Omissione terapeutica

Il caso di studio riguarda una sentenza della corte di cassazione pronunciata in un procedimento penale a carico di un medico, accusato di aver consigliato ad una paziente, cui era stato diagnosticato il 1 dicembre 2005 "un nevo discromico e plemorfo in regione scapolare sinistra", di non sottoporsi ad un intervento di relativa asportazione, indicandole una terapia ricavata dalla medicina omeopatica Hahnemanniana priva di qualsiasi riconoscimento scientifico, reiterando gli stessi suggerimenti negli anni successivi, anche dopo l'asportazione del suddetto nevo (avvenuta il 21 marzo 2014) e la formulazione della diagnosi di "melanoma maligno a cellule epitelimorfe".
All'esito del processo di primo grado, il sanitario venivano condannato per il reato di omicidio colposo e la sentenza veniva confermata anche nel successivo giudizio di appello.
Avverso la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di appello, l'imputato proponeva ricorso per cassazione.
Analizziamo nel dettaglio la decisione della suprema corte.
Autorità Giudiziaria: Quarta Sezione della Corte di Cassazione |
Reato contestato: Omicidio colposo ex art. 590 c.p. per omissione terapeutica |
Imputati: medico |
Esito: Ricorso rigettato (condanna definitiva) - sentenza n. 5117 (ud. 04/11/2021, dep. 14/02/2022) |
Indice:
3. I motivi di ricorso del sanitario
4. La decisione della corte di cassazione: Il ricorso va rigettato
5. Dispositivo
1. La contestazione
Con sentenza del 20 maggio 2020 la Corte di appello di Torino ha confermato la pronuncia del locale Tribunale, in composizione monocratica, del 2 aprile 2019 con cui A.L.M.G. era stata condannata alla pena di anni tre di reclusione in ordine al delitto di cui agli artt. 113 e 589 c.p., art. 61 c.p., n. 3, perché, quale mentore e collega di studio della Dott.ssa D.G. - giudicata separatamente -, in cooperazione con quest'ultima che aveva in cura la paziente L.M., per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché in violazione delle elementari regole di comportamento riconosciute dalla comunità scientifica, consigliava alla paziente, cui era stato diagnosticato il 1 dicembre 2005 "un nevo discromico e plemorfo in regione scapolare sinistra", di non sottoporsi ad un intervento di relativa asportazione, indicandole una terapia ricavata dalla medicina omeopatica Hahnemanniana priva di qualsiasi riconoscimento scientifico, reiterando gli stessi suggerimenti negli anni successivi, anche dopo l'asportazione del suddetto nevo (avvenuta il 21 marzo 2014) e la formulazione della diagnosi di "melanoma maligno a cellule epitelimorfe", in questo modo facendo sì che alla L. non venissero praticati interventi e terapie necessarie (tra cui exeresi o asportazione chirurgica del nevo ed asportazione dei linfonodi), non impedendone il decesso, avvenuto il (OMISSIS) a seguito delle molteplici metastasi sviluppatesi dal melanoma. Con l'aggravante di aver commesso il fatto nonostante la previsione dell'evento.
2. La sentenza di condanna
La Corte territoriale, nel conferire risposta alle numerose doglianze eccepite dall'appellante, ha compiutamente rappresentato le risultanze emerse dal giudizio di primo grado, in particolar modo evidenziando la correttezza della ricostruzione dei fatti ivi operata, successivamente arricchita dagli accertamenti presenti nella sentenza definitiva di condanna della D..
Risulta giudizialmente comprovato, pertanto, che tale ultima era stata unica medico curante della L., di cui aveva seguito l'intero percorso terapeutico suggerendole il ricorso alla medicina omeopatica (in particolare alla c.d. nuova medicina germanica di Hamer).
La responsabilità della L.A. è stata configurata, invece, in ragione della cooperazione avuta con il medico curante - di cui era stata mentore e con la quale aveva condiviso fin dagli anni ‘90 lo stesso studio professionale e il ricorso alla medicina omeopatica, con rifiuto del trattamento chirurgico delle neoplasie - nel caso di specie iniziata nel maggio 2012, allorquando l'imputata era stata invitata dalla D. ad un consulto, nel corso del quale aveva potuto visionare, in esito ad una faticosa seduta, la lesione della paziente, diagnosticandone la natura degenerativa cancerogena.
Tale collaborazione è risultata comprovata, oltre cha da diverse testimonianze - e soprattutto da quella di L.R., fratello della vittima, che aveva riferito di aver saputo dalla propria sorella di essere seguita dalla D. e da una sua collega spagnola (identificabile nel A.L.) - da numerosi scambi di mail intervenuti tra le due dottoresse, aventi costantemente ad oggetto lo stato di salute della L., le visite da effettuarsi, le terapie da seguire e le preoccupazioni legate al possibile ricorso della paziente al trattamento chirurgico e chemioterapico.
Anche l' A.L., pertanto, è stata ritenuta responsabile, in quanto titolare di specifico potere impeditivo, del decesso della persona offesa, in particolar modo per non essersi attivata per informarla, pur avendola vista in più occasioni, della possibilità di ricorrere ad opzioni terapeutiche tradizionali, fondate su base scientifica, in relazione all'evoluzione del melanoma, nonché alle procedure di diagnosi e di cura previste dalle linee guida accettate dalla comunità scientifica, invece di avallare la fallimentare linea terapeutica dettata dalla D..
3. I motivi di ricorso del sanitario
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di A.L.M.G., proponendo cinque motivi di censura.
I
Con il primo hanno dedotto violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta cooperazione colposa dell'imputata nella realizzazione del reato.
E' stato, in particolare, ribadito - in esito alle risultanze emerse dalla sentenza di condanna della D. - che solo tale ultima, per libera autodeterminazione terapeutica della paziente, era stata scelta come medico curante della L.. Esclusivamente costei le aveva suggerito il ricorso alla medicina omeopatica e l'aveva dissuasa dalla possibilità di optare per l'asportazione chirurgica del neo, solo tardivamente effettuata ancora contro la volontà della D..
Nessuna relazione terapeutica, pertanto, era intercorsa tra la vittima e l' A.L. e ciò, a dire della difesa, non consentirebbe, in quanto del tutto contraddittoria, la confi