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La bancarotta fraudolenta nel Codice della crisi d’impresa

Aggiornamento: 30 ago

La bancarotta fraudolenta nel Codice della crisi d’impresa

Indice:

1. Introduzione

Tra le fattispecie più emblematiche del diritto penale dell’economia, la bancarotta fraudolenta occupa un ruolo di assoluto rilievo, al punto da essere stata definita “la regina dei reati fallimentari” (Pedrazzi).

La sua centralità non si misura soltanto in termini quantitativi – poiché rappresenta una delle contestazioni più frequenti nei procedimenti per crisi d’impresa – ma soprattutto sul piano qualitativo, quale snodo in cui si intrecciano esigenze eterogenee: la salvaguardia delle garanzie dei creditori, la tutela della trasparenza contabile, la stabilità dei traffici economici e, non da ultimo, il rispetto delle garanzie difensive dell’imputato.

Nonostante la portata epocale della riforma recata dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), il legislatore ha scelto di mantenere pressoché intatto l’impianto penal-fallimentare, limitandosi a una sostituzione terminologica – “liquidazione giudiziale” al posto di “fallimento” – più simbolica che sostanziale.

Gli artt. 322 ss. CCII riproducono infatti, in linea di continuità con gli artt. 216 ss. del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, le incriminazioni tradizionali, a conferma di un diritto penale che, più che riformato, è stato semplicemente traslato in un nuovo contenitore normativo.

In questa cornice, la bancarotta fraudolenta continua a rappresentare il paradigma di un diritto penale “statico”, in contrasto con la dinamicità delle procedure concorsuali, sottoposte a cicliche riforme e aggiornamenti.

Tale staticità non è neutra: da un lato, offre stabilità interpretativa, consentendo alla giurisprudenza di consolidare principi applicabili anche sotto il vigore del nuovo Codice; dall’altro, perpetua un’impostazione casistica e talvolta atecnica, elaborata in un contesto economico-sociale ormai distante, affidando al giudice il compito di adattare le fattispecie a scenari imprenditoriali radicalmente mutati.

La riflessione sulla bancarotta fraudolenta, dunque, non può prescindere da questa tensione di fondo: la distanza tra un diritto penale concepito nel 1942 e le esigenze odierne di un mercato globalizzato, finanziarizzato e digitalizzato.

È in questo spazio che si colloca l’attività dell’interprete, chiamato a restituire razionalità e coerenza a una disciplina che rischia, se applicata in modo acritico, di trasformarsi in uno strumento di criminalizzazione generalizzata dell’insuccesso imprenditoriale.


2. Evoluzione storica e dogmatica

La bancarotta è uno dei delitti più antichi del diritto penale commerciale.

Le sue radici affondano nel diritto mercantile medievale, allorché l’insolvenza del mercante era percepita non come un mero fatto economico, ma come un vero e proprio tradimento della fiducia collettiva.

La celebre rottura del banco – gesto simbolico e plateale che prevedeva la distruzione del banco di lavoro dell’insolvente nella piazza cittadina – aveva la duplice funzione di sanzione sociale e di segnale pubblico, volto a preservare l’affidabilità dei traffici.

In questa fase arcaica, il fallito era considerato intrinsecamente fraudolento: l’insolvenza coincideva con il dolo, senza spazio per distinguere tra crisi fisiologica e condotta criminosa.

È in questo humus che si forma la matrice "sospettosa" e punitiva che ancora oggi permea, in parte, la disciplina penal-fallimentare.

Con l’avvento delle codificazioni moderne, la prospettiva si amplia.

Se da un lato si afferma progressivamente la funzione economico-ordinatrice della procedura fallimentare – destinata a garantire la par condicio creditorum – dall’altro il diritto penale conserva un’impostazione rigidamente repressiva.

Già Carrara, nei suoi Pensieri sulla nozione di bancarotta (1881), distingueva tra l’imprenditore che “maliziosamente origina il suo fallimento con frode preordinata ad arricchirsi a danno dei creditori” e quello che vi precipita “sospinto dalla miseria”, sottolineando come solo il primo meriti la riprovazione penale.

La lezione carrariana anticipava il problema, tuttora attuale, della selezione tra insolvenza colpevole e fisiologico insuccesso.

L’assetto sistematico trova la sua cristallizzazione nel Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, che tipizza minutamente le fattispecie di bancarotta agli artt. 216 ss.

