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Affitto del ramo d’azienda e bancarotta impropria: quando l’operazione non integra il reato (Cass. Pen. n.14405/2024)

Affitto del ramo d’azienda e bancarotta impropria: quando l’operazione non integra il reato (Cass. Pen. n.14405/2024)

Indice:


1. Premessa

La pronuncia della Corte di cassazione del 30 gennaio 2024, n. 14405, affronta il tema della bancarotta impropria da operazioni dolose (art. 223, comma 2, n. 2, l. fall.) con riferimento all’affitto dell’unico ramo d’azienda della società poi fallita. La questione centrale era stabilire se tale scelta gestionale, effettuata in un contesto di insolvenza conclamata, potesse qualificarsi come condotta dolosa idonea ad aggravare il dissesto.


2. I fatti

L’imputato, amministratore della società “T. di T.F. & C. snc”, fallita nel marzo 2013, era accusato di aver aggravato il dissesto concedendo in affitto l’unico ramo d’azienda ad altra società, riconducibile ai suoi suoceri, a fronte di un canone ritenuto incongruo e peraltro riscosso solo in parte. In primo grado vi era stata condanna; in appello, invece, assoluzione “perché il fatto non sussiste”.

Il Procuratore generale ricorreva per Cassazione sostenendo che i giudici d’appello avessero erroneamente escluso la rilevanza penale della condotta, concentrandosi sulla congruità del canone e trascurando l’essenza del reato contestato: l’aver privato la società dell’unico asset produttivo, con consapevole pregiudizio per la possibilità di prosecuzione dell’attività.


3. La decisione della Corte

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso del Procuratore generale, confermando l’assoluzione dell’imputato.

Nel motivare la propria decisione, gli Ermellini hanno richiamato un principio consolidato: la bancarotta impropria da operazioni dolose può configurarsi anche in assenza di una riduzione aritmetica dell’attivo patrimoniale, purché l’operazione produca un depauperamento sostanziale della funzionalità economica dell’impresa. È il caso, ad esempio, della cessione a prezzo di mercato dell’unico bene produttivo, che priva la società della possibilità stessa di proseguire l’attività per cui era nata (Cass. pen., sez. V, 20 maggio 2014, n. 40998, Concu).

Tuttavia, la vicenda oggetto del giudizio non poteva essere assimilata a quell’ipotesi. L’affitto del ramo d’azienda – a differenza della sua alienazione definitiva – non aveva determinato la perdita irreversibile del bene, ma ne aveva consentito una temporanea utilizzazione economica, con la prospettiva di trarne reddito senza intaccarne la titolarità. Inoltre, la Corte d’appello aveva accertato, con argomentazioni non smentite dal ricorrente, che la società era già inattiva da tempo quando il contratto venne stipulato: di fatto, aveva cessato ogni operatività prima ancora della stipulazione. A ciò si aggiunga che l’affitto ebbe durata brevissima e si concluse con la restituzione del complesso aziendale, rimasto integro nella disponibilità della fallita.

Alla luce di tali circostanze, i giudici hanno escluso che l’operazione avesse avuto un ruolo causale nel dissesto: l’impresa era già in stato di irreversibile crisi, e l’affitto del ramo non fece che collocarsi in un contesto in cui il fallimento sarebbe comunque intervenuto. L’argomentazione del Procuratore generale, fondata sulla presunta natura distrattiva della scelta, non coglieva dunque la sostanza della vicenda, perché trascurava il dato decisivo: l’irrilevanza concreta dell’affitto rispetto alla sorte già segnata della società.


4. Il principio affermato

La Cassazione ha ribadito che, ai fini della configurabilità dell’art. 223, comma 2, n. 2, l. fall., occorre verificare se la società, al momento dell’operazione contestata, fosse concretamente in grado di svolgere la propria attività tipica e di produrre reddito. Se l’impresa era già inerte, l’operazione, quand’anche discutibile sul piano gestionale, non può considerarsi causalmente collegata al dissesto.


5. Considerazioni conclusive

La pronuncia mette in evidenza un principio fondamentale: perché si possa parlare di bancarotta da operazioni dolose non è sufficiente che una scelta gestionale sia in astratto discutibile o suscettibile di pregiudicare l’impresa, ma è necessario che essa abbia inciso in modo concreto sul patrimonio o sulla capacità produttiva della società.

È questa verifica di effettiva causalità che segna il discrimine tra la responsabilità penale e la semplice cattiva amministrazione.

In tale prospettiva, l’affitto di un ramo d’azienda non può essere automaticamente assimilato a una condotta distrattiva o depauperativa.

Diversamente dalla cessione definitiva, esso mantiene intatta la titolarità dei beni e può costituire una forma legittima di valorizzazione economica, a condizione che l’impresa sia ancora in grado di operare.

Se, come nel caso di specie, l’attività era già cessata, l’operazione si rivela priva di effettiva incidenza sulla crisi, riducendosi a un episodio irrilevante rispetto a un dissesto già irreversibile.


