", in quanto veicola la convinzione dell'opportunità di strumentalizzare i rapporti intimi per raggiungere scopi diversi da quelli che li caratterizzano, e di fatto asseconda una categoria di persone a tenere simili condotte;


III) che la pubblicazione è avvenuta nel "canale social" personale del docente, dove però costui indica il ruolo istituzionale da lui ricoperto nell'Ateneo, il che determina il coinvolgimento dell'Istituzione accademica di cui egli fa parte;


IV) che in questa prospettiva la "condivisione" del "post" nella propria pagina "Facebook", in cui il prof. -OMISSIS- dà evidenza al ruolo da lui svolto nell'Ateneo, data la natura offensiva del "post" stesso, determina un contrasto con il ruolo e la funzione del docente universitario chiamato ad assolvere un importante compito formativo ed educativo verso gli allievi e lede, perciò, la dignità della professione svolta;


V) che nel caso di specie la condotta del professore ha avuto un ampio risalto nei media ed è stata oggetto di forti critiche, essendosi da più parti richiesto all'Università un intervento sanzionatorio, a tutela anche della reputazione ed immagine dell'Ateneo. Quest'ultimo ha ritenuto che tale condotta avesse incrinato il patto di fiducia tra l'Istituzione universitaria e i cittadini/utenti.


Anche il secondo gruppo di censure formulate dal ricorrente è stato respinto dal T.A.R., il quale sul punto ha evidenziato:


VI) che l'Università ha correttamente individuato, oltre alla norma attributiva del potere disciplinare (art. 10 della l. n. 240/2010 e art. 33 dello Statuto), la norma di condotta violata (l'art. 9 del Codice di comportamento della stessa Università, in base al quale il docente, nei rapporti privati, "non usa in modo improprio la posizione che ricopre nell'Ateneo e non assume alcun comportamento che possa recare danno all'immagine e alla reputazione dell'Università, al fine di preservare la fiducia dei cittadini/utenti") e la sanzione da infliggere;


VII) che la violazione dell'art. 9 del Codice di comportamento è sanzionata sotto il profilo disciplinare ai sensi del combinato disposto dell'art. 15 dello stesso Codice e dell'art. 54, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001 e che la condotta non avrebbe potuto essere sanzionata in base al Codice etico dell'Ateneo - come sostenuto dal ricorrente - opponendovisi la preferenza per il "canale disciplinare" espressa dall'art. 16, comma 2, del Codice di comportamento;


VIII) che nella fattispecie per cui è causa non vale invocare la libertà di manifestazione del pensiero, in quanto rileva il contenuto del pensiero espresso liberamente, ritenuto lesivo della reputazione e dell'immagine dell'Università e per tal ragione sanzionato.


Infine, il T.A.R. ha disatteso anche l'ultimo gruppo di censure, osservando:


IX) in relazione alla lamentata disparità di trattamento rispetto alle vicende di un altro docente della stessa Università, che la disparità di trattamento non può essere dedotta, ove la posizione dell'altro soggetto invocata quale tertium comparationis sia stata conseguita contra legem, perché frutto di una procedura non corretta, e che, peraltro, nel caso di specie la condotta del collega del prof. -OMISSIS- da quest'ultimo invocata a titolo di tertium comparationis non è analoga a quella da lui tenuta e censurata dall'Ateneo;


X) che neppure sussiste la lamentata violazione del principio di proporzionalità della sanzione, poiché la condotta contestata al professore, ravvisata nell'avere egli tenuto un comportamento "in contrasto rispetto al suo ruolo di docente ed alle responsabilità educative che gli sono connaturate", rientra nella fattispecie di cui all'art. 89 del r.d. n. 1592/1933, costituita da "atti in genere, che comunque ledono la dignità o l'onore del professore" e in ogni caso è stata scelta la sanzione meno afflittiva per l'interessato dopo la censura.


Nell'appello il prof. -OMISSIS- contesta la sentenza di prime cure, deducendo avverso la stessa una serie articolata di censure, che di seguito si vanno ad esaminare, facendo precedere tale esame da una breve sintesi della normativa richiamata dal decreto che ha inflitto la sanzione disciplinare.


Al riguardo il predetto decreto richiama, innanzitutto, gli artt. 80, 81 e 82 del d.P.R. n. 3/1957 (T.U. recante lo "statuto" degli impiegati civili dello Stato), che disciplinano: le ipotesi di riduzione dello stipendio del dipendente, la loro misura, durata ed effetti (art. 80); la sospensione del dipendente dalla qualifica (art. 81); l'assegno alimentare concesso all'impiegato sospeso (art. 82).


Viene menzionato, in secondo luogo, l'art. 10 della l. n. 240/2010, che disciplina lo svolgimento del procedimento disciplinare promosso nei confronti dei docenti universitari, stabilendo in particolare, al comma 2, che l'avvio di tale procedimento compete al Rettore, il quale "per ogni fatto che possa dar luogo all'irrogazione di una sanzione più grave della censura tra quelle previste dall'articolo 87 del testo unico delle leggi sull'istruzione superiore di cui al regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592, entro trenta giorni dal momento della conoscenza dei fatti, trasmette gli atti al collegio di disciplina, formulando motivata proposta".


Da ultimo, il decreto rettorale menziona l'art. 33, comma 5, dello Statuto dell'Università, ai sensi del quale il Collegio di disciplina propone e il Consiglio di amministrazione dell'Università infligge "le sanzioni previste dall'articolo 87 e seguenti del Testo Unico delle leggi sull'istruzione superiore di cui al regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 come confermate dall'articolo 12 della legge 18 marzo 1958, n. 311". Nel caso di specie, la sanzione inflitta è la "sospensione dall'ufficio e dallo stipendio fino ad un anno" prevista dall'art. 87, n. 2) del r.d. n. 1592/1933 per le mancanze di cui al successivo art. 89. Quest'ultima disposizione, al primo comma, prevede che le "punizioni" di cui ai numeri da 2 a 5 del precedente art. 87 (tra le quali, al n. 2), la "sospensione dall'ufficio e dallo stipendio fino ad un anno") si applicano per le seguenti mancanze: a) grave insubordinazione; b) abituale mancanza ai doveri di ufficio; c) abituale irregolarità di condotta; d) atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore.


A) Tanto premesso e venendo ora all'esame delle censure dedotte nel gravame, con il primo gruppo di esse l'appellante lamenta che il "post" da lui pubblicato non avrebbe un contenuto offensivo e che il T.A.R. ne avrebbe frainteso il significato.


Il fraintendimento sarebbe in ciò, che al contrario di quanto sostiene il T.A.R. (il quale non si sarebbe avveduto della carica ironica del "post", simile a uno sberleffo), il messaggio non direbbe che è giusto per le donne utilizzare i loro rapporti intimi per fare carriera, né inciterebbe a tale comportamento, ma, criticando la condotta della Vice Presidente Harris, vorrebbe mettere in guardia le altre donne dal seguire l'esempio di quest'ultima.


Ciò, tenuto conto che negli Stati Uniti la condotta privata della Harris avrebbe formato oggetto del dibattito pubblico, come provato dal ricorrente con il deposito in primo grado di un'ampia rassegna stampa, e le critiche si sarebbero incentrate proprio sulla (presunta) strumentalizzazione, da parte sua, dei propri rapporti intimi per raggiungere ruoli di potere: nel condividere il "post", al netto del valore da riconoscere alla suddetta "condivisione", il prof. -OMISSIS- avrebbe inteso evidenziare una condotta (quella attribuita alla Harris) ritenuta disdicevole e diffidare dal seguirne l'esempio. Al contrario, il primo giudice avrebbe inteso il "post" come condivisione da parte del prof. -OMISSIS- dell'opportunità che le donne strumentalizzino i propri rapporti intimi e che fosse giusto persino incitare le donne ad adottare questa condotta.


Quanto al contenuto intrinseco del "post", esso non sarebbe offensivo dell'intero genere femminile, né lesivo dell'immagine dell'Università, limitandosi ad alludere a una condotta attribuita alla Vice Presidente e a una condizione mentale verosimilmente ascritta al Presidente Biden. Detto contenuto non si potrebbe ritenere "sessista", intendendosi per "sessismo", secondo il dizionario Treccani, "l'atteggiamento di chi sostiene l'inferiorità del sesso femminile nei confronti di quello maschile", mentre il "meme" non alluderebbe ad un'inferiore capacità del genere femminile, né a una condotta che sarebbe costante di tutte le donne che intendano fare carriera politica, ma si limiterebbe a indicare alcune condotte private di Kamala Harris oggetto di dibattito da parte dei media e dell'opinione pubblica statunitense. In altre parole, si tratterebbe di un "meme" politico, né, di certo, l'Università potrebbe intervenire sotto il profilo disciplinare per tutelare il buon nome e l'immagine della Vice Presidente.