La scelta legislativa è casistica e ridondante, riflesso di un’epoca che concepiva il fallito come hostis publicus, un soggetto da isolare socialmente oltre che punire penalmente.

In questo senso, come notava Nuvolone, il diritto penale fallimentare si connota da sempre per una “vocazione sospettosa”, incline a criminalizzare l’imprenditore insolvente più che a distinguere le condotte effettivamente offensive.

La riforma del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (2019) non ha inciso su questo impianto.

Gli artt. 322 ss. CCII hanno riprodotto integralmente gli schemi del 1942, confermando quella “staticità” stigmatizzata dalla dottrina contemporanea (Zanchetti), osservando come il diritto penale fallimentare sia rimasto impermeabile ai mutamenti della società economica, al punto da affidare alla giurisprudenza il compito di introdurre correttivi interpretativi capaci di evitare derive verso forme di responsabilità oggettiva.

Il risultato è un diritto penale che vive di continuità più che di innovazioni, in cui i principi elaborati dalla Cassazione (dalla storica distinzione tra dolo e colpa alla più recente qualificazione della dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità) assumono un ruolo conformativo spesso decisivo.

La bancarotta, più che una fattispecie “scritta”, appare così come un sistema in larga parte “vissuto”, plasmato dalla prassi giudiziaria più che dalla volontà del legislatore.


3. Tipologie di bancarotta: patrimoniale, documentale e preferenziale

La bancarotta fraudolenta costituisce l’asse portante del diritto penale fallimentare.

Il legislatore del 1942 l’aveva scolpita agli artt. 216 e ss. della legge fallimentare; oggi la ritroviamo trasposta, con sostanziale continuità, nel Titolo IX del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (artt. 322 ss. CCII).

Il mutamento terminologico – “liquidazione giudiziale” al posto di “fallimento” – ha una valenza più culturale che normativa, non incidendo sulla struttura incriminatrice.

La fattispecie si articola in tre principali declinazioni, che riflettono diverse modalità di aggressione alla garanzia patrimoniale dei creditori.


3.1. Bancarotta patrimoniale

È la forma più nota e tradizionale.

La bancarotta fraudolenta patrimoniale, come già delineato, presenta una struttura a più fattispecie, contemplando condotte eterogenee: distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione, dissipazione di beni, esposizione o riconoscimento di passività inesistenti.

La dottrina (Mazzacuva – Amati) distingue tra condotte che determinano una diminuzione meramente fittizia del patrimonio (distrazione, occultamento, dissimulazione, esposizione o riconoscimento di passività inesistenti) e condotte che comportano una diminuzione effettiva (distruzione e dissipazione). L’oggetto materiale del reato coincide con l’intero patrimonio dell’imprenditore, inteso in senso ampio come garanzia generica ex artt. 2740–2741 c.c.: beni materiali, denaro, diritti di credito, opere di ingegno, avviamento commerciale, beni in leasing o anche in semplice possesso.

La giurisprudenza, inoltre, ha precisato che la distrazione ricomprende non soltanto il distacco materiale di beni dall’attivo, ma anche il compimento di atti giuridici idonei a vincolare il patrimonio in modo pregiudizievole (es. fideiussioni, affitti di azienda a canone incongruo: Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2017, n. 35591). Tuttavia, l’ampliamento interpretativo ha sollevato critiche in dottrina, che denuncia il rischio di scivolare verso un reato di mera condotta, sganciato da un concreto pregiudizio.

Quanto all’elemento soggettivo, la regola generale è il dolo generico, con l’eccezione dell’esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, per cui è richiesto il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori. Il dolo è concepito come consapevolezza di porre in pericolo la garanzia patrimoniale offerta ai creditori, secondo una concezione di reato prevalentemente di pericolo (ma parte della dottrina lo qualifica di pericolo concreto: Bricchetti – Pistorelli).


3.2. Bancarotta documentale

Accanto alla patrimoniale, il Codice disciplina la bancarotta fraudolenta documentale (art. 322, comma 1, lett. b) CCII, già art. 216, comma 1, n. 2 l. fall.), che colpisce l’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale che:

  • sottragga, distrugga o falsifichi i libri o le scritture contabili (c.d. bancarotta documentale specifica);

  • ovvero li tenga in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento d’affari (c.d. bancarotta documentale generica).

