1. Vi è conflitto quando in qualsiasi stato e grado del processo:
a) uno o più giudici ordinari e uno o più giudici speciali contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona;
b) due o più giudici ordinari contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona.
2. Le norme sui conflitti si applicano anche nei casi analoghi a quelli previsti dal comma 1. Tuttavia, qualora il contrasto sia tra giudice dell'udienza preliminare e giudice del dibattimento, prevale la decisione di quest'ultimo.
3. Nel corso delle indagini preliminari, non può essere proposto conflitto positivo fondato su ragioni di competenza per territorio determinata dalla connessione.
La Relazione al codice
Nella materia in esame la legge-delega ha enunciato i seguenti principi (direttiva 15): "disciplina dei conflitti di giurisdizione e di competenza" attribuendo ad ogni parte il potere di denunciarli; "obbligo di comunicare a tutte le parti la denuncia del conflitto"; "garanzia del contraddittorio nel relativo procedimento"; "particolare regolamentazione per la fase delle indagini preliminari ispirata al rispetto della competenza per territorio, anche in deroga alle regole sulla connessione".
Oltre ad adeguare l'istituto a queste direttive, si è avuto riguardo alla opportunità di risolvere normativamente alcune incertezze emerse con riferimento al codice vigente.
Nell'articolo 28 comma 1 e' parso opportuno chiarire quali siano i presupposti processuali per potersi addivenire alla denuncia od alla rilevazione di un conflitto, ed in ispecie precisare quale valore debba attribuirsi all'attuale espressione "prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo reato".
Si e' posto, cioè, il problema se questa formula debba intendersi come equivalente alla "cognizione dell'identico reato, a prescindere dall'identità della persona contro la quale si procede", ovvero se anche l'identità della persona imputata sia un presupposto necessario per l'individuazione di una situazione di conflitto.
In altri termini, è emersa l'esigenza di chiarire normativamente se la cosiddetta "imputazione. alternativa" (identico fatto attribuito alternativamente a soggetti diversi, non in concorso fra di loro) concreti una ipotesi di conflitto o meno.
A favore della tesi che esclude l'imputazione alternativa dal novero dei conflitti, gioca, tra l'altro, la considerazione che, dopo la risoluzione del conflitto da parte dell'organo decidente, una ed una sola deve essere la regiudicanda affidata al giudice ritenuto competente.
Per rendere operante questa scelta si e' ritenuto opportuno sostituire alla formula "stesso reato" la dizione più analitica, ma più chiara, "medesimo fatto attribuito alla stessa persona".
In ordine alla previsione, contenuta nel comma 2 dell'art. 28, della applicazione delle norme sui conflitti "anche nei casi analoghi a quelli previsti dal comma 1", nell'escludere, tra questi il "contrasto tra giudice dell'udienza preliminare e giudice del dibattimento", si e' volutamente evitato qualsiasi riferimento a casi di contrasto tra pubblico ministero e giudice, proprio per sottolineare che eventuali casi di contrasto non sono riconducibili alla categoria dei conflitti, e ciò anche in considerazione della qualità di parte - sia pure pubblica - che il pubblico ministero ha nel contesto del nuovo sistema processuale.
Il contrasto tra diversi uffici del pubblico ministero e' regolato specificamente nell'art. 55.
Come già si e' accennato, nel comma 2 dell'art. 29 si è espressamente stabilito che non può sussistere conflitto tra giudice dell'udienza preliminare e giudice del dibattimento perché in caso di contrasto "prevale la decisione di quest'ultimo".
Con questa esclusione, gia' prefigurata nell'art. 23 comma 2 relativo all'incompetenza per materia rilevata dal giudice del dibattimento, si e' voluto sottolineare che la disciplina dei conflitti mira a regolare la sfera della giurisdizione e della competenza, e non anche i dissensi tra gli uffici in ordine a situazioni diverse; in questi casi l'interesse ad una sollecita definizione del processo e' parso preminente sull'interesse del giudice a non essere vincolato dalla statuizione di un altro giudice, almeno nel caso in cui il giudice "vincolante" sia quello del dibattimento.
Sempre in tema di "casi analoghi", non si e' tuttavia ritenuto di procedere ad una elencazione tassativa dei medesimi, essendo praticamente impossibile prevedere a priori ogni situazione di contrasto tra i vari organi giudiziari.
