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Codice Penale

Art. 336 c.p. Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale

Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell'ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa.


 
  • Fermo: Il fermo è contemplato unicamente nelle ipotesi aggravate di cui all'art. 339, 2° comma, c.p.

  • Arresto: L'arresto è possibile e nella prassi è comune che avvenga l'arresto in flagranza seguito da giudizio per direttissima. Questo meccanismo è frequente e funzionale per garantire una risposta rapida alle violenze o minacce contro pubblici ufficiali.

  • Misure Cautelari Personali: Tutte le misure cautelari personali sono consentite. Questo significa che il giudice può applicare misure che vanno dalla custodia cautelare in carcere agli arresti domiciliari, all'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, e altre misure alternative.

  • Intercettazioni Telefoniche: Le intercettazioni telefoniche non sono consentite per questi reati, a meno che non ricorra un'ipotesi aggravata ad effetto speciale.

  • Procedibilità d'Ufficio: I reati previsti dagli artt. 336 e 337 c.p. si perseguono d'ufficio, il che significa che non è necessaria una querela di parte per avviare il procedimento penale.

  • Tribunale in Composizione Monocratica: La competenza è del tribunale in composizione monocratica nelle ipotesi non aggravate, semplificando il procedimento e rendendolo più rapido.

  • Citazione Diretta a Giudizio: L'azione penale è esercitata dal P.M. tramite citazione diretta a giudizio, manca l'udienza preliminare.


Codice Penale Commentato

Indice:

1. Cenni storici

2. Il bene giuridico: Il buon andamento della Pubblica Amministrazione

3. Il soggetto passivo

4. Differenze tra violenza o minaccia e resistenza a pubblico ufficiale

5. Le nozioni di minaccia e violenza

6. La resistenza passiva

7. L'elemento soggettivo

8. Rapporti con gli altri reati



1. Cenni storici

Il concetto di incriminazione delle violenze e delle resistenze contro l'autorità pubblica è stato una costante in molti ordinamenti giuridici. 

Inizialmente queste azioni erano classificate come delitti di lesa maestà, ma è stata la codificazione penale napoleonica a stabilire il modello adottato successivamente dai codici preunitari italiani, introducendo il reato di Rébellion. 

Questo reato puniva chi usava violenza contro funzionari pubblici nell'esercizio delle loro funzioni. Il codice penale toscano del 1853, pur mantenendo la struttura della Rébellion, introdusse il termine “resistenza” per indicare tale reato. 

Il codice Zanardelli del 1889 perfezionò la protezione penale dell'autorità pubblica distinguendo tra violenza e resistenza al pubblico ufficiale. 

La violenza era definita come minaccia o coercizione per influenzare un atto d'ufficio, mentre la resistenza si riferiva alle azioni volte a ostacolare un'azione amministrativa in corso. Le odierne disposizioni degli articoli 336 e 337 del codice penale derivano direttamente da questo modello. 

Il codice Rocco apportò due modifiche significative: eliminò l'esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (reintrodotta nel 1944) e ampliò la protezione anche agli incaricati di un pubblico servizio.


2. Il bene giuridico: Il buon andamento della Pubblica Amministrazione

Il bene giuridico protetto dagli articoli 336 e 337 del codice penale è identificato nel buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Questa interpretazione è stata supportata anche dalla Corte costituzionale, che ha utilizzato tale argomentazione per respingere questioni di legittimità costituzionale basate sulla presunta violazione dell'art. 3 della Costituzione. 

In particolare, nella sentenza n. 425/1996, la Corte ha affermato che nel reato di resistenza a pubblico ufficiale non è il diritto personale del cittadino investito di pubblica funzione ad essere preminente, ma il diritto-dovere della P.A. a non subire intralci nell'adempimento dei suoi compiti.

Questa ricostruzione solleva perplessità.

