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Dichiarazione infedele: non rileva la scorretta classificazione di elementi attivi esistenti


Sentenze della cassazione in materia di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000

La massima

In tema di dichiarazione infedele, le modifiche normative introdotte dall'art. 14 d.lg. 24 settembre 2015 n. 158 nel d.lg. 10 marzo 2000 n. 74 - consistite nell'abrogazione dell'art. 7 e nell'inserimento, all'art. 4, del comma 1-bis, ai sensi del quale non si tiene conto, per la configurabilità del reato, della non corretta classificazione di elementi attivi oggettivamente esistenti, effettuata in violazione dei criteri di competenza, inerenza e indeducibilità - hanno determinato una parziale abolitio criminis della norma incriminatrice, con gli effetti sul giudicato previsti dall'art. 2, comma secondo, cod. pen. (Cassazione penale , sez. III , 22/03/2017 , n. 30686)

Fonte: Ced Cassazione Penale

 

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La sentenza

Cassazione penale , sez. III , 22/03/2017 , n. 30686

RITENUTO IN FATTO

1. G.A. ricorre per cassazione impugnando l'ordinanza indicata in epigrafe con la quale il tribunale di Brindisi, in funzione di giudice dell'esecuzione, ha rigettato la richiesta di revoca proposta ai sensi dell'art. 673 c.p.p. per intervenuta parziale abolitio criminis del delitto di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4, nella parte riferibile alla violazione dei principi di inerenza e corrispondenza dei costi e dei ricavi e di corretta determinazione dell'esercizio di competenza, in relazione alla sentenza n. 176 del 2010 emessa dal Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, irrevocabile il 27 marzo 2013.


Il ricorrente era stato condannato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, poichè "... quale amministratore unico e legale rappresentante della Italiana Costruzioni 2000 srl, al fine di evadere le imposte sui redditi, non indicava, relativamente alla dichiarazione dei redditi d'imposta dell'anno 2004, elementi attivi, per un ammontare di 9.361.533,20 Euro, in tal modo evadendo l'imposta per una cifra superiore a 103.291,38 Euro nonchè l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti risultando superiore al 10% dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione e comunque superiori ad Euro 2.065.827,60".


1.1. Il giudice dell'esecuzione ha innanzitutto riassunto la richiesta di revoca avanzata dall'interessato, il quale aveva precisato che la contestazione mossagli scaturiva da una verifica fiscale dell'Agenzia delle Entrate circa il trattamento fiscale di cinque contratti di appalto per opere realizzate dalla società Italiana Costruzioni 2000 s.r.l..


In particolare, il G. aveva sostenuto che il giudice di primo grado, facendo anche proprie le conclusioni di un perito nominato nel corso del dibattimento, aveva concluso che l'imputazione dei costi e dei ricavi operata dalla società in questione era stata effettuata formalmente in modo corretto, specie in relazione ai ricavi. I costi rilevati, invece, non sempre avevano tenuto pedissequamente conto della normativa fiscale, in violazione dei principi di competenza e di correlazione tra costi e ricavi. Tale violazione del principio di competenza aveva determinato un vantaggio fiscale dovuto ad uno sgravio previsto per l'annualità fiscale 2003, cui erano stati imputati ricavi e costi che avrebbero dovuto essere invece imputati all'esercizio 2004.


E che si fosse trattato di una questione relativa alla violazione dei principi di competenza era dimostrato dal fatto che nella stessa sentenza, ed anche in quelle successive, era stata negata la ricorrenza della particolare ipotesi di non punibilità prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 7 (che prevedeva la non punibilità laddove le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio fossero eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile), solo perchè non era stata provata la circostanza dell'applicazione di metodi costanti di impostazione contabile, certamente non desumibile da un accertamento a campione.


Stando così le cose, il fatto commesso dal ricorrente poteva essere ritenuto un caso di dichiarazione infedele realizzata attraverso un abuso del diritto tributario, che aveva prodotto vantaggi fiscali attraverso la imputazione di costi e ricavi ad una annualità piuttosto che ad un'altra.


Tuttavia la recente riforma tributaria, di cui al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 aveva depenalizzato tanto l'abuso del diritto quanto, con particolare riferimento al reato di dichiarazione infedele, l'adozione di annotazioni contabili eseguite in violazione dei criteri di inerenza e di determinazione dell'esercizio di competenza, essendo stato previsto dal nuovo comma 1-bis del medesimo articolo che, ai fini della configurabilità del reato, non si dovesse più tenere conto "... della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati in bilancio o in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza di elementi passivi reali, della non deducibilità di elementi passivi reali...".