Opportunamente si e' eliminato il caso previsto dal comma 2 dell'art. 51 c.p.p. ("le norme sui conflitti si applicano anche quando il giudice di appello dichiara la competenza del giudice di primo grado e questi dichiara la propria incompetenza"): questa previsione ha infatti originato non poche incertezze e comunque e' sostanzialmente inutile in quanto prevede e disciplina casi già risolvibili nel quadro generale, senza bisogno di un'autonoma previsione.
Si e' discusso se la dizione "in ogni stato e grado del procedimento" dovesse essere conservata, ovvero ampliata, siccome inidonea a ricomprendere i conflitti tipici della fase dell'esecuzione, oggi pacificamente ammessi dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Si sarebbe potuto includere esplicitamente anche questi conflitti usando la locuzione "in ogni stato e grado del procedimento e nella fase dell'esecuzione"; ma, cosi' facendo, si sarebbe reso necessario dilatare anche la terminologia relativa all'oggetto della cognizione dei giudici in conflitto, la' dove si parla di "cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona": e ciò avrebbe comportato un'eccessiva macchinosità del testo.
E' parso, quindi, preferibile lasciare immutata l'attuale formulazione (sostituendo alla parola "procedimento" la parola "processo" per sottolineare la esigenza della costituzione di un tipico rapporto processuale ed il carattere giurisdizionale della questione) e dare ingresso ai conflitti della fase dell'esecuzione attraverso la previsione dei "casi analoghi", la cui necessita' rimane in tal modo sottolineata anche sotto questo profilo.
Dal novero dei conflitti deve essere espunta la situazione oggi disciplinata in sede autonoma dall'art. 34 c.p.p.
Essa, infatti, non originerà più un caso di conflitto, perché il giudice del dibattimento (art. 23 comma 1) invierà egli stesso gli atti al giudice da lui ritenuto competente (salva, ovviamente, l'ipotesi di conflitto rilevato da quest'ultimo), in conformità al principio sopra richiamato della prevalenza delle decisioni del giudice del dibattimento.
Il comma 3 mira ad attuare la direttiva 15 parte quarta la quale prescrive, nell'ambito della disciplina dei conflitti, una "particolare regolamentazione per la fase delle indagini preliminari ispirata al rispetto della competenza per territorio anche in deroga alle regole sulla connessione".
Il problema dell'attuazione di tale direttiva e' stato a lungo discusso sia in sede di Commissione redigente, sia in sede di Commissione per i "maxi-processi", e, anche alla luce della più ampia tematica sviluppatasi intorno al necessario coordinamento della questione concernente la competenza per connessione nella fase delle indagini preliminari, con la "disciplina dei rapporti tra diversi uffici del pubblico ministero in sede penale durante le indagini preliminari" prescritta dalla direttiva 16.
Questa tematica è rilevante con riferimento al fenomeno della criminalità organizzata, perché volta a consentire il compimento di "maxi-indagini", malgrado il tendenziale divieto di "maxi-processi", conseguente alla disciplina della connessione e della separazione dei processi.
La trattazione specifica della problematica e' esposta nella illustrazione dell'art. 51 comma 2 (concernente la individuazione del pubblico ministero competente sulla base della competenza del giudice), dell'art. 54 comma 2 (concernente i "conflitti negativi" tra diversi uffici del pubblico ministero) e dell'art. 371 (concernente il coordinamento tra diversi uffici del pubblico ministero che procedono ad indagini collegate).
In questa sede e' necessario ricordare, come e' stato osservato dalla Commissione per i "maxi-processi", le esigenze che devono essere assicurate attraverso l'attuazione della direttiva 15 parte quarta.
E' opportuno, innanzitutto, evitare conflitti tra pubblici ministeri durante le indagini preliminari, lasciando ciascun pubblico ministero libero di svolgere le indagini per il reato commesso nel proprio territorio; e', parimenti, opportuno consentire al pubblico ministero che riconosca, ab initio o nel corso delle indagini, l'esistenza della connessione, di trasmettere gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente per connessione, e ciò al fine di evitare inutili duplicazioni di indagini per reati connessi.
Questa cautela giova anche con specifico riguardo alla problematica di processi particolarmente complessi, al fine di evitare "l'usura" delle fonti di prova (imputati collaboranti), altrimenti destinate a ripetuti spostamenti, e al contempo di assicurare, per quanto possibile, una contestualità storico logica nell'espletamento di eventuali incidenti probatori.
