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Curava i tumori con l'omeopatia ed il metodo Hamer: La sentenza definitiva della corte di cassazione

Omissione terapeutica

Il caso di studio riguarda una sentenza della corte di cassazione pronunciata in un procedimento penale a carico di un medico, accusato di aver consigliato ad una paziente, cui era stato diagnosticato il 1 dicembre 2005 "un nevo discromico e plemorfo in regione scapolare sinistra", di non sottoporsi ad un intervento di relativa asportazione, indicandole una terapia ricavata dalla medicina omeopatica Hahnemanniana priva di qualsiasi riconoscimento scientifico, reiterando gli stessi suggerimenti negli anni successivi, anche dopo l'asportazione del suddetto nevo (avvenuta il 21 marzo 2014) e la formulazione della diagnosi di "melanoma maligno a cellule epitelimorfe".

All'esito del processo di primo grado, il sanitario venivano condannato per il reato di omicidio colposo e la sentenza veniva confermata anche nel successivo giudizio di appello.

Avverso la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di appello, l'imputato proponeva ricorso per cassazione.

Analizziamo nel dettaglio la decisione della suprema corte.

Autorità Giudiziaria: Quarta Sezione della Corte di Cassazione

Reato contestato: Omicidio colposo ex art. 590 c.p. per omissione terapeutica

Imputati: medico

Esito: Ricorso rigettato (condanna definitiva) - sentenza n. 5117 (ud. 04/11/2021, dep. 14/02/2022)


Indice:


1. La contestazione

Con sentenza del 20 maggio 2020 la Corte di appello di Torino ha confermato la pronuncia del locale Tribunale, in composizione monocratica, del 2 aprile 2019 con cui A.L.M.G. era stata condannata alla pena di anni tre di reclusione in ordine al delitto di cui agli artt. 113 e 589 c.p., art. 61 c.p., n. 3, perché, quale mentore e collega di studio della Dott.ssa D.G. - giudicata separatamente -, in cooperazione con quest'ultima che aveva in cura la paziente L.M., per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché in violazione delle elementari regole di comportamento riconosciute dalla comunità scientifica, consigliava alla paziente, cui era stato diagnosticato il 1 dicembre 2005 "un nevo discromico e plemorfo in regione scapolare sinistra", di non sottoporsi ad un intervento di relativa asportazione, indicandole una terapia ricavata dalla medicina omeopatica Hahnemanniana priva di qualsiasi riconoscimento scientifico, reiterando gli stessi suggerimenti negli anni successivi, anche dopo l'asportazione del suddetto nevo (avvenuta il 21 marzo 2014) e la formulazione della diagnosi di "melanoma maligno a cellule epitelimorfe", in questo modo facendo sì che alla L. non venissero praticati interventi e terapie necessarie (tra cui exeresi o asportazione chirurgica del nevo ed asportazione dei linfonodi), non impedendone il decesso, avvenuto il (OMISSIS) a seguito delle molteplici metastasi sviluppatesi dal melanoma. Con l'aggravante di aver commesso il fatto nonostante la previsione dell'evento.


2. La sentenza di condanna

La Corte territoriale, nel conferire risposta alle numerose doglianze eccepite dall'appellante, ha compiutamente rappresentato le risultanze emerse dal giudizio di primo grado, in particolar modo evidenziando la correttezza della ricostruzione dei fatti ivi operata, successivamente arricchita dagli accertamenti presenti nella sentenza definitiva di condanna della D..

Risulta giudizialmente comprovato, pertanto, che tale ultima era stata unica medico curante della L., di cui aveva seguito l'intero percorso terapeutico suggerendole il ricorso alla medicina omeopatica (in particolare alla c.d. nuova medicina germanica di Hamer).

La responsabilità della L.A. è stata configurata, invece, in ragione della cooperazione avuta con il medico curante - di cui era stata mentore e con la quale aveva condiviso fin dagli anni ‘90 lo stesso studio professionale e il ricorso alla medicina omeopatica, con rifiuto del trattamento chirurgico delle neoplasie - nel caso di specie iniziata nel maggio 2012, allorquando l'imputata era stata invitata dalla D. ad un consulto, nel corso del quale aveva potuto visionare, in esito ad una faticosa seduta, la lesione della paziente, diagnosticandone la natura degenerativa cancerogena.