Ed allora, vertendosi in un caso di abolitio criminis parziale in cui non era richiesto alcun processo di rivalutazione da parte del giudice dell'esecuzione, la sentenza in esame andava revocata ai sensi e per gli effetti dell'art. 673 c.p.p..


1.2. Dopo aver in tal modo riassunto i termini dell'istanza, il giudice dell'esecuzione ha osservato come la modifica legislativa invocata dall'interessato ponesse il delicato problema, spesso ricorrente nel caso di successioni di leggi penali nel tempo, della corretta lettura dei canoni successori in materia di norme penali, occorrendo stabilire, nel caso di specie, se si fosse di fronte ad una ipotesi di continuità normativa, regolata dall'art. 2 c.p., comma 4, con conseguente applicazione della disciplina più favorevole, salvo il limite della pronuncia di sentenza irrevocabile, ovvero ad un caso di vera e propria abolitio criminis, soggetto alla previsione del citato articolo, comma 2, capace, con la sua forza, di travolgere il giudicato di condanna attraverso il meccanismo processuale dettato dall'art. 673 c.p.p., come appunto richiesto dal ricorrente.


1.3. Per risolvere la questione, il giudice dell'esecuzione ha chiarito che la società della quale il ricorrente era amministratore e legale rappresentante, aveva goduto di un periodo di esenzione decennale ai fini Irpeg, così come previsto dal D.P.R. n. 218 del 1978, art. 105 e della L. n. 64 del 1986, art. 14, con (s)cadenza 23 dicembre 2003.


In particolare l'imputato, con specifico riferimento a cinque contratti di appalto per opere realizzate dalla società summenzionata a cavallo fra gli esercizi 2003 e 2004, aveva contabilizzato nell'anno 2003 costi effettivamente sostenuti nell'anno 2004 e, di conseguenza, imputato all'anno d'imposta 2003 ricavi che dovevano essere contabilizzati nell'anno 2004 (anno nel quale, appunto, la società non usufruiva più dell'esenzione decennale a fini Irpeg).


Ed invero gli importi delle fatture emesse dai fornitori nell'anno 2004, concernenti beni consegnati nel 2004 e lavori eseguiti nello stesso 2004, erano stati indicati come costi sostenuti nel 2003.


Tale imputazione si era resa possibile, secondo la ratio decidendi, attraverso documentazione artificiosamente prodotta ed in particolare a mezzo di stati di avanzamento lavori falsi, peraltro redatti nel corso di fittizi contraddittori fra società committente e società appaltatrice, riconducibili ad un unico centro di interessi, rappresentato da due dipendenti della società appaltatrice, di verbali di collaudo inverosimili in quanto paradossalmente eseguiti prima del completamento dell'opera, di documenti creati ad arte, privi di data certa, peraltro non consegnati ai verificatori dell'Agenzia delle Entrate al momento dell'accertamento, ma prodotti solo in seguito.


Il risultato era stato quello di non indicare, al fine di evadere le imposte sui redditi, nelle dichiarazioni dei redditi dell'anno 2004, elementi attivi per un ammontare di poco inferiore ai 10 milioni di Euro (somma quasi dimezzata a seguito dell'accertamento peritale disposto).


1.4. Essendo questa la condotta per la quale era intervenuta la condanna irrevocabile, il giudice dell'esecuzione ha stimato evidente l'insussistenza di un caso di abolitio criminis, scorgendo una totale continuità normativa nella disciplina della dichiarazione infedele di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, la cui struttura ha ritenuto rimasta inalterata nonostante la successiva modificazione legislativa.


La condotta del ricorrente, infatti, non era consistita nell'aver indicato in dichiarazione elementi passivi "fittizi" (termine successivamente abrogato e sostituito con il termine di "inesistenti"), per cui, ove così fosse stato, si sarebbe posto il problema di interpretare il senso di tale modifica e di individuare la differenza di contenuto fra elementi passivi fittizi ed elementi passivi inesistenti, ma nell'aver indicato in dichiarazione elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.


Sotto questo profilo, dunque, l'intervento del legislatore posteriore non aveva alterato la fisionomia della fattispecie, non aveva soppresso un elemento strutturale della stessa, non aveva trasformato un fatto prima penalmente rilevante in un fatto penalmente irrilevante, quale conseguenza di un mutato giudizio di disvalore insito nella scelta di politica criminale, e quindi non aveva operato alcuna abolitio criminis, desumendosi ciò dalla lettura della sentenza di primo grado e di quelle successive, che hanno consentito al giudice dell'esecuzione di affermare che non si è trattato di un caso di dichiarazione infedele nella quale l'unica condotta era stata quella posta in essere in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, ma di una dichiarazione che si era basata su una condotta diversificata, e precisamente su atti e documenti falsi o inesistenti, prossima, dunque, ad una vera e propria dichiarazione fraudolenta.