Per venire incontro a tali esigenze senza incidere, ne' sul principio della connessione come criterio attributivo della competenza, ne' sul principio per cui la competenza del pubblico ministero e' la stessa del giudice presso il quale egli svolge le sue funzioni, si e' ritenuto, in linea con la direttiva 15 di stabilire che nel corso delle indagini preliminari non puo' essere proposto conflitto positivo fondato su ragioni di competenza per territorio determinate dalla connessione.
Con tale disposizione il tema dei "conflitti/contrasti" viene ad essere completamente disciplinato perche', tenuto conto che il "conflitto negativo" tra uffici del pubblico ministero e' regolato dall'art. 54, si prende anche in considerazione la possibilita' di un "conflitto positivo" tra uffici del pubblico ministero da risolvere
secondo i principi della competenza per territorio.
Una volta denunciata o rilevata la situazione di conflitto, la normativa vigente prevede una risoluzione preventiva del medesimo, cioé la cessazione del conflitto per effetto del provvedimento di uno dei giudici, che dichiara secondo i casi la propria competenza o la propria incompetenza.
L'attuale art. 51 c.p.p. limita questa eventualità ad un momento anteriore alla denuncia del conflitto; ma la giurisprudenza ha opportunamente statuito che la risoluzione preventiva può operare anche dopo la trasmissione degli atti in cassazione.
Si e' ritenuto di rendere esplicito questo principio nell'articolo 29, peraltro modificando la rubrica e la denominazione dell'articolo in "cessazione del conflitto", che chiarisce come la risoluzione sia la conseguenza della cessazione dell'oggetto del contendere, e ne lascia aperta la via sino al momento della decisione della corte di cassazione.
Nel Progetto del 1978 la risoluzione preventiva dei conflitti era stata ricollegata non solo al provvedimento formale di uno dei giudici in contrasto, ma anche al "compimento di un atto incompatibile con la volontà di denuncia del conflitto". Si e' ritenuto che non sia opportuno introdurre nel testo formule generiche per evitare difficolta' interpretative e perché la volontà di rinuncia al conflitto non può ne' deve essere equivoca.
Nel comma 1 dell'articolo 32, e' stata mantenuta la competenza della corte di cassazione a risolvere i conflitti perché se tale competenza fosse attribuita ad organi decentrati diversi dalla corte di cassazione e, in particolare, alle corti di appello, una residua competenza della corte di cassazione sarebbe comunque inevitabile; inoltre, la pluralità degli organi decidenti si potrebbe risolvere in un elemento di perturbazione, fonte di non impossibili conflitti tra i medesimi, anziché di semplificazione.
Deve poi osservarsi che la legge-delega, nel prevedere l'obbligo di comunicare a tutte le parti la denuncia del conflitto, mostra di voler garantire in modo completo e tempestivo il contraddittorio.
La legge-delega stessa, peraltro, mutuato il termine "denuncia" dalla normativa vigente, non ha risolto le ambiguità cui questo termine da' causa: la denuncia, infatti, appare ora come il mezzo con cui una parte sollecita uno dei giudici ad elevare il conflitto, ora come il provvedimento con il quale uno dei giudici solleva egli stesso il conflitto, ora come il termine di genere che abbraccia l'una e l'altra situazione.
Questa oscillazione di significati attribuibili alla parola "denuncia" non crea problemi sul piano dell'interpretazione della volontà del legislatore delegante, in quanto e' palese che la legge-delega ha voluto che le parti ricevessero comunicazione della rilevazione del conflitto sia che questo fosse sollevato di ufficio che ad impulso di parte.
Il problema, invece, si e' posto sul piano del ricorso ad un nuovo e più corretto lessico, in quanto un'adeguata nomenclatura avrebbe voluto che si individuasse un termine di genere e due termini di specie, questi ultimi da applicarsi a seconda che la rilevazione del conflitto provenisse dal giudice o dalle parti.
Ma poiché alla dichiarazione della parte e' sembrato particolarmente confacente (e non sostituibile) il termine "denuncia", questo non può assumere un valore di genere, e si e' pertanto ritenuto di designare con la parola "denuncia" il predetto atto di parte, e con "rilevazione del conflitto" (mediante ordinanza) il corrispondente atto del giudice (articolo 30).