Un compito tradizionale del bene giuridico è quello di orientare l'interpretazione della fattispecie e la sussunzione in essa delle situazioni storiche, escludendo i fatti che, pur rientrando nei significati legali possibili, siano in concreto inoffensivi del bene giuridico tutelato. Tuttavia, non si riscontrano casi in cui minacce o violenze verso un pubblico agente siano state considerate atipiche solo perché non vi era seria possibilità di impedire l'atto amministrativo.

La giurisprudenza mostra che la minaccia grossolana, che non può ingenerare timore in alcuno, esclude il reato perché il riferimento del giudizio di impossibilità non è il buon andamento della P.A., ma la libertà morale del destinatario della condotta minatoria. Quando la minaccia è seria, la pratica impossibilità di annullare l'azione amministrativa non è mai considerata. Ad esempio, l'opposizione con minacce da parte dei parenti di una persona che sta per essere arrestata è sempre considerata reato, anche se non vi era alcuna possibilità di impedire l'arresto. La giurisprudenza afferma che per la configurabilità del reato di resistenza non è necessario che la libertà d'azione del pubblico ufficiale sia concretamente impedita; è sufficiente che si usi violenza o minaccia, indipendentemente dall'esito positivo o negativo di tale azione e dall'effettivo verificarsi di un impedimento. Anche gettare una bicicletta tra le gambe di un carabiniere è considerato reato di resistenza.

Si può continuare a parlare di offesa al buon andamento della P.A. valorizzando i maggiori ostacoli che la P.A. deve affrontare quando incontra resistenze. Tuttavia, questo non elimina il dubbio che la minaccia non ponga realmente in pericolo il conseguimento dell'atto amministrativo, ma solo la libertà e la sicurezza psicologica dei pubblici agenti. Pertanto, sembra che il vero bene protetto sia la libertà morale dei pubblici agenti e che il trattamento sanzionatorio più grave rispetto ad altre fattispecie sia collegato allo status pubblico dei destinatari delle condotte minatorie e violente.

Nonostante le critiche, è possibile difendere le fattispecie di violenza e resistenza ai pubblici agenti su basi oggettivistiche e di prevenzione generale. Riconoscendo la libertà morale come un bene con una seria attitudine selettiva delle fattispecie, e rilevando l'importanza della prevenzione generale, si può giustificare il trattamento sanzionatorio più elevato. Questo approccio considera che l'alta frequenza delle aggressioni ai pubblici funzionari rende ragionevole una risposta sanzionatoria più drastica.


3. Il soggetto passivo

Le minacce e le violenze si rivolgono principalmente ai pubblici ufficiali e agli incaricati di un pubblico servizio. 

Tra questi, figurano i Carabinieri e il personale della Polizia di Stato, i quali, secondo le normative di settore, possono (e in certi casi devono) svolgere i loro compiti anche quando sono fuori servizio. 

Di conseguenza, qualsiasi atto di minaccia o violenza contro di loro, volto a farli desistere da un atto dell'ufficio, costituisce reato ai sensi dell'art. 337 del codice penale, indipendentemente dal fatto che siano in servizio o meno.

Anche un privato cittadino assume il ruolo di pubblico ufficiale quando esegue un arresto in flagranza di reato. In tali circostanze, opporsi a questa persona con violenza o minaccia costituisce reato. Allo stesso modo, un privato chiamato a testimoniare in un processo diventa un pubblico ufficiale, e minacciarlo per influenzare la sua testimonianza rientra nelle fattispecie previste dall'art. 336 del codice penale.

Se si accetta l'idea che il vero bene protetto sia la libertà morale dei pubblici ufficiali, allora questi devono essere considerati persone offese del reato. Questo comporta varie conseguenze processuali, come il diritto di essere informati sulla richiesta di archiviazione e di opporvisi, il diritto di essere informati dell'esercizio dell'azione penale e la possibilità di costituirsi parte civile.

Anche se si considera il buon andamento della Pubblica Amministrazione come il bene protetto, i pubblici ufficiali dovrebbero comunque essere considerati persone offese. Gli articoli 336 e 337 del codice penale sono norme speciali rispetto agli articoli 56 e 610, che tutelano la libertà morale dei destinatari delle minacce. Quindi, è incongruo che un pubblico ufficiale perda la qualifica di persona offesa in una fattispecie speciale che include tutti gli elementi della fattispecie generale più ulteriori specificità.