Ci si muoverebbe, insomma, all'interno di una critica politica, rispetto alla quale risulterebbe esclusa ogni possibilità di intervento del datore di lavoro - Università a sanzionare la libera manifestazione del pensiero.


Nel senso della caduta dell'Ateneo in un'interpretazione tendenziosa del "meme" deporrebbe anche il fatto che in questo si attribuisce al Presidente degli Stati Uniti una condizione mentale di demenza, ma, nonostante ciò, gli organi dell'Università non avrebbero formulato alcun rilievo su questa parte del messaggio, perché - sostiene l'appellante - evidentemente concentrati a rinvenire un "sessismo" invero inesistente.


Le doglianze non sono suscettibili di positivo apprezzamento.


Si può convenire con l'odierno appellante che la pubblicazione del "post" o "meme" sul suo profilo "Facebook", senza alcuna considerazione o commento da parte sua, non possa di per sé valere come approvazione del contenuto del documento, come sostiene invece la sentenza appellata. Il richiamo al c.d. id quod plerumque accidit non convince, di fronte alla mancanza di elementi di segno positivo da cui possa desumersi detta approvazione, che il T.A.R. - in modo eccessivo - pretende all'inverso di ricavare dalla sussistenza di elementi negativi (il mancato accompagnamento della pubblicazione del "post" con una presa di distanza dal suo contenuto).


Nel senso ora visto - quello della necessità di elementi di segno positivo, da cui si possa desumere la "condivisione", intesa come approvazione, dei documenti altrui pubblicati sui propri profili "social" - depone anche la giurisprudenza penale richiamata dalla difesa erariale (Cass. pen., Sez. I, 9 febbraio 2022, n. 4534; Sez. V, 23 luglio 2020, n. 22066): questa, infatti, ha ritenuto necessario, per integrare le fattispecie di cd. reati d'odio da essa analizzati, l'apposizione, sull'altrui messaggio, di un "like", cioè di un'esplicita manifestazione di apprezzamento del messaggio stesso, che, però, nella vicenda qui in esame manca.


Semmai, qualche perplessità la può generare la condotta processuale dello stesso docente, che, come si vedrà meglio infra, nel terzo gruppo di censure ha sostenuto l'illegittimità della sanzione inflittagli, per avere questa violato il suo diritto alla libera manifestazione del pensiero, che egli avrebbe inteso esercitare nel caso in esame mediante la pubblicazione del "meme" sulla sua pagina "Facebook": ma ciò sembrerebbe presupporre un'adesione da parte sua al contenuto del "meme" (pur in una forma per così dire "postuma", cioè rivelata solo in sede processuale).


Ad ogni modo è innegabile l'esistenza, in capo a ciascun soggetto che pubblichi un messaggio sulla propria pagina "Facebook" (o su un qualsiasi altro canale "social"), di un obbligo di controllarne il contenuto, al fine di verificare che lo stesso non risulti ingiurioso, diffamatorio o comunque dotato di carattere offensivo nei confronti di terzi, onde evitare una cooperazione (a livello non doloso ma colposo) nella divulgazione di contenuti di tal fatta.


In altre parole, se nel caso di specie non si può affermare, come fa la sentenza di prime cure, che il docente abbia "condiviso" il "meme" nel senso di approvarne il contenuto e farlo proprio, mancando sufficienti elementi di prova in tal senso, deve tuttavia ritenersi che il prof. -OMISSIS- sia venuto meno a un dovere di diligenza che certamente era tenuto a osservare, quello, cioè, di controllare il contenuto del messaggio pubblicato onde verificarne eventuali significati ingiuriosi, diffamatori o altrimenti lesivi per i terzi: tale dovere, come detto, incombe in via generale su ogni soggetto che si avvalga dei canali "social" per pubblicare contenuti propri o altrui, e tanto più incombeva sul citato docente, alla luce del ruolo da lui rivestito, come meglio si vedrà infra.


Che il contenuto del "meme" pubblicato fosse offensivo e andasse ben oltre una mera critica politica, con conseguente superficialità e mancanza di diligenza del docente nel non accorgersene per tempo, emerge dalla sua semplice lettura, essendo innegabile che ad esso sia sotteso un giudizio grossolano e del tutto falso sulle modalità di condotta delle donne che intendono fare carriera politica.


Una conferma in tal senso si ricava, d'altro canto, dal comportamento del medesimo prof. -OMISSIS- successivo alla pubblicazione del "meme", consistito nella sua rimozione, in data 13 novembre 2020, accompagnata da un messaggio in cui egli ha ammesso di essere stato "imprudente" e di essersi poi reso conto che il "meme" era "di cattivo gusto", aggiungendo il suo dispiacere per chi fosse "rimasto male" a causa della pubblicazione stessa.


L'esorbitanza del messaggio dalla mera critica politica giustifica, poi, l'intervento dell'Ateneo quale datore di lavoro del docente, effettuato non certo a tutela della Vice Presidente degli Stati Uniti, ma dell'immagine dell'Università, messa a rischio dalla condotta del professore (da lui stesso definita "imprudente" nel messaggio del 13 novembre 2020).


Non convincono le ulteriori argomentazioni formulate dall'appellante.


Invero, che la condotta serbata in passato dalla Vice Presidente Ha. abbia formato oggetto, negli Stati Uniti, di un ampio dibattito nei media e nell'opinione pubblica, è circostanza irrilevante, poiché la condivisione del "meme" sulla pagina "Facebook" del prof. -OMISSIS- si mostra slegata dall'intento di illustrare in Italia l'evoluzione di tale dibattito per finalità storico-cronachistiche: non vi è, infatti, nessun elemento che dimostri un simile intento nel comportamento dell'interessato, pur essendo egli docente di Storia delle Dottrine politiche presso l'Ateneo milanese.


Il "fraintendimento" che l'appellante imputa al T.A.R. è anch'esso irrilevante, a fronte del carattere intrinsecamente offensivo e degradante per le donne che intendono fare politica, che il messaggio pubblicato riveste.


Da ultimo, è infondato il richiamo alla circostanza che il "meme" recasse un contenuto altrettanto offensivo e sgradevole verosimilmente riferito al neoeletto (a novembre 2020) Presidente Bi., tacciato di demenza, senza che per questo aspetto l'Università abbia promosso alcuna iniziativa disciplinare a carico del docente. In realtà, si tratta di una circostanza che, lungi dal poter essere addotta a difesa dell'appellante (come dal medesimo preteso, giacché proverebbe la tendenziosità dell'interpretazione dell'Università), dimostra semmai il contrario, in quanto conferma il contenuto offensivo posseduto dal "meme" nella sua interezza e, con ciò, la negligente leggerezza del docente nel pubblicarlo sulla sua pagina "Facebook" senza valutarne previamente il tenore.


B) Acclarata, perciò, la complessiva infondatezza del primo gruppo di censure e passando all'analisi del secondo, con lo stesso l'appellante critica la sentenza gravata per avere questa affermato che la condotta del prof. -OMISSIS- ha coinvolto direttamente l'Università e ne ha leso l'immagine e il decoro, in quanto egli si presenta sul suo profilo "Facebook" come docente dell'Università.


Lamenta l'appellante che la sua condotta non avrebbe pregiudicato l'immagine dell'Ateneo, atteso che il contenuto del "meme" da lui condiviso non rappresenterebbe una critica all'Ateneo stesso, né attribuirebbe agli organi di questo comportamenti illeciti, illegittimi o disdicevoli. In proposito, egli richiama l'insegnamento giurisprudenziale che ha escluso lesioni dell'immagine e dell'onorabilità di un'Università anche quando le critiche siano rivolte direttamente alla stessa: a fortiori, non sarebbero ipotizzabili lesioni della predetta immagine e onorabilità quando, come nel caso di specie, si tratti di affermazioni espresse in ambito privato, non riguardanti l'Ateneo.