Ciò premesso, la soluzione più corretta per adeguarsi alla volontà della legge-delega sembrerebbe quella di imporre al giudice che ha rilevato il conflitto, o che ne ha ricevuto la denuncia, di darne la comunicazione alle parti e quindi di trasmettere gli atti alla corte di cassazione.
Ma questo meccanismo e' sembrato troppo laborioso sul piano pratico.
Si e' perciò preferito unificare tutte le comunicazioni a livello della corte di cassazione (art. 32 comma 1, che richiama l'art. 127).
Il lieve ritardo con cui la notizia perverrà alle parti (pari al tempo necessario perché gli atti pervengano alla corte di cassazione) non produce effetti di rilievo, dal momento che la vera ed effettiva attuazione del contraddittorio si manifesterà soltanto davanti alla corte di cassazione. E pertanto, tenuto conto della fondamentale esigenza che il conflitto sia risolto nel tempo più breve possibile, la soluzione adottata e' sembrata la più rispettosa sia di tale esigenza, sia della volontà della legge-delega.
Correlativamente, si e' ritenuto di richiamare le norme sul procedimento in camera di consiglio che estendono nel modo più appropriato il novero dei destinatari dell'avviso.
Esso, pertanto, non spetta soltanto alle parti ma anche ai loro difensori, essendo questi i più idonei ad interloquire in un procedimento essenzialmente tecnico.
Analogo interesse hanno le parti (eventualmente diverse) ed i loro difensori presenti nel procedimento in corso davanti all'altro giudice in conflitto; e persino quest'ultimo può avere - e normalmente ha interesse ad interloquire con proprie osservazioni.
Per tutelare questi interessi, e nello stesso tempo per semplificare le incombenze della cancelleria della corte di cassazione (che dovrà provvedere agli avvisi nei confronti di tutte le parti), e' sembrato opportuno istituire un duplice momento di collegamento: tra i giudici in conflitto e tra questi e la corte di cassazione.
Il giudice che rileva il conflitto, o che ne riceve la denuncia, dara' la relativa notizia all'altro o agli altri giudici confliggenti e quindi sia l'uno che gli altri provvederanno a trasmettere alla corte di cassazione, insieme con gli atti (nei termini di cui si dira' in prosieguo), il quadro completo delle parti e dei rispettivi difensori presenti nel procedimento che li concerne. In tal modo non resta pregiudicata la celerita' di questa prima fase del procedimento incidentale, mentre per converso la corte di cassazione, disponendo subito di una completa "anagrafe" dei procedimenti, può provvedere ai suoi incombenti senza eccessivo dispendio di tempo. Insieme a queste notizie i giudici in conflitto trasmetteranno alla corte di cassazione "copia degli atti necessari alla risoluzione del conflitto".
Questa formula e' stata adottata per risolvere un duplice problema.
Il primo, concerne la presenza o meno di un effetto sospensivo nei procedimenti in corso, quale conseguenza della rilevazione o della denuncia dei conflitti; il secondo le eventuali esigenze di segretezza degli atti sino a quel momento compiuti.
Per quanto attiene all'effetto sospensivo, si e' ritenuto di dare una risposta negativa, per evitare che la denuncia di conflitto (che potrebbe essere non solo infondata, ma manifestamente pretestuosa) possa trasformarsi in uno strumento per paralizzare temporaneamente le sorti del processo.
Fatta questa scelta, un ostacolo pratico alla sua realizzazione avrebbe potuto scaturire da una normativa che avesse ricalcato l'attuale disciplina sulla trasmissione degli atti alla corte di cassazione; invero, se il giudice "rimette gli atti alla corte di cassazione" (come recita l'attuale art. 53 c.p.p.), lo spossessamento degli atti e' normalmente incompatibile con una prosecuzione della sua attività.
Si e' pertanto ritenuto di rimuovere l'ostacolo pratico, disponendo l'inoltro alla cassazione della copia degli atti; e qualora il giudice, dopo tale inoltro, compia ulteriori atti che possono avere rilevanza al fine della risoluzione del conflitto, egli potrà sempre trasmettere anche questi alla corte, sino a che la decisione non sia stata pronunciata.