L’oggetto materiale non è limitato alle scritture obbligatorie ex art. 2214 c.c. (libro giornale e inventari), ma comprende anche scritture facoltative, contabilità ausiliarie, documentazione fiscale, contabilità “in nero” e, oggi, anche supporti informatici o digitali. Il criterio di selezione è la loro utilità alla ricostruzione patrimoniale, non la formale obbligatorietà.

Le condotte tipiche presentano rilievi diversi:

  • sottrazione: occultamento fisico delle scritture, rendendole indisponibili agli organi della procedura;

  • distruzione: eliminazione totale o parziale, cartacea o informatica, o alterazione che renda indecifrabile il documento;

  • falsificazione: formazione di documenti non veritieri o alterazione di scritture esistenti, sia sotto il profilo materiale che ideologico;

  • tenuta irregolare: clausola di chiusura che punisce la gestione contabile tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio.

Dal punto di vista soggettivo, per sottrazione, distruzione e falsificazione è richiesto il dolo specifico (profitto ingiusto o pregiudizio ai creditori), mentre per la tenuta irregolare è sufficiente il dolo generico.

La dottrina sottolinea l’esigenza di leggere il dolo documentale come “dolo di frode”, cioè come strumentalità della manipolazione contabile rispetto ad un disegno fraudolento più ampio, evitando di trasformare la fattispecie in un mero reato formale.

Le due ipotesi — patrimoniale e documentale — non vivono in compartimenti stagni.

Le scritture contabili irregolari costituiscono spesso lo strumento di occultamento delle condotte patrimoniali: la documentale si pone come riflesso speculare della patrimoniale.

Ciò ha indotto parte della dottrina e della giurisprudenza a considerare la bancarotta come un reato unitario e complesso, in cui le varie tipologie si sorreggono reciprocamente.

Tale impostazione, pur funzionale ad un rafforzamento della tutela della massa creditoria, solleva interrogativi sul piano del principio di offensività: il rischio è che il dolo documentale venga presunto automaticamente dalla contestuale esistenza di condotte patrimoniali fraudolente, con scivolamento verso forme di responsabilità oggettiva.


3.3. Bancarotta preferenziale

Diversamente dalle precedenti, non riguarda la diminuzione dell’attivo, ma l’alterazione della par condicio creditorum.

L’imprenditore insolvente che soddisfa taluni creditori a danno degli altri, anche adempiendo a debiti effettivamente esistenti, viene punito per avere infranto il principio di uguaglianza distributiva.

La bancarotta preferenziale si colloca, dunque, a metà strada tra il reato patrimoniale e quello documentale: non implica necessariamente una distrazione di beni, ma neppure una manipolazione contabile; punisce piuttosto la scelta “selettiva” che altera l’ordine delle priorità concorsuali.


4. Il bene giuridico tutelato

La determinazione del bene giuridico della bancarotta rappresenta uno degli snodi teorici più controversi del diritto penale dell’economia.

Non si tratta di una mera disputa concettuale: la qualificazione dell’interesse protetto influenza direttamente la tipicità delle condotte, la struttura del reato e la stessa legittimazione costituzionale della disciplina.


4.1. La concezione economico-sistemica

Un primo filone dottrinale, oggi minoritario, qualifica la bancarotta come reato contro l’economia pubblica.

L’assunto, di ascendenza ottocentesca, si fonda sull’idea che l’insolvenza di un’impresa abbia effetti “a catena” sull’intero sistema economico, minando la fiducia dei terzi nei traffici e destabilizzando il mercato.

Come osserva Castello (Il diritto penale fallimentare tra storia e prospettive di riforma, 2019), tale concezione ha un’indubbia forza evocativa, ma rischia di scivolare nell’indeterminatezza: non ogni fallimento produce conseguenze macroeconomiche, e ancorare la punibilità ad un concetto vago di “fiducia” contrasta con il principio di tassatività.


4.2. La concezione processuale

Secondo un altro orientamento, il bene tutelato non è il patrimonio dei creditori, bensì il corretto funzionamento della procedura concorsuale.

La bancarotta sarebbe dunque un reato contro l’amministrazione della giustizia: distrazioni e falsificazioni alterano l’equilibrio della liquidazione giudiziale, impedendo al curatore di assicurare la par condicio creditorum.

Questa impostazione, già sostenuta da Nuvolone, è stata ripresa in chiave moderna da Fioramonte (La bancarotta tra diritto penale e crisi d’impresa, 2020), che sottolinea come l’offesa si manifesti primariamente sul terreno processuale: l’illecito non si esaurisce nella perdita patrimoniale, ma nel pregiudizio arrecato alla funzione pubblica di regolazione collettiva della crisi.