La violenza o la resistenza verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio sono reati plurioffensivi: violano sia il buon andamento della P.A. sia la libertà morale dei pubblici agenti. Pertanto, i pubblici ufficiali continuano ad essere persone offese anche in questi reati. Pensare diversamente porterebbe alla conclusione assurda che una vittima perderebbe il suo status processuale di persona offesa se, oltre all'offesa al bene di cui è titolare, si verifica anche una lesione a un altro bene giuridico, creando un reato speciale.

Ridurre le garanzie processuali della vittima man mano che aumenta la gravità del reato è irragionevole. Anche se la riflessione processuale-penalistica non ha ancora messo a fuoco completamente questi temi, sembra emergere il criterio generale che, se si è persone offese rispetto a una fattispecie generale, lo si è anche rispetto alla corrispondente fattispecie speciale, che comprende tutti i requisiti strutturali della figura-base e tutela anche i beni protetti da quest'ultima.


4. Differenze tra violenza o minaccia e resistenza a pubblico ufficiale

Gli articoli 336 e 337 del codice penale trattano entrambi della violenza o della minaccia legata a un atto della Pubblica Amministrazione (P.A.), ma si distinguono per la finalità delle condotte aggressive:

  1. Art. 336 C.P. - Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale:

    • Finalità: L'obiettivo è influenzare la formazione della volontà della P.A., costringendola ad adottare o evitare un determinato atto.

    • Tempistica: La condotta minatoria o violenta avviene prima dell'azione amministrativa, cercando di modificarne l'esito o di impedirne l'avvio.

  2. Art. 337 C.P. - Resistenza a un pubblico ufficiale:

    • Finalità: L'obiettivo è impedire l'esecuzione di un atto già deciso dalla P.A.

    • Tempistica: La condotta avviene contemporaneamente all'azione amministrativa, cercando di ostacolarne la realizzazione.

Possiamo quindi individuare due criteri per distinguere le fattispecie.

  • Criterio Teleologico: È il criterio principale e si basa sulla finalità della condotta:

    • Art. 336: La condotta mira a influenzare la decisione della P.A.

    • Art. 337: La condotta mira a impedire l'esecuzione di un atto già deciso.

  • Criterio Cronologico: Utilizzato per esemplificazione probatoria, distingue i reati in base alla tempistica delle azioni:

    • Art. 336: La violenza o minaccia precede l'azione amministrativa.

    • Art. 337: La violenza o minaccia è contemporanea all'azione amministrativa.

Il criterio cronologico, sebbene utile, non è sempre adeguato. In situazioni complesse, dove l'attività esecutiva della P.A. comprende una serie di momenti deliberativi e decisionali, la condotta può ancora essere considerata una violenza ex art. 336 anche se l'azione amministrativa è già iniziata. Questo accade quando la violenza o la minaccia è diretta a coartare il funzionario nella decisione sulle modalità di esecuzione dell'atto.

Venendo al tema del concorso formale e materiale, possiamo affermare che non è possibile configurare un concorso formale tra gli artt. 336 e 337, in quanto un'unica azione non può mirare simultaneamente a coartare la volontà del pubblico ufficiale per farlo desistere da un atto e, allo stesso tempo, ostacolarlo durante l'esecuzione dello stesso atto.

È viceversa possibile configurare un concorso materiale tra i due reati qualora vengano commessi con azioni autonome e temporalmente distinte.


5. Le nozioni di minaccia e violenza

La minaccia è definita come la prospettazione di un male ingiusto che il minacciante ha la capacità di realizzare, e che viene utilizzato come conseguenza del non aver acconsentito alle sue richieste. 

Ecco alcune precisazioni su questo concetto:

  • Male ingiusto: La minaccia deve riguardare un male ingiusto, ossia non conforme all'ordinamento. Non costituisce minaccia, per esempio, avvertire un pubblico ufficiale che il troppo zelo nel lavoro potrebbe causare un ulcera.