La tesi che l'opinione che suscita proteste sia ipso facto illegittima e lesiva dell'immagine dell'Ateneo svuoterebbe la tutela accordata dall'art. 21 Cost. alla libertà di manifestazione del pensiero; inoltre il clamore e le proteste suscitati dal "post" condiviso non sarebbero sintomi della perdita di prestigio dell'Università, essendo stato il clamore indotto dal Rettore e dalle reazioni interne alla P.A., nonché dal carattere sensazionalistico volutamente attribuito dalla stampa alla notizia. Non vi sarebbe prova della diminuita considerazione dell'Università degli Studi di Milano tra i consociati, né detta prova potrebbe essere sostituita da presunzioni basate su proteste non disinteressate e per consistenza prive di rilievo.


L'assunto dell'Università di Milano, fatto proprio dalla sentenza di primo grado, violerebbe i diritti del prof. -OMISSIS-, pretendendo di disconoscere l'autonomia della sfera privata dell'essere umano che non coinvolga il ruolo di docente del ricorrente: non esisterebbe, cioè, -OMISSIS-, in qualità di individuo titolare della libertà di esprimere le proprie opinioni in ambito privato, ma sempre e solo il prof. -OMISSIS-, docente dell'Università di Milano, il quale in ogni occasione, anche privata, dovrebbe ricordare tale suo ruolo di professore, che con ogni sua parola può coinvolgere e ledere l'immagine e la reputazione dell'Istituzione per cui lavora.


L'Università si arrogherebbe la pretesa di conformare qualsiasi manifestazione della personalità del ricorrente, senza distinguere i casi in cui egli opera come docente e quelli in cui agisce come semplice individuo, dotato di personalità e di diritti inviolabili: ma in questo modo realizzerebbe un'illegittima interferenza nella vita privata del prof. -OMISSIS-, in violazione dell'art. 8 della Convenzione EDU (che ha ad oggetto il diritto al rispetto della vita privata e familiare).


Le doglianze non sono suscettibili di condivisione.


In via preliminare, deve rilevarsi come l'appellante non abbia contestato l'affermazione, contenuta nella lettera di contestazione degli addebiti inviatagli dal Rettore dell'Università, che nel suo profilo "Facebook" egli si presenta come "Docente di Storia delle Dottrine Politiche". Infatti, nella lettera di osservazioni difensive da lui trasmessa al Rettore, il docente si limita (a pag. 2) a negare che nel "post" "incriminato" o in altri "post", da lui pubblicati sulla sua pagina "Facebook", fossero presenti anche indirettamente cenni e/o richiami all'Università degli Studi di Milano ed alla sua posizione di professore al servizio di detta Istituzione accademica. Non nega, però, la circostanza - ben diversa - di presentarsi a quanti vadano a visionare il suo profilo "social" nella sua veste di docente poc'anzi rammentata e, quindi, di avere egli stesso creato su tale profilo "social" quella commistione tra sfera privata e ruolo pubblico da lui rivestito, che rimprovera all'Ateneo.


In altre parole, l'appellante non contesta che coloro che hanno preso visione del "meme" sulla sua pagina "Facebook" sapessero - o fossero stati messi in condizione di sapere - che lo stesso era stato "condiviso" non da un quivis de populo, ma dal prof. -OMISSIS-, docente di Storia delle Dottrine politiche, il quale aveva speso siffatta sua qualità: ed è di pubblico dominio che l'incarico di docenza in detta materia venisse svolto dal prof. -OMISSIS-, fino alle dimissioni da lui rassegnate con decorrenza dal 4 marzo 2024, presso l'Università degli Studi di Milano.


Inoltre, la natura di "social medium" di "Facebook" e le modalità del suo funzionamento portano ad escludere la possibilità di assimilare le comunicazioni di contenuti attraverso tale strumento alle forme tradizionali di comunicazioni tra privati, come preteso dall'appellante, e tantomeno a mere conversazioni: infatti, i messaggi inseriti nelle bacheche "Facebook" sono potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, tanto che la giurisprudenza consolidata afferma che la diffusione di messaggi diffamatori tramite l'uso di una bacheca "Facebook" integra la diffamazione aggravata punita dall'art. 595, terzo comma, c.p., sotto il profilo dell'offesa arrecata con "qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, proprio perché la condotta così realizzata è capace potenzialmente di raggiungere un numero di persone indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile (cfr. Cass. pen., Sez. V, 16 novembre 2023, n. 14345; id., 25 gennaio 2021, n. 13979). Inoltre, la diffusione di tali messaggi dipende dalla maggiore interazione con le pagine interessate ad opera degli utenti, in quanto l'algoritmo che regola il funzionamento di tale "social network" assegna un valore maggiore ai "post" che ricevono più commenti o che vengono contrassegnati dal "mi piace" o "like" (Cass. pen., Sez. I, n. 4534/2022, cit.).


Ma, allora, deve ritenersi che la commistione ingenerata dallo stesso ricorrente (con la spendita della sua posizione istituzionale sul suo profilo "Facebook" personale) tra la sua sfera privata ed il ruolo pubblico da lui rivestito, in uno con il sistema di funzionamento del "social medium" "Facebook", abbiano comportato l'inevitabile coinvolgimento dell'immagine dell'Università degli Studi di Milano nei contenuti divulgati dal docente stesso su tale canale "social", con conseguente infondatezza delle censure formulate nel motivo ora in esame.


Così inquadrato il problema, infatti, diventa irrilevante che il "meme" condiviso dal professore non esponesse una critica all'Università di Milano, né attribuisse comportamenti illeciti o disdicevoli ad organi della stessa, poiché l'immagine dell'Ateneo è lesa non solo dall'attribuzione a questo di fatti non veritieri o di critiche con toni che eccedano la continenza e la normale dialettica, come afferma l'appellante, ma anche dal coinvolgimento indiretto dell'Ateneo nella condotte di un suo docente, in forza: a) della spendita da parte di quest'ultimo della sua veste e del suo ruolo; b) della diffusione dei messaggi da lui "condivisi" a un numero potenzialmente illimitato di utenti.


Si richiama sul punto l'art. 9 del Codice di comportamento dei dipendenti dell'Università degli Studi di Milano (su cui si tornerà infra), il quale al comma 1 dispone che "il dipendente nei rapporti privati, anche con pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni, [...] non assume alcun comportamento che possa recare danno all'immagine e alla reputazione dell'Università, al fine di preservare la fiducia dei cittadini/utenti".


Gli effetti dannosi del comportamento dell'appellante sull'immagine e sulla reputazione dell'Ateneo appaiono sufficientemente comprovati dalla documentazione (segnatamente: le e-mail di protesta e gli articoli di stampa) prodotta dalla difesa dell'Università nel giudizio di primo grado. Ed anche da questo punto di vista, la conferma di tale quadro emerge dalla condotta del medesimo prof. -OMISSIS- posteriore alla pubblicazione del "meme" e in specie dalla scelta di rimuoverlo in data 13 novembre 2020, dettata dal clamore e dalle reazioni negative suscitate dai contenuti pubblicati, come si evince con chiarezza dal suo messaggio di comunicazione di detta scelta.


L'appellante lamenta che l'Università e con essa il T.A.R. abbiano desunto la lesione dell'immagine dell'Ateneo non da fatti concreti ma da mere presunzioni, ma trascura che, secondo la giurisprudenza, il danno all'immagine può essere provato dal soggetto leso anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, purché fondate su elementi indiziari diversi dal fatto in sé (nel caso qui in esame: non la pubblicazione del "meme" in sé, ma le reazioni che ha suscitato), ed assumendo quali parametri di riferimento la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della vittima (cfr. Cass. civ., Sez. III, ord. 18 febbraio 2020, n. 4005; id., ord. 26 ottobre 2017, n. 25420; in ordine alla possibilità di dimostrare il danno non patrimoniale attraverso il ricorso a presunzioni, purché plurime, precise e concordanti, cfr. C.d.S., Sez. VII, 19 luglio 2022, n. 6262).