4.3. La concezione patrimonialistica

L’indirizzo oggi prevalente – condiviso da Alessandri, Zanchetti – individua il bene giuridico nella garanzia patrimoniale dei creditori.

Non è la mera regolarità procedurale ad essere protetta, ma l’integrità del patrimonio del debitore come strumento di soddisfacimento collettivo.

Da questa prospettiva, la bancarotta fraudolenta patrimoniale colpisce le condotte che sottraggono beni all’attivo, la documentale punisce quelle che ne occultano le tracce, la preferenziale quelle che alterano la distribuzione.

Unità di ratio, pluralità di mezzi: ciò che rileva è sempre la lesione della garanzia patrimoniale creditoria.


4.4. La teoria plurioffensiva

Non manca, in dottrina, chi propende per una lettura plurioffensiva.

Secondo questa tesi, la bancarotta lederebbe contestualmente:

  • il patrimonio dei creditori;

  • la regolarità della procedura concorsuale;

  • la fiducia dei terzi nei traffici commerciali.

Castello rileva come questa visione abbia il pregio di riflettere la complessità sociale del fenomeno, ma rischi di dilatare eccessivamente l’ambito punitivo, rendendo fragile il principio di determinatezza.


5. L’elemento soggettivo della bancarotta fraudolenta

Se l’oggetto della tutela penale fallimentare è ancora discusso, ancor più centrale si rivela il problema dell’elemento soggettivo.

È infatti sul terreno psicologico che si gioca il confine tra la responsabilità penale dell’imprenditore fraudolento e la mera mala gestio, che, pur potendo rilevare in sede civile o commerciale, non deve sconfinare nella sfera del penale.


5.1. Dolo generico e dolo specifico

Il legislatore del 1942, trasposto quasi letteralmente nel Codice della crisi d’impresa, ha previsto un mosaico di fattispecie sorrette da diverse forme di dolo:

  • dolo generico nelle ipotesi di distrazione, occultamento, dissipazione (bancarotta patrimoniale);

  • dolo specifico laddove si richiede un fine ulteriore, come il danno ai creditori (esposizione di passività inesistenti, simulazioni attive, alcune ipotesi documentali).

Tale frammentazione riflette, più che una scelta sistematica, una stratificazione storica: il sospetto verso l’imprenditore insolvente ha spinto il legislatore ad ampliare il perimetro punitivo, lasciando spazio a un impianto disomogeneo.


5.2. Il ruolo controverso del dolo eventuale

La giurisprudenza, nel tentativo di dare effettività al sistema, ha spesso fatto ricorso al dolo eventuale, utilizzandolo come grimaldello interpretativo per estendere la responsabilità penale anche a condotte borderline.

Secondo questa impostazione, l’imprenditore risponde di bancarotta fraudolenta quando, pur non volendo direttamente arrecare danno ai creditori, abbia accettato il rischio del dissesto o dell’oscuramento contabile.

Zanchetti ha denunciato il pericolo di un “dolo attenuato” che si avvicina alla colpa cosciente, con conseguente scivolamento verso forme di responsabilità oggettiva, incompatibili con l’art. 27, co. 1 e 3, Cost.


5.3. La proposta del “dolo di frode”

Per reagire a queste derive, parte della dottrina contemporanea – in particolare Minicucci (Il dolo nella bancarotta, 2018) – ha proposto la valorizzazione di un “dolo di frode”.

Non si tratta di introdurre una nuova categoria dogmatica, bensì di arricchire il dolo generico con due componenti qualificanti:

  • una consapevolezza rafforzata, centrata sulla rappresentazione dell’insolvenza e del pregiudizio che la condotta arreca ai creditori;

  • una volontà effettiva, che esclude l’accettazione passiva del rischio tipica del dolo eventuale, richiedendo invece l’intenzione di alterare la garanzia patrimoniale.

In questa prospettiva, la bancarotta fraudolenta non si riduce alla volontà di porre in essere un atto dispositivo o contabile, ma implica la finalizzazione consapevole alla lesione della garanzia creditorum.


5.4. Prospettive costituzionali

L’approdo al “dolo di frode” risponde a un’esigenza costituzionale: quella di evitare che la bancarotta diventi un reato di mera condotta o di pericolo astratto, punendo anche comportamenti imprenditoriali privi di reale carica fraudolenta.