  • Male giusto con finalità illecita: Anche un male giusto, se perseguito per finalità illecite, diventa una minaccia. Ad esempio, denunciare qualcuno per un reato realmente commesso o vendere foto compromettenti di una persona pubblica, se fatto per indurre qualcuno a omettere un atto del suo ufficio, costituisce minaccia.

  • Forme della minaccia: La minaccia può essere esplicita o implicita, diretta o indiretta, reale o simbolica, purché sia idonea a turbare la libertà psichica del destinatario. Può anche essere indeterminata e concernere terzi, a condizione che ci sia pericolo di turbamento psichico del pubblico agente.

La giurisprudenza è divisa sulla questione se la minaccia di suicidio possa costituire uno dei reati in questione. Tuttavia, l'opinione prevalente è che tale minaccia possa essere rilevante perché:

  • Turbamento morale: Il pubblico funzionario può essere turbato dalla prospettiva della morte di un'altra persona per ragioni morali.

  • Conseguenze indirette: La morte di una persona coinvolta nell'azione di un pubblico ufficiale può causare polemiche, inchieste interne e procedimenti disciplinari, rappresentando un male ingiusto per il pubblico ufficiale.

A differenza della minaccia, la definizione di violenza è più complessa e ha suscitato dibattiti in dottrina. Esistono due principali concezioni:

  • Concezione lata (ampia): Violenza è ogni condotta, diversa dalla minaccia, idonea a coartare la volontà del destinatario. Questa concezione include anche forme di violenza psicologica e azioni che non necessariamente causano un pregiudizio fisico.

  • Concezione restrittiva: Violenza è solo uno spiegamento di energia fisica che produce un pregiudizio fisico, come percosse al destinatario. Alcuni autori propongono che la violenza deve almeno coinvolgere un contatto fisico per essere considerata tale.

Anche la nozione di violenza è stata oggetto di un ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza che possiamo così sintetizzare. 

  • Difficoltà di distinzione: Distinguere tra contatto fisico con valenza aggressiva e contatto fisico privo di tale valenza è complesso. La norma non specifica un particolare "animus" dell'agente per differenziare queste situazioni.

  • Legislazione e sistematica: L'interpretazione tradizionale, che include anche la violenza psicologica, è supportata dalla terminologia e dalla struttura del codice Rocco. Per esempio, l'art. 613 c.p. considera la suggestione ipnotica o la somministrazione di alcolici o stupefacenti come forme di violenza. Anche l'art. 46 c.p. considera la violenza fisica come un'attenuante, dimostrando che il concetto di violenza può includere coartazione del volere.

  • Applicazione pratica: In molti casi, le condotte sussumibili nel concetto lato di violenza possono essere ricondotte anche al concetto di minaccia. Ad esempio, spingere, trattenere, urtare o strattonare un pubblico ufficiale può essere considerato violenza, ma anche minaccia in determinate circostanze.

Un'altra questione rilevante è se i delitti di violenza e resistenza possano essere consumati mediante violenza meramente reale, cioè rivolta alle cose e non alle persone:

  • Art. 336 c.p.: La violenza deve essere diretta verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, quindi la violenza reale non è sufficiente.

  • Art. 337 c.p.: La disposizione non è chiara, ma la tesi prevalente esclude la tipicità della violenza reale per ragioni sistematiche e in base all'oggettività giuridica del reato.

In conclusione, la discussione tra concezione lata e restrittiva della violenza non ha un impatto significativo per i delitti in questione, poiché molte condotte possono essere classificate sia come violenza sia come minaccia. Tuttavia, è importante adottare un'interpretazione che consideri la coartazione del volere come elemento chiave per la definizione di violenza in questo contesto.


6. La resistenza passiva

La resistenza passiva, in riferimento agli articoli 336 e 337 del codice penale, è generalmente considerata atipica. Questa concezione è radicata nell'idea che nella resistenza passiva manchi il requisito minimo del concetto di violenza: l'estrinsecazione positiva di energia fisica. Questa tesi, apparentemente persuasiva, si basa sulla definizione di violenza come una condotta commissiva. La mancata collaborazione con l'Autorità, pertanto, risulta atipica.