6. La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V, 30/01/2024, n.14405

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Perugia, in riforma della pronunzia di primo grado, ha assolto perché il fatto non sussiste Te.Fa. per il reato di bancarotta impropria da operazioni dolose, contestatogli nella sua qualità di socio amministratore della Temperoni di Te.Fa.& C. Snc, fallita nel marzo del 2013. In particolare all'imputato era contestato di aver aggravato il dissesto societario a causa dell'affitto, per di più verso un canone incongruo riscosso solo in parte, dell'unico ramo d'azienda della fallita, che conseguentemente cessava ogni attività.


2. Avverso la sentenza ricorre il Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Perugia deducendo erronea applicazione della legge penale. Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe ritenuto insussistente il fatto, come se quello imputato integrasse il reato di bancarotta patrimoniale distrattiva, anziché quello effettivamente contestato di operazioni dolose. Conseguentemente i giudici del merito, al fine di escludere la rilevanza penale della condotta dell'imputato, avrebbero concentrato la propria attenzione sulla congruità del canone d'affitto, omettendo di considerare come ad integrare l'illecito contestato sarebbe stata, invece, proprio la scelta di trasferire ad altra società, peraltro costituita all'uopo nello stesso ambito familiare dell'imputato, l'unico asset attivo della fallita, impedendo volontariamente e nella consapevolezza dello stato d'insolvenza in cui versava quest'ultima di proseguire nella propria attività.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è nel suo complesso infondato e deve essere rigettato.


2. Come già accennato, l'accusa ha ad oggetto l'affitto dell'unico ramo d'azienda della fallita ad altra società, costituita poco prima dai suoceri dell'imputato. La Corte territoriale ha assolto l'imputato dal reato contestatogli rilevando non solo, come sostenuto dal ricorrente, il difetto della prova dell'ipotizzata incongruità del canone d'affitto, ma altresì come il rapporto contrattuale si fosse esaurito in pochi mesi, con conseguente restituzione del complesso aziendale alla fallita, che comunque nel corso del suo svolgimento aveva conservato la sua integrità patrimoniale, essendo rimasta proprietaria dei beni conferiti. Ma soprattutto il giudice dell'appello ha evidenziato come, già prima della stipulazione del contratto, la fallita, di fatto, aveva cessato di operare, escludendo dunque qualunque incidenza dell'affitto del ramo d'azienda sulla causazione del dissesto o anche solo sul suo aggravamento.


Il ricorrente, senza invero confrontarsi compiutamente con tale sviluppo argomentativo, eccepisce che il giudice dell'appello si sia sostanzialmente limitato ad escludere la natura distrattiva dell'affitto del ramo aziendale, omettendo di valutare l'operazione in riferimento alla fattispecie effettivamente contestata, ossia quella di cui all'art. 223 comma 2 n. 2) legge fall. Ma, dalla motivazione della sentenza impugnata, emerge che la Corte territoriale, in ragione degli elementi descritti, ha invece escluso l'effettiva incidenza causale del negozio sul dissesto societario e, dunque, proprio la configurabilità del reato contestato.


Né le conclusioni tratte dai giudici di merito possono ritenersi illogiche alla luce della piattaforma probatoria dagli stessi selezionata e che il ricorrente non solo non contesta, ma, come detto, nemmeno considera nella sua interezza.


Non è in discussione, infatti, il principio invocato nel ricorso, ossia che il delitto contestato sussiste anche quando le operazioni dolose dalle quali deriva il fallimento della società non comportano una diminuzione algebrica dell'attivo patrimoniale, ma determinano comunque un depauperamento del patrimonio non giustificabile in termini di interesse per l'impresa, come nel caso della vendita a prezzo di mercato di un bene costituente l'unico asset produttivo di una società, la cui liquidazione privi l'impresa della possibilità di svolgere l'attività per cui era stata costituita (Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu, Rv. 262188).


In tal senso va anzitutto osservato che la fattispecie in riferimento alla quale tale principio è stato affermato - ovvero quella della cessione del bene - non è in tutto sovrapponibile a quella cui si riferisce la sentenza impugnata. Infatti, l'affitto del ramo aziendale è modalità idonea a ricavare dal bene un reddito al pari della sua diretta utilizzazione. In secondo luogo, ai fini della configurabilità del reato contestato, è necessario stabilire se effettivamente la società, al momento della realizzazione del fatto, fosse effettivamente in grado di svolgere la propria attività tipica e, dunque, di produrre un reddito comparabile a quello ricavabile dall'affitto del ramo aziendale utilizzando in proprio i beni che lo costituiscono. Circostanza questa esclusa dai giudici di merito nel momento in cui hanno rilevato - si ripete, rimanendo incontestati sul punto - che la fallita aveva cessato di operare già prima della stipula del contratto incriminato.


E' a questo punto irrilevante, come invece eccepito dal ricorrente, che la redditività dell'operazione non sia stata in grado di arginare l'aggravamento del dissesto, evento che si sarebbe parimenti prodotto laddove la società fosse rimasta inerte come già era stata precedentemente alla sua esecuzione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso del Procuratore Generale.


Così deciso il 30 gennaio 2024


Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2024.


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