Per quanto invece attiene all'eventuale esigenza di segretezza (che, di regola, non si manifesta nei "conflitti analoghi" e nei conflitti negativi, ma che ben puo' essere presente in certi conflitti positivi), si e' cercato di conciliare tale esigenza con l'interesse delle parti a conoscere gli atti al fine del contraddittorio e, ovviamente, con la necessita' della corte di cassazione di disporre di quanto occorre per decidere. Il punto d'incontro tra le opposte istanze e' parso quello di affidare ai giudici in conflitto la scelta degli atti da trasmettere alla corte di cassazione, in quanto ad una eventuale propensione del giudice verso la segretezza farà da contrappeso il pericolo di una decisione sfavorevole della cassazione, privata della possibilità di conoscere gli atti non trasmessi.
Va rilevato, infine, che la previsione contenuta nell'art. 31 comma 2, secondo cui il giudice può trasmettere alla corte di cassazione le sue "osservazioni" viene anch'essa incontro alla prospettata esigenza di scoraggiare la proposizione di un conflitto manifestamente inesistente o pretestuoso usato a fini meramente defatigatori.
Quanto all'esigenza di ampliare la garanzia del contraddittorio nel procedimento incidentale, si e' ritenuto che con questa garanzia e' in parte incompatibile il rito della camera di consiglio, richiamato dall'attuale art. 54 c.p.p., poiché, ai sensi dell'art. 531 c.p.p., la corte di cassazione giudica "sulle requisitorie scritte dal pubblico ministero" (e solo di questi), "senza intervento di difensori".
D'altro canto, è sembrato eccessivamente macchinoso utilizzare le forme del procedimento in pubblica udienza, che comporterebbe la necessita' di nominare un difensore a tutte le parti che ne siano prive e un sostanziale appesantimento dell'iter, senza condurre ad alcun apprezzabile vantaggio sul piano del contraddittorio effettivo.
Si e' quindi ritenuto di utilizzare lo schema di procedimento disciplinato in via generale dall'art. 127 che già prevede, oltre alla ricordata latitudine degli avvisi a tutte le parti e ai rispettivi difensori, anche il termine di dieci giorni tra le notifiche dell'avviso e l'udienza e la facoltà per le parti di presentare memorie scritte.
Tale procedimento e' stato ulteriormente arricchito, nell'articolo 32, con la facolta' per le parti di dedurre prove (necessarie ai fini della decisione sulla competenza) e quella per la corte di cassazione di assumere informazioni.
La ricordata scelta di escludere l'effetto sospensivo comporta l'opportunità che anche gli atti eventualmente assunti dopo la denuncia del conflitto siano conosciuti dalle parti e dalla corte di
cassazione: sufficiente risposta e' parsa la facoltà di inoltro anche in tempi successivi, consentita dalla normativa illustrata.
Per la disciplina degli effetti della decisione risolutiva del conflitto, nel comma 3 dell'art. 32 sono state richiamate le disposizioni degli articoli 25, 26 e 27.
In tal modo, una volta confermata la competenza della corte di cassazione a decidere sui conflitti, si e' stabilito che la sua decisione risolve il conflitto in modo definitivo salva, peraltro, la possibilità che questa situazione venga modificata per effetto di nuovi fatti o nuove circostanze che comportino una diversa definizione giuridica e la modificazione della giurisdizione o della competenza (art. 26). Il problema relativo alla validità degli atti compiuti dal giudice dichiarato incompetente o privo di giurisdizione e' stato, quindi, risolto nel senso di modificare l'attuale disciplina, che affida alla corte di cassazione il compito di determinare "se e in quale parte debbono conservare validità gli atti compiuti dal giudice che essa dichiara incompetente", e di richiamare gli articoli 26 e 27.
L'ampia discrezionalità consentita dalla norma vigente e' apparsa eccessiva con riferimento alla legge delega che, in più parti rimuove, o delimita rigorosamente, i margini di discrezionalità.
Ne' miglior coerenza avrebbe avuto del resto affidare la scelta al giudice dichiarato competente.