Le Sezioni Unite Passarelli (2016, n. 22474), pur qualificando la dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità, hanno ribadito che la centralità dell’elemento soggettivo resta decisiva nel preservare il principio di offensività.

Come ha osservato Fioramonte (La bancarotta tra diritto penale e crisi d’impresa), solo un criterio selettivo incentrato sul dolo può garantire la compatibilità del diritto penale fallimentare con lo Stato costituzionale di diritto, distinguendo l’imprenditore incapace o sfortunato dall’imprenditore fraudolento.


6. La sentenza di liquidazione giudiziale come presupposto della bancarotta

Tutte le fattispecie di bancarotta condividono un presupposto indefettibile: l’apertura della procedura concorsuale.

Nel sistema previgente era la sentenza dichiarativa di fallimento; oggi, alla luce del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, è la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale.

La questione della sua natura giuridica è stata – e continua ad essere – uno dei punti più delicati della dogmatica penal-fallimentare, perché da essa dipende la stessa struttura del reato e la configurabilità del dolo nelle condotte prefal­limentari.


6.1. La posizione classica: elemento costitutivo

La tradizione più risalente, consolidatasi nel secondo dopoguerra, qualificava la sentenza dichiarativa come elemento costitutivo del reato.

Secondo questa impostazione, senza fallimento non vi sarebbe bancarotta: la declaratoria civile integrerebbe l’evento del reato, rendendo il dissesto parte della tipicità penale.

Le Sezioni Unite del 1958 (sent. n. 2/1958) collocarono la declaratoria al cuore della fattispecie, con la conseguenza di trasformare le condotte prefal­limentari in reati di evento.

La bancarotta patrimoniale, ad esempio, veniva punita perché causalmente collegata allo stato di decozione, sicché il nesso tra atto dispositivo e fallimento diventava essenziale.


6.2. L’evoluzione: condizione obiettiva di punibilità

A partire dagli anni ’80, si è progressivamente affermata un’interpretazione diversa, secondo cui la dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) è una condizione obiettiva di punibilità estrinseca.

Questa lettura, consacrata dalle Sezioni Unite Passarelli (31 marzo 2016, n. 22474), comporta tre conseguenze decisive:

  • la condotta distrattiva o dissipativa è di per sé tipica e completa, indipendentemente dal dissesto;

  • la sopravvenienza della sentenza è un dato esterno, che rende la condotta penalmente rilevante ex post;

  • non è richiesto alcun collegamento causale o psicologico tra l’atto e lo stato di insolvenza.

Secondo Castello (Il diritto penale fallimentare tra storia e prospettive di riforma, 2019), questa impostazione rafforza la coerenza sistematica, ma riduce la tipicità a una formula vuota, rischiando di trasformare la bancarotta in un reato di pericolo astratto.


6.3. L’insindacabilità della declaratoria

Ulteriore corollario è il principio di insindacabilità della sentenza concorsuale da parte del giudice penale.

La Cassazione (sez. I, 1° marzo 2017, n. 10033; sez. V, 22 marzo 2017, n. 13910) ha ribadito che il giudice penale non può mettere in discussione la legittimità della declaratoria, neppure in via incidentale: essa vincola il processo penale in quanto presupposto normativo, salvo revoca o annullamento in sede civile.

Questo assetto ha suscitato critiche: Fioramonte (La bancarotta tra diritto penale e crisi d’impresa, 2020) osserva che così il diritto penale viene “eterodiretto” dal giudice civile, con un effetto paradossale di deresponsabilizzazione del giudice penale rispetto all’offensività concreta della condotta.


6.4. La questione della bancarotta riparata

Un ulteriore terreno problematico riguarda la cosiddetta bancarotta riparata.

Se l’imprenditore, prima della declaratoria, reintegra l’attivo o annulla gli effetti di una distrazione, la punibilità resta comunque intatta, poiché la condotta era già tipica al momento della realizzazione.

Zanchetti ha segnalato l’incoerenza di questo esito: un diritto penale orientato al danno e all’offensività dovrebbe valorizzare le condotte riparatorie, non punirle come se nulla fosse.

La teoria della condizione obiettiva, invece, preclude ogni rilevanza all’ex post “virtuoso”, con un evidente effetto dissuasivo rispetto a eventuali reintegrazioni.


7. Considerazioni conclusive

Il diritto penale fallimentare si colloca, oggi più che mai, al crocevia tra continuità storica e urgenza di rinnovamento.