Quanto all'affermazione che il clamore sarebbe stato indotto dal Rettore e dalle reazioni "scomposte" interne all'Amministrazione, osserva il Collegio che l'appellante, come nel ricorso di primo grado, ha sottolineato nella ricostruzione dei fatti la condotta del Rettore, il quale avrebbe preannunciato ai giornali la punizione del docente prima ancora di promuovere nei suoi confronti l'azione disciplinare. Tuttavia tale condotta, che sembra confermata dalla documentazione prodotta dallo stesso Ateneo nel giudizio innanzi al T.A.R., non ha formato oggetto di apposita censura nella parte "in diritto", né nel ricorso originario, né nell'appello: ne discende che, in disparte i dubbi sulla sua inopportunità, non censurabile in sede di giudizio di legittimità (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VII, 2 febbraio 2022, n. 743; Sez. V, 16 novembre 2020, n. 7096; id. 23 agosto 2019, n. 5835; Sez. IV, 22 maggio 2017, n. 2380; id., 9 ottobre 2010, n. 7383), a questo Giudice, nell'esercizio del sindacato di legittimità, è preclusa qualsiasi disamina della condotta stessa e delle ipotetiche sue ricadute sugli atti oggetto, essi sì, di specifica impugnazione, in base alla regola processuale per la quale nel processo amministrativo il thema decidendum è delimitato dalle censure ritualmente sollevate dalla parte nel giudizio di primo grado, che circoscrivono anche il perimetro del giudizio di appello ai sensi dell'art. 104 c.p.a. (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 18 luglio 2024, n. 6440; id., 21 agosto 2023, n. 7856; Sez. VI, 15 luglio 2024, n. 6336; id., 30 giugno 2023, n. 6405; id. 29 gennaio 2020, n. 714; Sez. IV, 3 gennaio 2023, n. 108; id., 31 luglio 2018, n. 4715).


Né vi è alcuna traccia, agli atti di questo giudizio, delle reazioni "scomposte" sopra menzionate, che l'appellante, del resto, richiama in modo estremamente generico, senza munire tale allegazione di un idoneo principio di prova.


Per le ragioni fin qui esposte, nel caso di specie non è rinvenibile neppure alcuna violazione dell'art. 8 della Convenzione EDU, cosicché, in definitiva, anche le censure ora analizzate risultano nel loro complesso prive di fondamento.


C) Passando ora al terzo gruppo di censure, con queste l'appellante contesta la sentenza impugnata per avere la stessa disconosciuto la sussistenza di una violazione, ad opera degli atti impugnati, del principio di libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).


In particolare, il docente universitario ha lamentato il concetto "fisico" di limitazione della libertà di manifestazione del pensiero che trasparirebbe dalla sentenza appellata, secondo il quale la punizione inflitta per un pensiero liberamente espresso non costituirebbe una limitazione della manifestazione dello stesso, ma solo una sanzione del suo contenuto. In realtà l'Ateneo, sanzionando il prof. -OMISSIS- per una semplice manifestazione di un pensiero non suo, avrebbe violato numerose norme di rango costituzionale ed altrettante disposizioni di fondamentali carte internazionali.


Anzitutto, l'Università avrebbe disatteso l'art. 21 Cost., che pone alla libertà di manifestazione del pensiero il solo limite espresso del buon costume, il quale nel caso di specie non sarebbe stato violato. Né verrebbero in rilievo gli altri limiti alla predetta libertà riconosciuti dalla giurisprudenza (l'onore, il decoro, la reputazione e l'ordine pubblico). Il "meme" condiviso dall'appellante non costituirebbe un incitamento all'odio di alcun genere, né all'uso della violenza; esso non lederebbe la reputazione di soggetti che hanno reclamato tutela e si inscriverebbe in un contesto di critica politica a personaggi pubblici, per la cui tutela dell'onore e della reputazione la giurisprudenza avrebbe sempre utilizzato - aggiunge l'appellante: correttamente - maglie larghissime.


Mancherebbe un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti, avendo l'Università limitato diritti e libertà di rango costituzionale per la tutela di un interesse che non assumerebbe pari rilievo. Infatti, la sospensione inflitta al prof. -OMISSIS-, oltre a limitare la sua libertà di manifestazione del pensiero, ingenerando a suo carico una "remora" al futuro esercizio di tale libertà fondamentale, inciderebbe sull'altrettanto fondamentale diritto al lavoro del docente, privandolo dei mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia.


Le violazioni lamentate dall'Ateneo non sarebbero paragonabili alle gravissime limitazioni di diritti di rango costituzionale inflitte all'appellante. Il "meme" "incriminato" conterrebbe solo una sorta di sberleffo contro la seconda carica di governo più importante del mondo, esposta ordinariamente alle critiche anche aspre, sarebbe stato condiviso da migliaia di persone nel mondo senza patirne alcuna conseguenza e avrebbe passato il vaglio, tipicamente assai stretto e protettivo nei confronti dei politici appartenenti al Partito Democratico degli Stati Uniti, dei controlli della piattaforma "Facebook". Se anche si fosse trattato di una critica al genere femminile - ciò che l'appellante nega - non avrebbe assunto i caratteri dell'ingiuria, diffamazione o critica oltre i limiti della continenza, all'indirizzo, in ogni caso, di una categoria indeterminata e non di un singolo soggetto individuato, che possa dolersi della lesione di beni costituzionali di cui è titolare.


Tali argomentazioni avrebbero ancora più forza alla luce dell'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e della giurisprudenza della Corte europea espressasi al riguardo. Infatti, secondo il citato art. 10 le limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero sarebbero legittime soltanto se assolutamente necessarie per tutelare la reputazione e i diritti altrui, ma il "meme" condiviso dal prof. -OMISSIS- non avrebbe offeso la reputazione e i diritti dell'Ateneo milanese e quest'ultimo non sarebbe titolato ad agire a tutela della reputazione di soggetti terzi. Non sussisterebbe, poi, il nesso di stretta necessarietà prescritto dall'art. 10 della Convenzione tra la tutela della reputazione e dei diritti altrui (ove effettivamente offesi) e la limitazione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, nonché del diritto al lavoro.


La Corte europea dei diritti dell'uomo - aggiunge l'appellante - ha più volte dichiarato l'illegittimità delle misure restrittive della libertà di manifestazione del pensiero e delle sanzioni "dissuasive", cioè che ingenerano il timore di subire conseguenze gravi nella sfera dei soggetti che vorrebbero esprimere opinioni e critiche nei confronti del potere politico o in occasione di dibattiti pubblici. Anche nel caso del prof. -OMISSIS- la sanzione inflitta, per la sua natura, la genericità dell'addebito che l'ha originata e l'evanescenza dell'interesse tutelato, avrebbe la suddetta natura "dissuasiva", nel senso di dissuadere il docente dal manifestare le sue opinioni private attraverso i "social".


Le doglianze, pur suggestive, non possono essere condivise.


Nel caso di specie, infatti, anche a voler seguire la prospettazione dell'appellante, secondo cui egli ha inteso esercitare il suo diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost. nella forma del diritto di critica politica (il che, peraltro, come si è avuto modo di osservare, lascerebbe presupporre l'adesione da parte sua al contenuto del "meme" divulgato), non risultano rispettati i limiti della verità e della continenza, cioè i limiti che sono stati individuati dalla giurisprudenza consolidata quale forma di bilanciamento di tale diritto fondamentale con altri diritti anch'essi fondamentali, e segnatamente con i diritti alla dignità, al decoro e alla reputazione delle persone.


Invero, in una recente pronuncia di cui è opportuno richiamare i passaggi fondamentali la Cassazione penale (Sez. V, 18 gennaio 2021, n. 8898) ha offerto rilevanti spunti ricostruttivi in ordine al limite all'esercizio del diritto di critica.


Ritiene il Collegio che, nonostante la differenza fra le due res controversae (nel caso definito dalla Corte di cassazione veniva infatti in rilievo una fattispecie di reato-diffamazione), i richiamati spunti risultino certamente rilevanti anche ai fini del presente giudizio


È stato al riguardo evidenziato che "il diritto di critica, rappresentando l'esternazione di un'opinione relativamente a una condotta ovvero a un'affermazione altrui, si inserisce nell'ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 della Carta costituzionale e dall'art. 10 della Convenzione EDU.


Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminante, ai sensi dell'art. 51 c.p., rispetto al reato di diffamazione, purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva".


Preliminarmente rispetto alla verifica dei requisiti in discorso, la pronuncia in esame ha ribadito che "la nozione di "critica" rimanda non solo all'area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all'oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. Limiti che sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall'art. 2 Cost., onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell'espressione, né trasmodare nell'invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico (Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866)".


Venendo al requisito della continenza, la sentenza in commento sottolinea come lo stesso riguardi "un aspetto sostanziale e un profilo formale.


La continenza sostanziale, o "materiale", attiene alla natura e alla latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all'interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia: essa si riferisce, dunque, alla quantità e alla selezione dell'informazione in funzione del tipo di resoconto e dell'utilità/bisogno sociale di esso.


La continenza formale attiene, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione: essa postula, quindi, una forma espositiva proporzionata, "corretta" in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere. Questo significa che le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con la parola o qualunque altro mezzo di diffusione, di rilevanza e tutela costituzionali ( ex art. 21 Cost.), postulano una forma espositiva corretta della critica - e cioè astrattamente funzionale alla finalità di disapprovazione - senza trasmodare nella gratuita e immotivata aggressione dell'altrui reputazione.