Tale collaborazione è risultata comprovata, oltre cha da diverse testimonianze - e soprattutto da quella di L.R., fratello della vittima, che aveva riferito di aver saputo dalla propria sorella di essere seguita dalla D. e da una sua collega spagnola (identificabile nel A.L.) - da numerosi scambi di mail intervenuti tra le due dottoresse, aventi costantemente ad oggetto lo stato di salute della L., le visite da effettuarsi, le terapie da seguire e le preoccupazioni legate al possibile ricorso della paziente al trattamento chirurgico e chemioterapico.

Anche l' A.L., pertanto, è stata ritenuta responsabile, in quanto titolare di specifico potere impeditivo, del decesso della persona offesa, in particolar modo per non essersi attivata per informarla, pur avendola vista in più occasioni, della possibilità di ricorrere ad opzioni terapeutiche tradizionali, fondate su base scientifica, in relazione all'evoluzione del melanoma, nonché alle procedure di diagnosi e di cura previste dalle linee guida accettate dalla comunità scientifica, invece di avallare la fallimentare linea terapeutica dettata dalla D..


3. I motivi di ricorso del sanitario

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di A.L.M.G., proponendo cinque motivi di censura.


I

Con il primo hanno dedotto violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta cooperazione colposa dell'imputata nella realizzazione del reato.

E' stato, in particolare, ribadito - in esito alle risultanze emerse dalla sentenza di condanna della D. - che solo tale ultima, per libera autodeterminazione terapeutica della paziente, era stata scelta come medico curante della L.. Esclusivamente costei le aveva suggerito il ricorso alla medicina omeopatica e l'aveva dissuasa dalla possibilità di optare per l'asportazione chirurgica del neo, solo tardivamente effettuata ancora contro la volontà della D..

Nessuna relazione terapeutica, pertanto, era intercorsa tra la vittima e l' A.L. e ciò, a dire della difesa, non consentirebbe, in quanto del tutto contraddittoria, la configurazione della cooperazione colposa ex art. 113 c.p., invece ascritta all'imputata. Mancherebbe, in particolare, la consapevolezza psicologica di cooperare, e cioè di offrire la propria condotta agevolatrice, invece ritenuta indispensabile dalla giurisprudenza di legittimità per poter imputare ad un soggetto che non abbia violato la regola cautelare la consumazione del reato colposo. Tale coinvolgimento psicologico non potrebbe, di certo, essere riferito all' A.L., che solo episodicamente, ed in maniera del tutto estemporanea, aveva offerto il proprio consulto per esaminare lo stato di salute del neo. Per libera scelta della paziente, quindi, non era sorto alcun rapporto terapeutico con l' A.L., né, di conseguenza, poteva ritenersi sussistente tra le due dottoresse una comune consapevolezza di cooperare e far convergere le proprie condotte mediche al fine di curare la L..

Nessuna posizione di garanzia era stata, in sostanza, assunta dall'imputata, cui non potrebbe essere ascritta alcuna condotta agevolatrice nella causazione del fatto colposo, non potendo essere desunta essa dalla mera autorevolezza avuta rispetto alla D., nella ritenuta carenza di una fonte normativa che le imponesse l'obbligo giuridico di attivarsi.


II

Con il secondo motivo vengono eccepiti violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione dei dati documentali e delle evidenze rappresentative a sostegno della tesi della cooperazione colposa dell'imputata, ex art. 192 c.p.p., comma 2, e art. 533 c.p.p., comma 1.

A dire della ricorrente, le plurime fonti valorizzate dalla Corte territoriale per dimostrare la sussistenza di una condotta partecipativa e cooperativa mantenuta nella gestione sanitaria della vittima dopo il consulto del 2012, non consentirebbero di accertare, oltre ogni ragionevole dubbio, la sua responsabilità per cooperazione colposa nell'omicidio della L..

Viene contestata, in particolare, l'illogicità di diversi passaggi motivazionali in cui il giudice di secondo grado ha affermato l'attendibilità e la rilevanza delle dichiarazioni rese da alcuni testimoni ( L.R., P.P., M.S., V.M.) ed ha conferito fondante rilievo al contenuto ed alla presunta portata dimostrativa di alcune comunicazioni intercorse via e-mail nel 2014 tra diversi soggetti ( L.- D., D.- A.L., L.R.- L.M., M. e R.- D., A.L.- R., A.L.- S.).