La trasposizione pressoché testuale delle fattispecie del 1942 nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha avuto l’effetto di congelare, in un nuovo contenitore normativo, un impianto dogmatico nato in un contesto economico e sociale radicalmente diverso.

Se le procedure concorsuali hanno conosciuto una stagione di profonde riforme – culminata con l’abbandono della parola “fallimento” in favore della più neutra “liquidazione giudiziale” – la disciplina penale è rimasta ancorata a categorie casistiche, statiche e talvolta atecniche, affidando all’opera interpretativa della giurisprudenza il compito di adattare vecchi schemi a nuove realtà.

Il quadro che ne emerge è ambivalente:

  • da un lato, la stabilità normativa consente coerenza e prevedibilità, assicurando che la ricca elaborazione giurisprudenziale degli ultimi decenni resti pienamente applicabile;

  • dall’altro, la mancata riforma ha perpetuato nodi critici che attraversano l’intera materia, primo fra tutti il ruolo dell’elemento soggettivo e il rischio di criminalizzazione dell’insuccesso imprenditoriale.

Tre, in particolare, appaiono i punti nevralgici:

  • l’impianto del 1942, pur trasfuso nel CCII, non riflette le trasformazioni dell’economia contemporanea (globalizzazione, digitalizzazione, finanziarizzazione), continuando a leggere l’insolvenza con le lenti di un diritto punitivo arcaico;

  • l’uso estensivo del dolo generico ed eventuale rischia di abbassare eccessivamente la soglia della punibilità, scivolando verso forme di responsabilità oggettiva. La dottrina più avvertita propone di recuperare il concetto di “dolo di frode” come criterio selettivo, capace di distinguere l’imprenditore fraudolento da quello semplicemente incapace o sfortunato;

  • la qualificazione della sentenza di liquidazione giudiziale come condizione obiettiva di punibilità estrinseca, affermata dalle Sezioni Unite Passarelli (2016), ha garantito linearità sistematica, ma al prezzo di un arretramento del principio di offensività. Il rischio è di punire condotte in sé neutre, rese illecite solo da un evento esterno.

Il diritto penale fallimentare appare così sospeso tra residui storici e nuove esigenze: da un lato la tradizione, che ha sempre visto nel fallito un soggetto intrinsecamente sospetto; dall’altro la necessità di un approccio coerente con i principi costituzionali e convenzionali, che limiti la sanzione penale alle sole ipotesi di reale frode, preservando lo spazio della libera iniziativa economica e del rischio d’impresa.

In questa prospettiva, l’auspicio è per un diritto penale più selettivo e razionale, che riconosca dignità alla distinzione tra insuccesso e frode, tra errore gestionale e depauperamento doloso, tra crisi fisiologica e manipolazione fraudolenta.

Il compito dell’interprete – giudice, avvocato, studioso – è oggi quello di non ridursi a custode di un impianto vetusto, ma di contribuire a una lettura costituzionalmente orientata delle norme vigenti, che restituisca equilibrio tra efficacia repressiva e garanzie difensive.

Solo così il reato di bancarotta potrà continuare ad essere uno strumento di tutela della par condicio creditorum, senza trasformarsi in un meccanismo punitivo automatico dell’insolvenza.

Fonti: N. Mazzacuva – E. Amati, Diritto penale dell’economia, Milano, 2017, pp. 177 ss., 199 ss., 204 ss., 209 ss.

A. Alessandri, Reati in materia economica, Torino, 2017, pp. 327 ss., 329 ss., 333 ss.

C. Pedrazzi, Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 2000, p. 116.

R. Bricchetti – L. Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, Milano, 2017, pp. 70, 126, 150 ss., 184 ss.

F. Antolisei, Manuale di diritto penale – Parte speciale, Milano, ult. ed., pp. 140, 148, 153.

F. C. Bevilacqua, La bancarotta preferenziale, in Reati in materia economica, Torino, 2017, p. 459 ss.

D. Tassinari, La bancarotta preferenziale, in Diritto penale dell’economia, Milano, 2017, pp. 1849 ss., 1865 ss.

G. Cocco, La bancarotta preferenziale, Napoli, 1987, p. 236 ss.

G. Vinciguerra, Trasformazione del credito da chirografario in privilegiato e concorso in bancarotta preferenziale del funzionario di banca, in Giur. It., 2002, p. 1260 ss.

F. Tagliarini, Profili salienti della bancarotta fraudolenta preferenziale, in Ind. Pen., 1992, p. 743 ss.


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