Si ritiene, peraltro, che essa non sia incompatibile con l'uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti (Sez. 5, n. 11905 del 05/11/1997, G, Rv. 209647).


In realtà, secondo il consolidato canone ermeneutico di questa Corte, al fine di valutare il rispetto del criterio della continenza, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio - temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione, proporzionati al fatto narrato e funzionali al concetto da esprimere (Sez. 5 n. 32027 del 23/03/2018, Rv. 273573).


Con questo si intende ribadire che la diversità dei contesti nei quali si svolge la critica, così come la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta, possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi: sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la "misura" delle espressioni consentite (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, P.M in proc. Surano, Rv. 261122; Sez. 5, n. 21145 del 18/04/2019 Rv. 275554).


Compito del giudice è, dunque, quello di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell'ambito di un contesto critico e funzionale all'argomentazione, così da escludere l'invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario (Sez. 5 n. 31669 del 14/04/2015, Rv. 264442), con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti (Sez. 5 n. 15060 del 23/02/2011, Rv. 250174).


Il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta può, sì, essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può mai scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona in quanto tale (Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866). Si è così affermato che esula dai limiti del diritto di critica l'accostamento della persona offesa a cose o concetti ritenuti ripugnanti, osceni, o disgustosi, considerata la centralità che i diritti della persona hanno nell'ordinamento costituzionale (Sez. 5 n. 50187 del 10/05/2017, Rv. 271434)".


Tirando le somme del discorso ora visto, il Giudice, al fine di verificare se la fattispecie portata al suo esame costituisca o meno legittimo esercizio del diritto di critica, dovrà preliminarmente stabilire se il contenuto della comunicazione rivolta a più persone rechi in sé la portata lesiva della reputazione altrui. Una volta compiuto detto accertamento, la sua attenzione dovrà spostarsi sulla verifica della sussistenza dei requisiti di verità e continenza: quest'ultimo requisito postula, in specie, una forma espositiva corretta della critica rivolta e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione (cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 22 maggio 2024 n. 29661).


Con specifico riguardo alle condotte realizzate mediante "social network" (com'è nella vicenda ora in esame), secondo la giurisprudenza costituisce legittimo esercizio del diritto di critica politica la diffusione, con mezzo di pubblicità, di giudizi negativi circa condotte biasimevoli poste in essere da amministratori pubblici, purché la critica prenda spunto da una notizia vera, si connoti di pubblico interesse e non trascenda in un attacco personale (Cass. pen., Sez. V, 7 maggio 2024, n. 34057; id., 28 marzo 2024, n. 17326; id., 10 novembre 2022, n. 4530; id., 21 luglio 2009, n. 41767). In merito a quest'ultimo profilo, la valutazione del requisito della continenza comporta che si debba tenere conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che si deve ritenere superato quando la persona offesa, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al pubblico disprezzo (Cass. pen., Sez. V, n. 8898/2021, cit.).


La giurisprudenza ha altresì specificato che nella valutazione del requisito della continenza si deve tenere conto del complessivo contesto in cui si realizza la condotta e verificare che i toni utilizzati, sebbene aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma risultino, invece, pertinenti al tema in discussione: ove i commenti pubblicati siano gratuiti, offensivi e tutt'altro che funzionali alla denuncia dell'episodio cui si riferisce la critica, allora gli stessi non potranno ritenersi compresi nei limiti di una continenza espressiva, pur se aspra e pungente (Cass. pen., Sez. V, 31 maggio 2023, n. 36468).


Orbene, nel caso di specie si è già avuto modo di evidenziare il carattere sgradevole e grossolano del messaggio veicolato dal "meme" contestato, che non si limita a una (legittima) critica politica aspra rivolta alla Vice Presidente e al Presidente degli Stati Uniti d'America, ma contiene un giudizio gratuitamente offensivo per le "giovani ragazze" sulle modalità da seguire per fare carriera politica, così venendo meno al requisito di continenza, per come sopra ricordato.


Da un lato, dunque, nella fattispecie in esame non si ravvisano violazioni del diritto di libertà sancito dall'art. 21 Cost., avendo l'appellante oltrepassato i limiti del legittimo esercizio del diritto di critica, scolpiti dalla giurisprudenza a tutela di diritti anch'essi di portata fondamentale. Nel bilanciamento dei diversi interessi, l'Ateneo prima e il T.A.R. poi non hanno fatto altro che applicare, correttamente, i suddetti limiti, e in specie quello della continenza, al cui rispetto l'appellante era tenuto sia uti civis, sia, ancora di più, nella sua veste di educatore, fortemente sottolineata dall'Università nei propri atti: con il ché si deve escludere che la sanzione irrogatagli abbia avuto le connotazioni "dissuasive", e in sostanza intimidatorie, che il prof. -OMISSIS- pretende di riconnettervi.


Gli altri diritti fondamentali del docente, e segnatamente quelli al lavoro e alla retribuzione, risultano adeguatamente tutelati dalla normativa sopra ricordata, con il graduare la sanzione in relazione alla gravità della condotta posta in essere e con il concedere al dipendente sospeso in via disciplinare un assegno alimentare (art. 82 del T.U. n. 3/1957): assegno, la cui corresponsione all'appellante viene esplicitamente accordata dal provvedimento impugnato.


Neppure si può affermare che il tenore del messaggio giudicato offensivo dall'Ateneo fosse rivolto, in realtà, a un destinatario indeterminato, visto il riferimento in esso contenuto alle "giovani ragazze" interessate alla carriera politica.


Da ultimo, anche a voler affermare che l'Università abbia inteso emettere un "caveat" nei confronti del docente, lo stesso si ricollega legittimamente alla veste di pubblico educatore (in una posizione di particolare rilievo) da lui ricoperta: è questo un aspetto già visto (e di cui ci si dovrà ancora occupare in sede di analisi del quarto gruppo di censure), dal quale non si può prescindere, perché la suddetta veste, che d'altronde l'appellante fa valere anche sul suo profilo "social", vale a differenziarne la posizione dagli altri consociati e a provocare alcune restrizioni della sua sfera giuridica soggettiva, anche nei rapporti privati. Ciò trova un'innegabile conferma nell'assoggettamento dell'appellante, al pari degli altri docenti, al Codice di comportamento dei dipendenti dell'Università di Milano, che contiene una specifica disposizione (l'art. 9) dedicata alle condotte che i dipendenti devono mantenere nei rapporti privati, nonché al "Codice etico e per l'integrità della ricerca" adottato dall'Ateneo, il quale all'art. 8, comma 5, stabilisce che "nell'utilizzo dei mezzi di comunicazione, inclusi i social media,i componenti dell'Università si impegnano a non recare danno al prestigio e all'immagine dell'Università e a rispettare la riservatezza delle persone, salvo il legittimo esercizio della libera manifestazione del pensiero e della libertà di critica".


Per questo verso, nemmeno soccorre l'appellante la circostanza, da lui dedotta come specifica censura nel ricorso di primo grado, della vicenda di altro docente dello stesso Ateneo resosi protagonista anni fa di una condotta asseritamente analoga e al quale, però, l'Ateneo, per il tramite del Rettore, avrebbe riconosciuto la scriminante dell'esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero. Ciò, per la decisiva ragione, evidenziata dal T.A.R., che il vizio di disparità di trattamento non è configurabile quando si ha come parametro di riferimento un atto eventualmente adottato dall'Amministrazione contra legem (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VII, 28 maggio 2024, n. 4764; Sez. IV, 2 luglio 2021, n. 5070; id., 7 giugno 2021, n. 4351; Sez. V, 18 novembre 2003, n. 7314): le eventuali illegittimità in favore di un altro soggetto, infatti, non legittimano mai l'estensione anche alla parte richiedente dello stesso trattamento contra legem poiché, alla stregua del principio di legalità, la legittimità dell'operato della P.A. non può essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione (cfr. C.d.S., Sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987; id., 30 dicembre 2019, m. 8893). Pertanto, qualora le due situazioni fossero effettivamente sovrapponibili (il che qui non interessa, vista la mancata riproposizione della doglianza in appello), sarebbe incorsa in errore l'Università nel non riconoscere anche in passato l'assoggettamento del docente interessato al suindicato limite della continenza nella manifestazione del pensiero.


In conclusione, nel caso ora in esame non sono ravvisabili violazioni della libertà di manifestazione del pensiero garantita dall'art. 21 Cost. e dall'art. 10 della Convenzione EDU.