III

Con la terza doglianza la ricorrente ha lamentato violazione di legge in relazione alla sussistenza del nesso causale tra la sua condotta e la morte di L.M..

Ha, in particolare, sottoposto a critica il giudizio controfattuale svolto dal giudice di secondo grado, per il quale - pur considerando che nel 2012 non vi erano segni di metastasi, che la stadiazione del melanoma è intervenuta solo il 26 marzo 2014 e che nel giugno dello stesso anno vi erano solo due linfonodi interessati dal processo metastatico o proliferativo - è risultato comunque comprovato che ove nel 2012, invece di proseguire nella terapia omeopatica, fosse stato consigliato alla L. di sottoporsi all'exeresi e poi a cicli di radio o chemioterapia, ovvero all'innovativa terapia biomolecolare, l'aspettativa di vita della paziente sarebbe stata certamente più lunga e con sofferenze inferiori. In senso contrario, invece, si dovrebbe affermare che l'assenza nel 2012 di fatti scientifici certi renderebbe impossibile sostenere, in termini di efficacia causale, che un diverso comportamento sanitario dell' A.L. avrebbe potuto mutare la storia clinica della vittima.


IV

Con il quarto motivo di ricorso viene eccepita violazione di legge per mancata applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p..

La gravità della colpa e la scarsa intensità del contributo offerto dall'imputata, limitatasi ad un unico contatto avuto con la L. nel 2012, giustificherebbero, infatti, in ragione della loro minima efficacia causale, il riconoscimento dell'attenuante della minima partecipazione.


V

Con l'ultima doglianza, infine, la ricorrente ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla commisurazione della pena base, ritenuta ingiustificatamente elevata - anche rispetto alla pena inflitta alla D. - e non adeguatamente motivata, oltre al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, di cui invece risulterebbe meritevole, tenuto conto dell'effettuato risarcimento del danno e del buon comportamento processuale mantenuto.

Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.

I difensori di L.R., L.M. e dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Modena hanno fatto pervenire rispettivi atti con cui hanno revocato la loro costituzione di parte civile.


4. La decisione della corte di cassazione: Il ricorso va rigettato

Il proposto ricorso non è fondato, per cui lo stesso deve essere rigettato.


I

In primo luogo privo di fondamento è il motivo introduttivo, con cui la ricorrente ha lamentato l'insussistenza di ogni sua cooperazione colposa nella realizzazione del reato, per non avere avuto nessuna relazione terapeutica con la L., di cui unico medico curante era la D., e quindi latitando in costei la consapevolezza psicologica di cooperare, necessaria per la consumazione del reato colposo.

Diversamente da quanto dedotto dalla A.L., invece, la Corte di appello ha diffusamente ricostruito le plurime emergenze probatorie da cui evincere la sussistenza di un'effettiva cooperazione colposa svolta dalla ricorrente nella verificazione dell'evento mortale.

Come ampiamente rappresentato dal giudice di seconde cure, infatti, non è di nessun rilievo la circostanza che la ricorrente non avesse avuto nessun rapporto terapeutico con la L., né che non avesse ricoperto alcuna specifica posizione di garanzia, pertenendo la stessa alla collega D..

Non vi e', infatti, nessuna illogicità, né violazione di alcun precetto giuridico, nel ragionamento con cui la Corte di appello, con motivazione del tutto e logica e congrua, ha esplicato le argomentazioni per cui rispetto all' A.L., pur non potendosi configurare la violazione di una regola cautelare causalmente orientata a determinare l'evento, non trattandosi del medico curante della persona offesa, possa comunque essere ascritta una cooperazione colposa nella verificazione del tragico evento, in ragione dell'ascendente avuto sia nei confronti della paziente che del medico curante, nonché delle condotte a lei direttamente imputabili, le quali certamente - almeno a far data dal 2012 - hanno contribuito a definire il percorso terapeutico, avallando le nefaste scelte della D. pur nella consapevolezza della loro contrarietà alla medicina tradizionale e dei pericolosi rischi connessi alla grave situazione di salute in cui versava la L..