Contrariamente alla dottrina, la giurisprudenza presenta un quadro più complesso. Sebbene non vi siano posizioni esplicite che affermino la sussumibilità della resistenza passiva negli artt. 336 o 337 c.p., esistono numerose sentenze che ritengono integrata la violenza o la minaccia in condotte spesso riconducibili alla resistenza passiva.

Esempi tratti dalla giurisprudenza:

  1. Spintoni e strattoni: Condotte come spintoni, strattoni o il divincolarsi sono considerate tipiche, nonostante una parte della dottrina le classifichi come resistenza passiva.

  2. Forza statica e minaccia: La forza statica può integrare la minaccia ex art. 336 c.p. Ad esempio, sdraiarsi a terra per impedire l'arresto può non essere considerata resistenza passiva se si tratta di un uomo di 100 kg contro una poliziotta di 50 kg, ma in altri casi la forza statica può essere vista come minaccia. La formazione di una catena umana da parte di manifestanti non è considerata resistenza passiva per la sua valenza minatoria.

  3. Fughe spericolate: Le fughe in automobile con manovre spericolate rappresentano una minaccia per l'incolumità dei pubblici funzionari e dei terzi, quindi sono tipiche ex art. 336 c.p.

La mancata collaborazione con le Autorità è irrilevante ex artt. 336 e 337 c.p. solo se non assume, nemmeno implicitamente, il valore di minaccia. Ad esempio:

  • Fuga non pericolosa: Una fuga non pericolosa (senza superare i limiti di velocità, zig-zagare, invadere corsie opposte) non costituisce né violenza né minaccia, risultando quindi atipica.

  • Barriere umane e sit-in: Formare barriere umane o sit-in che impediscono l'accesso ad un edificio pubblico è considerato minaccia tacita. Queste condotte comunicano implicitamente che il pubblico funzionario dovrà affrontare un ostacolo fisico ingiusto per adempiere ai suoi doveri.


7. L'elemento soggettivo

Il dolo che caratterizza gli artt. 336 e 337 c.p. è un dolo specifico. Questo tipo di dolo non si limita alla rappresentazione e volontà del fatto di reato, ma include anche la volontà di raggiungere un ulteriore scopo che, tuttavia, non è necessario si realizzi per il perfezionamento dell'illecito penale. 

Per l'art. 336 c.p., tale scopo è l'influsso sulle decisioni della Pubblica Amministrazione da parte del privato, mentre per l'art. 337 c.p. è l'opposizione all'esecuzione delle decisioni della P.A.

Il concetto di opposizione è distinto da quello di impedimento, come utilizzato in altri articoli del codice Rocco, come l'art. 338 c.p., dove impedimento significa preclusione assoluta. Opporsi può significare anche solo rendere meno agevole l'attività della P.A., quindi il dolo è integrato anche solo dall'intento di frapporre un ostacolo temporaneo e precario alla P.A. o di intralciare o turbare lo svolgimento del servizio.

È irrilevante se alla finalità specifica si accompagnino altri scopi o quali siano i motivi che le sorreggono. Se la finalità che sorregge la condotta aggressiva o minatoria non è influenzare le determinazioni della P.A. o opporsi ad essa, ma attuare una ritorsione contro i funzionari per decisioni amministrative sgradite, si è al di fuori delle fattispecie degli artt. 336 e 337 c.p.

È necessario che l'autore si rappresenti gli elementi del fatto, inclusa la qualità di pubblico agente della persona contro cui agisce. Non è richiesta una conoscenza specialistica, ma una conoscenza parallela nella sfera laica, sufficiente a capire che la persona agisce per finalità di interesse generale.

Ad esempio:

  • Chi si oppone a un privato che tenta un arresto in flagranza deve sapere che l'arresto non è un'azione meramente privatistica.

  • Chi minaccia un privato chiamato a testimoniare deve sapere che la testimonianza è per realizzare un interesse generale.