D) Venendo al quarto gruppo di censure, esso ha ad oggetto la motivazione della sentenza di prime cure che ha ritenuto che la condotta del docente rientrasse fra quelle previste dall'art. 9, comma 1, del Codice di comportamento dell'Università, secondo cui il dipendente, nei rapporti privati: a) non usa in modo improprio la posizione che ricopre nell'Ateneo; b) "non assume alcun comportamento che possa recare danno all'immagine e alla reputazione dell'Università, al fine di preservare la fiducia dei cittadini/utenti". Sulla base di tale previsione normativa, l'Università ha inflitto all'appellante la sospensione dalle funzioni, per effetto del combinato disposto dell'art. 15 del medesimo Codice di comportamento (che assegna rilevanza disciplinare alla violazione degli obblighi previsti dal Codice in discorso) e dell'art. 54, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001. La sanzione della sospensione, come si è visto, è prevista dall'art. 89, primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933 per gli "atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore".


L'appellante contesta che la sua condotta rientri nella fattispecie di cui al riferito art. 9, né in alcuna altra fattispecie, non avendo rilievo disciplinare. Infatti, la disciplina dell'Università (per l'esattezza: l'art. 33, comma 5, dello Statuto) rimanda alle sanzioni previste dal r.d. 1592/1933, tuttavia - lamenta l'appellante - l'art. 89 del regio decreto prevede la sospensione dall'ufficio e dallo stipendio solo per "abituale mancanza ai doveri di ufficio" e non già per una condotta che, ai sensi dell'art. 9 del citato Codice di comportamento, possa recare danno all'immagine e alla reputazione dell'Università, al fine di preservare la fiducia dei cittadini/utenti: orbene, la condotta del prof. -OMISSIS- sarebbe priva del requisito dell'abitualità (essendo la sanzione inflittagli la prima e l'unica da lui subita) e, dunque, non si configurerebbe come abituale mancanza ai doveri d'ufficio.


Qualora, invece, si intendesse ricondurre la condotta in questione alla categoria degli "atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore" prevista anch'essa dall'art. 89 cit. - come ha fatto la sentenza gravata -, si fuoriuscirebbe in ogni caso dall'art. 9 del Codice di comportamento, che individua condotte rilevanti disciplinarmente in quanto lesive dell'immagine dell'Ateneo: infatti, per esplicita indicazione dell'art. 15 del Codice, le condotte lesive della predetta immagine rientrano fra le violazioni dei doveri d'ufficio, le quali violazioni, però, per avere rilievo disciplinare devono, ai sensi del già visto art. 89 del r.d. n. 1592/1933, essere abituali. E nel caso ora in esame - ribadisce l'appellante - la sua condotta sarebbe priva del requisito dell'abitualità.


Il docente aggiunge che: 1) la lettera di contestazioni inviatagli dal Rettore farebbe riferimento solo a condotte private che ledono l'immagine dell'Università e mai a condotte che ledono l'onore del professore; 2) la delibera del Consiglio di Amministrazione non recherebbe richiami alla fattispecie degli "atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore".


Sotto ulteriore profilo, l'appellante nega che la fattispecie che lo riguarda sia sussumibile all'interno dell'art. 9 del Codice di comportamento per le seguenti ragioni, tra loro concatenate.


- Anzitutto, perché l'espressione di un pensiero, nell'ambito della sfera privata, non avente a oggetto l'attribuzione all'Università di condotte false, o critiche all'Ateneo oltre i limiti della continenza, non potrebbe ledere l'immagine e la reputazione dell'Università stessa. Una diversa interpretazione del citato art. 9 farebbe venir meno i fondamentali requisiti della tassatività, della determinatezza e della prevedibilità nell'individuazione delle condotte lesive della suddetta immagine e reputazione, poiché il docente non saprebbe mai ciò che è lecito manifestare per l'Università e ciò che invece è precluso. Inoltre, in base all'art. 1, comma 3, del Codice di comportamento, per i docenti universitari le norme del Codice stesso costituirebbero solo principi generali, e non norme di dettaglio che regolano la loro condotta. Facendo uso della distinzione tra norme e principi, allora, l'art. 9 del predetto Codice non sarebbe applicabile in maniera restrittiva onde punire condotte come quella ascritta al prof. -OMISSIS-. In aggiunta l'appellante osserva che se egli avesse espresso il pensiero contenuto nel "meme" durante la sua attività di docente, sarebbe stato di certo tutelato dalla libertà d'insegnamento ex art. 33 Cost.; la manifestazione di un'opinione di carattere generale su un tema di politica internazionale tramite un "social network" non potrebbe ledere la lealtà e l'imparzialità del docente universitario, né la qualità dei servizi resi. Da ultimo, il Codice di comportamento sarebbe stato redatto per tutelare soprattutto interessi pubblici relativi alla prevenzione della corruzione, alla qualità dei servizi e all'imparzialità del pubblico dipendente: la disciplina delle condotte private dei docenti - in specie di quelle in cui si concretizza la libera manifestazione del pensiero - sarebbe, di conseguenza, estranea al suindicato Codice.


- In secondo luogo, perché il ricorrente ha sostenuto innanzi al T.A.R. e ribadisce in appello che la condotta da lui tenuta potrebbe al più rientrare tra quelle descritte dal Codice etico, con esclusione di una sua rilevanza disciplinare e con inapplicabilità della sanzione della sospensione dall'ufficio, non prevista dal Codice etico. In particolare, alla fattispecie avrebbe dovuto applicarsi l'art. 8, comma 5, di detto Codice (che, come già visto, disciplina l'uso dei "social media" da parte dei "componenti dell'Università"), cosicché avrebbe errato il T.A.R. nel richiamare l'art. 16, comma 2, del Codice di comportamento, che, in caso di concorso tra violazione disciplinare e violazione del Codice etico, dà prevalenza al procedimento disciplinare: infatti, al contrario di quanto afferma il Tribunale, nel caso di specie si applicherebbe, in base ai principi di specialità e di tassatività, la norma del Codice etico, trattandosi della sola norma regolante la comunicazione a mezzo "social media". Deporrebbe in tale senso anche il fatto che solo con d.P.R. del 13 giugno 2023 è stato inserito nel d.P.R. n. 62/2013 (c.d. Codice di comportamento nazionale) l'art. 11-ter, che disciplina l'utilizzo dei "social media" da parte dei dipendenti pubblici, con cui hanno assunto rilievo disciplinare le lesioni al prestigio, al decoro o all'immagine dell'Amministrazione di appartenenza conseguenti all'utilizzo dei "social media": con il ché - osserva l'appellante - anteriormente a tale novella, emanata in attuazione dell'art. 54, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165/2001, e dunque all'epoca dei fatti qui in esame, non sarebbe stato possibile considerare illecita una condotta come quella da lui tenuta. Orbene, in base al citato art. 8 del Codice etico la condotta del docente universitario non potrebbe assumere rilevanza disciplinare allorché essa costituisca legittimo esercizio della manifestazione del pensiero su tematiche generali interessanti il dibattito pubblico internazionale. Peraltro, anche nella denegata ipotesi di violazione del predetto art. 8, la conseguenza non potrebbe essere l'inflizione della sanzione disciplinare irrogata al prof. -OMISSIS-, ciò essendo escluso dall'art. 46 del medesimo Codice etico, che non contempla la sospensione tra le sanzioni da esso previste. Se poi l'art. 8, comma 5, del Codice etico dovesse intendersi nel senso di vietare manifestazioni del pensiero come quella per cui è causa, lo stesso risulterebbe illegittimo e da annullare (tanto che il docente lo ha impugnato in via subordinata).


Le doglianze, che in parte ripropongono quelle dedotte con il secondo e terzo gruppo di censure, non sono suscettibili di positivo apprezzamento.


In via preliminare, con riferimento alla riproposizione dei profili già dedotti con il secondo e il terzo gruppo di censure, si rinvia a tutto quanto si è già detto più sopra a confutazione degli stessi: ciò vale, tra l'altro, per le questioni attinenti alla lesione all'immagine e alla reputazione dell'Università e per i limiti al legittimo esercizio del diritto di critica e, più in generale, alla libertà di manifestazione del pensiero, che non può essere concepita come libertà di offendere in maniera gratuita ed impunemente chiunque.