Per come, infatti, correttamente argomentato dalla Corte territoriale, con condivisibile e logica motivazione, "la condotta dell' A. che fu chiamata nel maggio 2012 a valutare la situazione di rischio in cui la L. si trovava, percependone immediatamente la gravità, visto che definì la formazione cutanea un "cancero", fu di piena adesione al fallimentare piano terapeutico elaborato dalla D., al consiglio di rimandare l'intervento fino a che il tumore non fosse uscito naturalmente dal corpo della paziente, adesione che è connotata da una manifesta attitudine agevolatrice della dissennata condotta dell'allieva D.". Parimenti corretta, quindi, è la successiva considerazione per cui è "circostanza pacifica che la titolare della posizione di garanzia nei confronti della L. era la D.; cionondimeno, è un dato altrettanto incontroverso che l' A. non si sia attivata, una volta coinvolta dal primo consulto, definito dalla L. come la faticosa seduta, venendo così meno all'obbligo connaturato con la professione medica di attivarsi a tutela della salute e della vita del paziente, tenendo una condotta professionale caratterizzata da grave imprudenza ed imperizia".

Trattasi di argomentazione del tutto logica e congrua, priva dei dedotti vizi e conforme ai più corretti canoni ermenuetici, per cui il Collegio non può che inferirne il necessario rigetto dell'eccepita doglianza.


II

Con riferimento, poi, al vizio motivazionale lamentato nel secondo motivo dalla A.L., in cui ha contestato l'illogicità della motivazione con cui la Corte di merito ha ritenuto l'attendibilità di alcuni testimoni e la rilevanza di talune mail, benché inidonee a dimostrare la sussistenza di una condotta partecipativa e cooperativa mantenuta dalla ricorrente nella gestione sanitaria della vittima dopo il consulto del 2012, il Collegio osserva come la dedotta questione pertenga alla ricostruzione del fatto criminoso e all'interpretazione delle prove assunte, e cioè ad aspetti non passibili di valutazione da parte di questa Corte.

In tema di sindacato del vizio di motivazione, infatti, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi - dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti - e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così, tra le tante, Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv, 203428-01).

Esula, quindi, dai poteri di questa Corte la rilettura della ricostruzione storica dei fatti posti a fondamento della decisione di merito, dovendo l'illogicità del discorso giustificativo, quale vizio di legittimità denunciabile mediante ricorso per cassazione, essere di macroscopica evidenza (cfr. Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794-01; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944-01).

Sono precluse al giudice di legittimità, pertanto, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., fra i molteplici arresti in tal senso: Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 28060101; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482-01; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507-01). E', conseguentemente, sottratta al sindacato di legittimità la valutazione con cui il giudice di merito esponga, con motivazione logica e congrua, le ragioni del proprio convincimento.

Ebbene, nel caso di specie può senz'altro ritenersi che la Corte territoriale abbia fornito una chiara rappresentazione degli elementi di fatto considerati nella propria decisione, oltre che della modalità maggiormente plausibile con cui l'evento è da ritenersi sia accaduto. Le censure sollevate dalla ricorrente si appalesano, pertanto, come volte ad ottenere solo una rivalutazione del materiale probatorio raccolto in sede di merito, il che, avuto riguardo alla coerenza ed alla logicità della motivazione resa, appare del tutto infondato.

D'altro canto, gli elementi dedotti dalla ricorrente possono, al più, valere a suggerire una lettura alternativa - e meno logica - delle emergenze probatorie, ma non di certo a ribaltarne l'esito in modo univoco, con ciò che ne consegue in termini di affermazione della penale responsabilità dell'imputata.


III

Priva di pregio è pure la censura eccepita con il terzo motivo, afferente all'insussistenza del nesso di causalità tra la condotta imputabile alla A.L. e la morte della persona offesa, in particolar modo con riguardo all'erroneo giudizio controfattuale svolto da parte del giudice di seconde cure.

La causa dell'evento e', come noto, da individuarsi nella condotta materiale, che nei reati colposi deve essere caratterizzata dalla violazione del dovere di diligenza. Il significato da imputare alla norma dell'art. 43 c.p. e', quindi, quello di richiedere che l'evento si verifichi "a causa" di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, esigendo, ai fini del rimprovero a titolo di colpa, che essa si materializzi nell'evento concretamente accaduto.

Come autorevolmente precisato dalle Sezioni Unite, il giudizio controfattuale va compiuto sia nella causalità commissiva che in quella omissiva, ipotizzando nella prima che la condotta sia stata assente e che nella seconda sia stata invece presente, verificando il grado di probabilità che l'evento si sarebbe comunque prodotto (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138-01). Lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre, cioè, quello del "condizionale controfattuale", per cui l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell'omissione dell'agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo comportano l'esito assolutorio del giudizio (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139-01).