Massime
Cassazione penale sez. I, 24/04/1996, n.2639
La sentenza con la quale il giudice ordinario dichiari il proprio difetto di giurisdizione nei riguardi del giudice speciale, in tanto può determinare, ai sensi dell'art. 29 c.p.p., la cessazione di conflitto di giurisdizione, in quanto un conflitto sia concretamente insorto in conseguenza della contemporanea cognizione del medesimo fatto, attribuito alla stessa persona, da parte di entrambi i giudici. (Fattispecie, nella quale il g.i.p. presso il tribunale ordinario aveva disposto, a richiesta del p.m., la fissazione dell'udienza preliminare, aveva fatto notificare all'imputato e alle persone offese il relativo avviso, con la richiesta di rinvio a giudizio del p.m., e comunicare al p.m. e al difensore dell'imputato il medesimo avviso, con l'avvertenza della facoltà di prendere visione degli atti e di presentare memorie e produrre documenti. In tale situazione, la suprema Corte ha ritenuto insussistente il conflitto, sul rilievo che le attività svolte dal g.i.p., rivestendo natura e funzione di atti - di regola dovuti e vincolati - meramente propulsivi del prescritto rito camerale, e perciò neutri, non comportano, di per sè soli e in assenza di altri qualificanti elementi di segno concludente, neppure implicitamente, la presa di cognizione del fatto-reato da parte del g.i.p.).
Cassazione penale , sez. I , 31/10/1995 , n. 5476
Il conflitto di competenza cessa, tra l'altro, anche nell'ipotesi in cui la competenza di uno dei giudici sia stata esclusa dalla decisione adottata dalla Corte di cassazione, a norma dell'art. 32 comma 1 c.p.p., nella risoluzione di un diverso conflitto esistente, rispetto allo stesso procedimento, con un terzo giudice. Si produce, in tal caso, una situazione processuale analoga a quella prevista dall'art. 29 c.p.p.
Cassazione penale , sez. I , 13/12/1991
In tema di conflitti di competenza, quando la risoluzione di un conflitto dipende dalla determinazione del titolo di un reato o dalla sussistenza di circostanze aggravanti e non possa essere esclusa, allo stato, in base ad una valutazione sommaria delle risultanze probatorie acquisite, la più grave delle ipotesi prospettate, il conflitto, deve essere risolto con la dichiarazione di competenza del giudice superiore, il quale è in grado di decidere definitivamente sulla gravità e sull'esatta configurazione giuridica del fatto, col sussidio che può essere offerto dall'acquisizione e dal vaglio di ulteriori elementi nel giudizio, pronunciandosi, ove occorra, anche sul reato meno grave.
Cassazione penale , sez. I , 17/10/1991
In tema di conflitti, nel caso in cui dal verbale d'interrogatorio assunto da g.i.p. di tribunale, risulti che detto giudice dia lettura all'indagato dei fatti descritti nell'ordinanza di custodia cautelare, con la precisazione che tali reati sono identificati, sotto il profilo della procedibilità d'ufficio relativa a questo tribunale, fino al capo d).. sicché il medesimo g.i.p. dichiari di ritenersi competente soltanto per alcuni reati indicati dai capi di imputazione con esclusione dunque dei reati di cui agli altri capi che sono oggetto di procedimento penale pendente dinanzi ad altro tribunale, tale dichiarazione determina la cessazione del conflitto sorto in conseguenza della contemporanea cognizione dei g.i.p. dei due tribunali, in quanto la dichiarazione stessa è sufficiente a costituire il provvedimento di cui all'art. 29 c.p.p., per la pronuncia del quale non è necessaria l'osservanza di particolari formalità, come prevede il dettato dell'art. 125 n. 1 e 6 stesso codice, non essendo dalla legge stabilita una forma.
Corte assise appello , Caltanissetta , 30/09/1991
Il giudice di appello, che ha rimesso alla Corte di cassazione ricorsi di imputati non più convertibili in appello ai sensi dell'art. 580 c.p.p. del 1988 per inammissibilità per causa originaria degli appelli che esercitavano l'attrazione, può dichiarare la sua competenza a revocare il precedente provvedimento, nel quadro normativo dell'art. 29 c.p.p. del 1988
Corte Costituzionale , 22/02/1990 , n. 77
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 630 comma 3 c.p. e dell'art. 29 c.p.p. del 1930, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., nella parte in cui, omettendo ogni previsione in ordine alla ipotesi del sequestro di persona a scopo di estorsione cui sia seguita una condotta diretta a sopprimere l'ostaggio senza che quest'ultimo evento si sia verificato, sottrae alla competenza del tribunale il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione cui sia seguita la morte dell'ostaggio, quando tale reato sia connesso con il tentato omicidio, reato di competenza della Corte d'assise (la Corte ha motivato la decisione ravvisando nella questione un normale dubbio interpretativo, la cui soluzione spettava esclusivamente al giudice remittente).