È d'uopo, quindi, richiamare in questa sede quanto detto sopra circa l'utilizzo da parte dell'odierno appellante, nei "social media", della sua qualità di docente universitario, per trarne il corollario che, a tale stregua, è innegabile come la condotta rimproveratagli abbia integrato sia la fattispecie prevista dall'art. 9 del Codice di comportamento dell'Università, sia quella contemplata dall'art. 89, primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933. Egli infatti, ha tenuto nei suoi rapporti privati - in particolare, con la pubblicazione sulla sua pagina "Facebook del "meme" incriminato - un comportamento tale da poter "recare danno all'immagine e alla reputazione dell'Università" (art. 9 del Codice) e allo stesso tempo detto comportamento ha integrato la fattispecie degli "atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore", contemplata dall'art. 89, primo comma, lett. d), del regio decreto, che vi riconnette le sanzioni di cui ai nn. da 2 a 5 del precedente art. 87 (e dunque anche la sanzione della sospensione dall'ufficio e dallo stipendio).


A quest'ultimo riguardo, non corrisponde al vero che l'Università non abbia richiamato la fattispecie prevista dal citato art. 89, primo comma, lett. d), il richiamo essendo contenuto nell'art. 33, comma 5, dello Statuto dell'Ateneo, a sua volta menzionato in modo esplicito nel decreto di irrogazione della sanzione. Il docente, del resto, non poteva ignorare che per la condotta rimproveratagli egli avrebbe potuto essere punito con la sospensione dall'ufficio e dallo stipendio, cioè con una sanzione più grave della censura, visto che, ai sensi del già ricordato art. 33, comma 2, dello Statuto dell'Università, il procedimento disciplinare si svolge innanzi al Collegio di disciplina (com'è avvenuto nella vicenda in esame) quando riguarda fatti che possano dare luogo "all'irrogazione di una sanzione più grave della censura fra quelle previste dall'articolo 87 del TU delle leggi sull'Istruzione superiore di cui al regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592".


La riconducibilità della condotta alle previsioni dei citati artt. 9 e 89, primo comma, lett. d), esclude che nel caso di specie siano configurabili violazioni dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie e di prevedibilità dei comportamenti sanzionabili; inoltre, il fatto che la condotta sia stata tenuta dal professore al di fuori dell'insegnamento universitario rende fuorviante ogni richiamo alle guarentigie spettanti ai sensi dell'art. 33 Cost. per il suddetto insegnamento.


Non può essere condiviso l'utilizzo strumentale della distinzione tra norme e principi per farne discendere una presunta esenzione del docente dei doveri di cui all'art. 9 del Codice di comportamento: questo, per inciso, ha ad oggetto specifico i comportamenti dei dipendenti dell'Università "nei rapporti privati", il che va a confutare la tesi dell'appellante secondo cui la disciplina delle condotte private dei docenti sarebbe estranea al suindicato Codice.


Erronea è poi l'argomentazione che sostiene l'esorbitanza della fattispecie dagli ambiti delle condotte aventi rilevanza disciplinare in ragione dell'assenza del requisito dell'abitualità della violazione dei doveri d'ufficio, poiché essa discende da un fraintendimento nell'interpretazione delle norme che regolano la fattispecie stessa.


Invero l'abitualità nella violazione dei doveri d'ufficio è requisito di un'altra e distinta fattispecie di condotta rilevante a livello disciplinare contemplata dall'art. 89, primo comma, del r.d. n. 1592/1933, quella, cioè, della lett. b), che prevede, appunto, l'"abituale mancanza ai doveri di ufficio" (oltre che di quella della lett. c), avente ad oggetto l'"abituale irregolarità della condotta", che in questa sede non rileva). Nel caso ora in esame, invece, assume rilievo la diversa previsione della lett. d), avente a oggetto, come visto, gli "atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore": per questi la norma non richiede per nulla che consistano in condotte abituali, potendo perciò trattarsi, come nella vicenda del prof. -OMISSIS-, di comportamenti singoli.


D'altro canto, non corrisponde al vero che le violazioni dei doveri di ufficio da parte del professore universitario, per avere rilevanza disciplinare, debbano essere "abituali". Il requisito dell'abitualità, infatti, è previsto solo per le fattispecie di responsabilità disciplinare di cui all'art. 89, primo comma, lett. b) e lett. c), del r.d. n. 1592/1933, estranee al caso ora in esame, mentre non è prescritto né dalla lett. d) dell'art. 89, primo comma, cit., né dal Codice di comportamento dell'Università. Quest'ultimo, infatti, all'art. 15, comma 1, si limita a disporre che le violazioni degli obblighi da esso stabiliti - e quindi, per quanto di interesse, degli obblighi di cui all'art. 9 (nonché degli obblighi del Codice di comportamento Nazionale e degli obblighi e doveri del Piano Nazionale Anticorruzione e del Piano triennale di prevenzione della corruzione dell'Ateneo) - "integra comportamenti contrari ai doveri d'ufficio e determina responsabilità disciplinare accertata all'esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni [...]": l'art. 15, comma 1, non richiede, dunque, che le ridette violazioni, per determinare responsabilità disciplinare, debbano essere abituali, né il requisito dell'abitualità è previsto per alcuna delle condotte elencate dal precedente art. 9 del Codice di comportamento dell'Università.


In altre parole, le violazioni da parte del dipendente universitario degli obblighi previsti dal Codice di comportamento dell'Ateneo costituiscono atti contrari ai doveri d'ufficio e integrano responsabilità disciplinare: vi rientrano anche le condotte di cui all'art. 9 del predetto Codice e, quindi, l'assunzione di un comportamento "che possa recare danno all'immagine e alla reputazione dell'Università, al fine di preservare la fiducia dei cittadini/utenti". Per individuare la sanzione applicabile all'illecito disciplinare si fa riferimento all'art. 89 del r.d. n. 1592/1933 (cui, come detto, rinvia l'art. 33, comma 5, dello Statuto dell'Ateneo), cosicché ove l'atto contrario ai doveri d'ufficio abbia carattere abituale, rientrerà nelle previsioni della lett. b) del citato art. 89, primo comma, mentre ove esso non abbia tale carattere, potrà rientrare in una delle altre ipotesi dell'art. 89, tra cui quella degli "atti in genere, che comunque ledano la dignità o l'onore del professore", contemplata dalla lett. d).


In definitiva, l'erroneo convincimento dell'appellante, secondo cui la condotta attribuitagli, ritenuta lesiva dell'immagine dell'Ateneo, per poter dare luogo all'applicazione di una sanzione disciplinare avrebbe dovuto avere il requisito dell'abitualità, è frutto di un equivoco. L'appellante, infatti, si fonda sul fatto che, in base all'art. 15 del Codice di comportamento dell'Università, la condotta in questione rappresenta una violazione dei doveri d'ufficio, ma l'equivoco consiste nel ritenere che, ai sensi del combinato disposto del succitato art. 15 e dell'art. 89 del r.d. n. 1592/1933, le violazioni dei doveri d'ufficio, per poter essere sanzionate a livello disciplinare, debbano essere abituali: tuttavia, nessuna disposizione, tantomeno quelle invocate dall'appellante, giustifica una simile conclusione.


Dunque, la condotta tenuta dal docente ha rilevanza disciplinare e ciò è sufficiente ad escludere che alla stessa possano applicarsi le disposizioni del Codice etico, pur se in ipotesi anch'esse violate, visti - come giustamente osserva il T.A.R. - il principio del ne bis in idem e la clausola di specialità dettata dall'art. 16 del Codice di comportamento (che privilegia il "canale disciplinare", ove una medesima condotta rilevi sia disciplinarmente sia come violazione del Codice etico, cosicché entrambi i canali siano in astratto praticabili).


L'infondatezza anche per questo verso delle doglianze dell'appellante emerge con chiarezza, ove si consideri:


a) che la preferenza per il "canale disciplinare" espressa dall'art. 16 del Codice di comportamento si mostra del tutto logica e ragionevole, atteso che, di fronte a condotte che integrino, al tempo stesso, violazioni sia del Codice di comportamento sia del Codice etico, l'applicazione delle sole sanzioni previste dal Codice etico - che lo stesso appellante ammette essere più lievi - sarebbe discriminatoria e ingiusta nei confronti dei soggetti che abbiano posto in essere, invece, condotte integranti violazioni del solo Codice etico e non anche del Codice di comportamento;


b) che comunque la clausola di specialità di cui al citato art. 16 esprime un favor per il soggetto che abbia violato sia il Codice di comportamento, sia il Codice etico, poiché evita una duplicazione delle sanzioni a suo danno, tenuto conto che, in difetto di una simile clausola, una stessa condotta, qualora integrante una violazione sia del Codice di comportamento, sia del Codice etico, sarebbe punita con le sanzioni previste sia dall'uno, sia dall'altro, con un'applicazione del meccanismo del bis in idem assai penalizzante per l'autore dell'(unica) condotta.