Orbene, applicando gli indicati principi al caso di specie, appare corretta la motivazione con cui la Corte territoriale ha ritenuto configurabile nei confronti dell'imputata la ricorrenza della causalità della colpa, in esito all'esperimento di un corretto giudizio controfattuale.

In proposito, infatti, è per il Collegio del tutto coerente e logico il giudizio con cui la Corte di appello, in esito a compiuta e adeguata motivazione, è pervenuta alla configurazione del nesso eziologico tra la condotta ascrivibile alla A.L. e la verificazione dell'evento mortale. Conformemente alle - parimenti corrette - considerazioni espresse da parte del primo giudice, infatti, è stato ampiamente e condivisibilmente osservato come, pur considerando che nel 2012 non vi erano segni di metastasi, che la stadiazione del melanoma è intervenuta solo il 26 marzo 2014 e che nel giugno dello stesso anno vi erano solo due linfonodi interessati dal processo metastatico o proliferativo, sia da ritenersi, comunque, giudizialmente comprovato che ove nel 2012, invece di proseguire nella terapia omeopatica, fosse stato consigliato alla L. di sottoporsi all'exeresi e poi a cicli di radio o chemioterapia, ovvero all'innovativa terapia biomolecolare, l'aspettativa di vita della paziente sarebbe stata certamente più lunga e con sofferenze ben inferiori rispetto a quelle effettivamente patite.

Trattasi di conclusione di sicuro priva di ogni irragionevolezza ed illogicità, evincibile da dati clinici e scientifici, come in particolare dedotti dallo stadio raggiunto dal melanoma della L..

I giudici di secondo grado hanno, di conseguenza, del tutto correttamente ritenuto la sussistenza del nesso di causa tra la condotta gravemente negligente e imperita della A.L., che non ha mai sollecitato la paziente o la collega D. ad abbandonare immediatamente la medicina omeopatica per affidarsi a quella allopatica, ed il decorso ingravescente della grave patologia. E' dato certamente non contestabile, infatti, che ove la L. fosse stata indirizzata subito, quanto meno nel 2012, al ricorso alla medicina tradizionale, quando ancora non si era manifestato un quadro sintomatologico particolarmente allarmante, con altissima probabilità sarebbe stata ben altra, e migliore, la prognosi di sopravvivenza della vittima, oltre che della qualità della sua vita.


IV

Neppure fondato è il quarto motivo di doglianza dedotto dall' A.L., risultando corretta la motivazione con cui la sentenza impugnata ha esplicato le ragioni per le quali, nel caso di specie, non può essere configurata l'ipotesi dell'attenuante della contribuzione di minima importanza, di cui all'art. 114 c.p..

La Corte di appello ha, infatti, congruamente esplicato i motivi per cui la condotta posta in essere dall'imputata non possa essere qualificata nei termini della rilevante marginalità, avendo costei avallato il fallimentare piano terapeutico proposto dalla D. per la cura di un melanoma già trovantesi al terzo stadio, nonché patrocinato la teoria dell'espulsione del cancro dal corpo della vittima, in spregio ai più elementari protocolli della medicina tradizionale, e ciò anche dopo che era già risultata evidente l'infruttuosità delle scelte terapeutiche esercitate.

Ciò si conforma ai principi espressi da parte di questa Corte, per la quale, ai fini dell'integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione, non è sufficiente una minore efficacia causale dell'attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzato nell'assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all'evento da risultare trascurabile nell'economia generale dell'iter criminoso, sì da poter essere avulsa, senza apprezzabili conseguenze pratiche, dalla serie causale produttiva dell'evento (Sez. 4, n. 49364 del 19/07/2018, P., Rv. 274037-01; Sez. 2, n. 835 del 18/12/2012, dep. 2013, Modafferi e altro, Rv. 254051-01).


V

Del tutto priva di ogni fondamento e', infine, la censura conclusiva, con cui la ricorrente ha lamentato l'incongruità del trattamento sanzionatorio subito, definito eccessivamente elevato ed iniquo rispetto a quello ricevuto dalla D., altresì lamentando il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, di cui sarebbe invece meritevole, in ragione dell'effettuato risarcimento del danno e del buon comportamento processuale tenuto.