Alcuni autori hanno interpretato che per i reati a dolo specifico sia necessario anche che gli atti siano idonei a conseguire l'obiettivo del fine tipizzato. Tuttavia, questa interpretazione non è condivisibile per gli artt. 336 e 337 c.p., poiché si tratta di reati a condotta già illecita in quanto offensiva della libertà morale dei pubblici agenti.

Secondo questa interpretazione, i reati a dolo specifico dovrebbero caratterizzarsi per l'idoneità degli atti rispetto al fine, ma tale requisito è rilevante solo per i reati a condotta-base neutra. Per gli artt. 336 e 337 c.p., le condotte vietate sono già offensive del bene protetto, quindi il dolo specifico non modifica la valutazione obiettiva, ma incide solo sul piano soggettivo.


8. Rapporti con gli altri reati

È impossibile configurare un concorso formale di reati tra le fattispecie previste dagli artt. 336 c.p. e 337 c.p., poiché non si può con un'unica azione sia coartare la volontà del pubblico ufficiale costringendolo ad omettere un atto di ufficio sia ostacolarlo mentre compie lo stesso atto. Tuttavia, è possibile configurare un concorso materiale tra i due reati qualora vengano commessi con azioni autonome e cronologicamente distinte.

Quando violenza o minaccia sono rivolte a più persone nel medesimo contesto temporale, si pone il problema dell'unità o pluralità di reati. Alcuni dottrinari sostengono che si tratti di un solo reato, dato che viene leso un unico bene protetto: la normalità del funzionamento della P.A. La giurisprudenza, però, generalmente riconosce la pluralità di reati, considerando che gli artt. 336 e 337 c.p. proteggono anche la libertà morale. Di conseguenza, ogni persona minacciata o aggredita costituisce una lesione distinta ai beni protetti e quindi un reato separato.

La giurisprudenza ritiene che i reati previsti dagli artt. 336 e 337 c.p. possano concorrere con vari altri reati senza assorbimento, tra cui favoreggiamento personale, evasione, tentato omicidio, lesioni, e rapina impropria. Tuttavia, ci sono perplessità in dottrina riguardo al concorso formale con alcuni di questi reati, specialmente con l'evasione e la rapina impropria.

Per esempio:

  • Evasione: Secondo parte della dottrina, l'evasione in forma aggravata assorbe l'art. 337 c.p., avendo una natura complessa.

  • Rapina impropria: Si dubita della possibilità di concorso formale con la rapina impropria, dato che vi è una coincidenza di elementi di fatto, ma la giurisprudenza giustifica il concorso basandosi sulla diversità dei beni protetti.

La giurisprudenza nega il concorso formale tra l'art. 336 c.p. e l'art. 611 c.p., ritenendo il primo speciale rispetto al secondo per la particolare qualifica pubblicistica del soggetto minacciato o aggredito. Tuttavia, questa posizione non è del tutto convincente poiché anche l'art. 611 c.p. può dirsi speciale rispetto all'art. 336 c.p., in quanto prevede la finalità di far commettere un reato al pubblico agente, un elemento specializzante rispetto all'atto contrario ai doveri di ufficio.

Il rapporto tra le due norme dovrebbe essere visto in termini di specialità reciproca o bilaterale:

  • Art. 336 c.p.: Speciale rispetto all'art. 611 c.p. per le qualifiche dei soggetti passivi.

  • Art. 611 c.p.: Speciale rispetto all'art. 336 c.p. per la finalità del reo.

Per risolvere questo concorso, si potrebbe accogliere l'idea dottrinale che tra due reati reciprocamente speciali si applichi quello con più elementi di differenziazione. Tuttavia, dato che nessuna delle due norme ha chiaramente più elementi di specialità rispetto all'altra, e per evitare vaghi criteri di sussidiarietà e consunzione, si dovrebbe concludere per il concorso formale tra le due fattispecie.

 

Fonte: Articolo compendiato da Enrico Infante, Trattato di Diritto Penale, Parte Speciale, UTET.

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