Inoltre l'appellante, con l'insistere sul criterio di specialità quale strumento per individuare la norma applicabile alla fattispecie, optando per l'art. 8, comma 5, del Codice etico, quale unica disposizione specifica dedicata all'uso dei "social media" da parte dei dipendenti dell'Università, non considera la gerarchia delle fonti. Infatti, secondo il criterio di gerarchia delle fonti (che osta all'applicazione del criterio di specialità, il quale si applica in presenza di un'antinomia o un concorso tra due norme pari ordinate nella gerarchia delle fonti: C.d.S., Sez. IV, 14 giugno 2024, n. 5357; id., 16 febbraio 2012, n. 812; Sez. V, 24 ottobre 2023, n. 9210; id., 7 giugno 2022, n. 4643), sulla disciplina di cui all'art. 8, comma 5, del Codice etico dell'Ateneo prevale quella dell'art. 89, primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933, in base alla quale sono sanzionabili gli atti "che comunque ledano la dignità o l'onore del professore" (a prescindere dallo strumento con cui detta lesione viene prodotta e dunque anche se la stessa consegue all'utilizzo in modo inappropriato dei "social media").


Quale logico corollario di quanto appena esposto, risultano infondate le censure dell'appellante sull'inapplicabilità, nei suoi confronti, della sanzione della sospensione dall'ufficio e dallo stipendio, siccome non contemplata dall'art. 46 del Codice etico, poiché la stessa, come detto, è applicabile alla fattispecie che lo riguarda ai sensi del combinato disposto degli artt. 87 e 89 primo comma, lett. d), del r.d. n. 1592/1933.


Analogamente, risultano infondate le argomentazioni che l'appellante pretende di desumere dalla normativa del giugno 2023 intervenuta a dare attuazione all'art. 54, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165/2001 in tema di disciplina, da parte del Codice di comportamento nazionale, del corretto utilizzo ad opera dei dipendenti pubblici delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e "social media", "anche al fine di tutelare l'immagine della pubblica amministrazione" (comma 1-bis il quale, peraltro, è anch'esso posteriore all'episodio per cui è causa, essendo stato inserito dall'art. 4, comma 1, lett. a), del d.l. n. 36/2022, conv. con l. n. 79/2022). Parimenti, non rileva l'impugnazione, in via subordinata, del riferito art. 8, comma 5, del Codice etico, stante la sua inapplicabilità alla fattispecie per cui è causa.


In definitiva, quindi, anche il quarto gruppo di censure dedotte dall'appellante risulta nel complesso destituito di fondamento.


Venendo, da ultimo, all'analisi del quinto gruppo di censure, con questo il prof. -OMISSIS- si duole del mancato accoglimento del motivo di ricorso inerente all'illegittimità da cui sarebbe affetta la sanzione inflittagli, perché emessa in violazione del principio di proporzione.


Non sarebbe vero - lamenta l'appellante - che la sospensione fosse l'unica misura afflittiva possibile, residuando la mera censura o le sanzioni previste dal Codice etico. Il provvedimento sanzionatorio, quindi, apparirebbe illogico e contraddittorio, perché da un lato l'Università avrebbe ripetuto, in tutti i propri atti, che: 1) la condotta è consistita nella sola condivisione di un "meme"; 2) è riconosciuta e tutelata a livello costituzionale la libertà di manifestazione del pensiero; 3) il "meme" è stato rimosso prontamente ed in maniera spontanea dal professore; 4) quest'ultimo ha pubblicato un messaggio di chiarimenti nel quale ha precisato di non avere voluto offendere nessuno e di non abbracciare nessuna idea discriminatoria. Dall'altro lato, tuttavia, l'Ateneo avrebbe irrogato al docente una sanzione così grave da colpire il suo diritto al lavoro, alla retribuzione necessaria, ex art. 36 Cost., a condurre una vita libera e dignitosa, e alla libera manifestazione del pensiero, laddove le considerazioni poc'anzi riportate ai nn. da 1) a 4) avrebbe dovuto indurre l'Università ad archiviare il procedimento o ad una sanzione più mite. Di qui - conclude l'appellante - la sussistenza del vizio di eccesso di potere per contraddittorietà e per mancata applicazione del principio di proporzionalità.


Le doglianze non possono essere condivise.


In via preliminare il Collegio richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la valutazione della P.A. sulla gravità dei fatti addebitati in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale in sede di giudizio di legittimità, salvo che nelle ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l'evidente sproporzionalità e il travisamento. Spetta alla P.A., in sede di adozione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l'infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base a un apprezzamento di larga discrezionalità. "Le valutazioni in ordine al convincimento sulla gravità delle infrazioni e alla conseguente sanzione da infliggere sono dunque connotate da amplissima discrezionalità: ciò in considerazione degli interessi pubblici che devono essere attraverso tale procedimento tutelati. Quindi, il provvedimento disciplinare sfugge ad un pieno sindacato di legittimità del giudice, il quale non può sostituire le proprie valutazioni a quelle operate dall'Amministrazione, salvo che queste ultime siano inficiate da travisamento dei fatti, evidente sproporzionalità o qualora il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente ovvero sia viziato da palese irrazionalità" (così C.d.S., Sez. II, 21 agosto 2023, n. 7886; cfr. altresì, ex multis, Sez. II, 4 aprile 2024, n. 3107; Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2629; id., 16 giugno 2020, n. 3869; id., 10 febbraio 2020, n. 1013; id., 21 gennaio 2020, n. 484; id., 6 giugno 2019, n. 3824; id., 9 marzo 2018, n. 1507; Sez. VI, 16 agosto 2017, n. 4012; id., 20 aprile 2017, n. 1858; id., 16 aprile 2015, n. 1968; id., 22 marzo 2007, n. 1350; Sez. III, 5 giugno 2015, n. 2791; id., 20 marzo 2015, n. 1537). Ma nessuno dei vizi suesposti è ravvisabile nel provvedimento impugnato.


Con specifico riferimento al lamentato difetto di proporzionalità, osserva il Collegio, a confutazione della doglianza, che la sanzione concretamente irrogata al prof. -OMISSIS- è stata la sospensione per un mese dall'ufficio e dallo stipendio e cioè la sanzione meno afflittiva - a parte la censura - tra quelle elencate dall'art. 87 del r.d. n. 1592/1933: in detto elenco, strutturato secondo un ordine ascendente, la sospensione è infatti collocata al n. 2) su un totale di cinque. Quanto alla durata della sospensione, la stessa è stata inflitta al docente in misura pari a un dodicesimo del massimo, che l'art. 87 cit. fissa in un anno.


Da questi elementi si ricava, dunque, che le circostanze attenuanti sopra riferite dal docente sono state attentamente vagliate dalla P.A.: del resto, anche l'appellante ammette che l'Ateneo le ha riconosciute e menzionate "in tutti gli atti istruttori e nel provvedimento finale".


Pertanto, nella condotta della P.A. non è ravvisabile nessuna violazione del principio di proporzione, né alcuna contraddittorietà, avendo l'Università operato in piena conformità all'art. 15, comma 1, del Codice di comportamento, il quale, come già accennato, afferma che la responsabilità disciplinare conseguente alla violazione dei doveri del Codice stesso viene "accertata all'esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni".


In conclusione, l'appello è infondato, vista l'infondatezza di tutte le doglianze con lo stesso dedotte, e deve perciò essere respinto, dovendo la sentenza gravata essere confermata.


Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre l'integrale compensazione tra le parti costituite delle spese del giudizio di appello, attesa la rilevante complessità delle questioni affrontate, mentre non si fa luogo a pronuncia sulle spese nei confronti del M.U.R., non costituitosi in giudizio.


P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Settima (VII), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.


Compensa le spese del giudizio di appello tra le parti costituite.


Nulla spese nei confronti del Ministero dell'Università e della Ricerca, non costituitosi in giudizio.


Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.


Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e all'art. 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti e della dignità della parte interessata, dà mandato alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo a consentire l'identificazione della parte appellante.


Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2024, con l'intervento dei magistrati:


Claudio Contessa, Presidente


Massimiliano Noccelli, Consigliere


Angela Rotondano, Consigliere


Sergio Zeuli, Consigliere


Pietro De Berardinis, Consigliere, Estensore


DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 23 DIC. 2024.



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