Trattasi, invero, di doglianze generiche ed aspecifiche, palesemente contraddette dalla logicità e adeguatezza con cui la Corte di appello, diversamente da quanto dedotto dalla ricorrente, ha rappresentato le ragioni per cui ha ritenuto la congruità della pena in concreto applicata, conseguente alla sussistenza di una "eccezionale gravità della colpa" ascrivibile all'imputata, come dedotta dal fatto che costei: aveva cercato di sottrarre la D. alle proprie responsabilità; non aveva fornito alcun contributo ai fini della reale ricostruzione della vicenda; aveva posto in essere la sua condotta nonostante la previsione del letale evento, in quanto consapevole della natura tumorale del neo; aveva supportato la collega D. nelle fallimentari scelte terapeutiche assunte, anche a fronte della loro evidente inidoneità e pericolosità per la vita della paziente.

L'indicata motivazione prevede, pertanto, un chiaro riferimento al grado della colpa, elencato dalla norma dell'art. 133 c.p., tra i parametri di cui, all'evidenza, il giudice di seconde cure ha tenuto doverosamente conto ai fini dell'effettuazione della sua valutazione.

Si tratta, dunque, di una motivazione che, in quanto immune da vizi logici e coerente con il dictum della sentenza, non può in questa sede essere censurata.

Ne' di alcun rilievo è la doglianza con cui l' A.L. ha lamentato la sussistenza di una disparità di trattamento con la sanzione imposta alla D., assumendo, in proposito, valenza troncante il principio, reiteratamente affermato da parte di questa Corte, per cui non sono ammissibili le questioni con le quali si deduca la disparità di trattamento tra coimputati, atteso che, in tema di ricorso per cassazione, non può essere considerato come indice di vizio di motivazione il diverso trattamento sanzionatorio riservato nel medesimo procedimento ai coimputati, anche se correi, salvo che il giudizio di merito sul diverso trattamento del caso, che si prospetta come identico, sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali (così, espressamente, Sez. 3, n. 27115 del 19/02/2015, La Penna, Rv. 264020-01; Sez. 6, n. 21838 del 23/05/2012, Giovane, Rv. 252880-01).

Ciò, invero, non è dato ravvisare nel caso di specie, non essendo state in alcun modo enunciate le supposte discriminazioni in ordine alla determinazione della pena, con la specificità che il motivo di impugnazione necessariamente richiede.


VI

Manifestamente infondato, infine, è il motivo concernente il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in quanto la motivazione resa dalla Corte di appello ben rappresenta e giustifica, in punto di diritto, le ragioni per cui il giudice di seconde cure ha ritenuto di negare il riconoscimento del beneficio ex art. 62-bis c.p., all'imputata, valorizzando il profilo della gravissima colpa ravvisabile nella sua condotta, rispetto alla quale assumono rilievo solo subvalente gli elementi dedotti da parte della ricorrente.


Trattasi, infatti, di motivazione priva di vizi logici, coerente con le emergenze processuali, che non risulta incisa dalle doglianze difensive, limitatesi ad indicare, in maniera generica, aspetti a sé favorevoli, comunque inidonei a far ritenere il mancato riconoscimento delle attenuanti ex art. 62-bis c.p. quale conseguenza di un arbitrio o di un ragionamento illogico.

Il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e', pertanto, giustificato da motivazione congrua ed esente da manifesta illogicità, in quanto tale insindacabile in sede di legittimità (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi e altri, Rv. 242419-01).

D'altro canto - in particolare dopo la modifica dell'art. 62-bis c.p., disposta dal D.L. 23 maggio 2008, n. 2002, convertito con modifiche dalla L. 24 luglio 2008, n. 125 - è assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dar conto, come implicitamente avvenuto nella situazione in esame, di avere valutato e applicato i criteri ex art. 133 c.p.. In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di tale adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da imporre un obbligo per il giudice, ove ritenga di escluderla, di doverne giustificare, sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, secondo una giurisprudenza consolidata di questa Corte, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (così, tra le tante, Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381-01). In altri termini, l'obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (cfr. Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace ed altro, Rv. 245241-01).


5. Dispositivo

Al rigetto del ricorso segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna di A.L.M.G. al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 4 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2022

 

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