Quindi, non si sarebbe trattato solamente di metodologie di valutazione o classificazione di costi e ricavi differenti da quelle previste dalla normativa fiscale, che in ogni caso avrebbero traslato l'imposizione in periodi successivi aventi parità di condizioni impositive (metodo elusivo) e che in ogni caso avrebbero permesso all'erario di riscuotere quanto spettante in epoca successiva, ma di una operazione dolosa che, basata su documentazione falsa o artificiosamente prodotta (nella sentenza sarebbe ampiamente ed in più parti evidenziato l'utilizzo di verbali di collaudo inverosimili, di un inesistente contratto di know how, di documentazione prodotta alla fine dell'accertamento a comprova dell'uso di metodologia di valutazione difforme da quella fiscale) aveva portato l'interessato a non indicare elementi attivi per l'anno d'imposta 2004, evitando la tassazione di utili che avrebbe conseguito in periodi d'imposta successivi, proprio perchè beneficiava nel periodo precedente, anno 2003, di una esenzione d'imposta.


1.5. Peraltro, ove anche si fosse trattato di una condotta risoltasi nella mera violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, avrebbe dovuto comunque trovare applicazione, secondo il giudice dell'esecuzione, l'art. 2 c.p., comma 4 e cioè quello che sancisce la intangibilità del giudicato, vertendosi in una ipotesi di continuità punitiva che prevede l'applicazione della disciplina più favorevole salvo il limite della pronuncia di una sentenza irrevocabile.


L'art. 2 c.p., comma 2, che consente il ricorso all'art. 673 c.p.p., infatti, richiede che la novazione legislativa investa il tipo di reato, abrogando il precetto penale per il quale il comportamento, all'epoca del fatto, costituiva reato.


Quando, invece, come nel caso di specie, la nuova legge compone una diversa disciplina per un fatto considerato come reato dalla precedente legge e come tale ancora previsto dalla nuova normativa, sia modificando la fattispecie in qualche suo elemento, sia introducendo o modificando cause di non punibilità, che non ineriscono alla struttura del reato, già perfetto nel concorso dei sui elementi materiale e psichico, la disposizione applicabile sarebbe quella dell'art. 2 c.p., comma 4, che fa salvi gli effetti della sentenza irrevocabile di condanna.


Sul punto, il giudice dell'esecuzione ha osservato che la previgente fattispecie di dichiarazione infedele, insieme a quella di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all'art. 3, nell'originario testo di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, prevedeva una causa di non punibilità (che la sentenza a carico del ricorrente aveva escluso) all'art. 7 il quale stabiliva, fra le altre cose, la non punibilità dei fatti di cui agli artt. 3 e 4 nel caso di rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile. Tale causa di non punibilità, pure invocata nel giudizio di merito, era stata esclusa in quanto non era risultato provato quest'ultimo elemento relativo alla applicazione di metodi costanti di impostazione contabile.


Il nuovo testo normativo, lasciando allora immutata la struttura della condotta e la struttura del reato, ha modificato i limiti della causa di non punibilità prima prevista dall'art. 7, così comportando soltanto una diversa disciplina del fatto che non inerisce alla struttura del reato, già perfetto nel concorso dei suoi elementi materiale e psichico e che rende quindi doveroso applicare la disposizione di cui all'art. 2 c.p., comma 4, che fa salvi gli effetti della sentenza irrevocabile di condanna.


Il giudice dell'esecuzione ha quindi concluso nel senso che ciò sarebbe tanto più vero se si considera che non si è trattato dell'inserimento di una nuova causa di non punibilità prima non prevista, ma soltanto di una sua parziale modifica; il che rafforzerebbe la conclusione che trattasi di una mera differenza di disciplina che, restando immutata la struttura del reato, comporta l'applicazione dell'art. 2 c.p., comma 4 e la conseguente intangibilità del giudicato.


2. Per l'annullamento dell'impugnata ordinanza il ricorrente solleva un unico complesso motivo di impugnazione, articolato sotto plurimi profili e sostenuto con memoria di replica alle conclusioni rassegnate dal Procuratore generale con la requisitoria scritta, con il quale deduce la violazione della legge penale e processuale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c), per erronea applicazione dell'art. 673 c.p.p. e dell'art. 2 c.p., comma 2, in relazione al mancato riconoscimento della parziale abolitio criminis del delitto previsto e punito dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 per effetto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 158 del 2015 e dal D.Lgs. n. 128 del 2015.


2.1. Osserva che, con il D.Lgs. n. 128 del 2015, in particolare con l'introduzione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis (Statuto dei diritti del contribuente), il legislatore ha inteso unificare il concetto di elusione fiscale ed abuso del diritto, procedendo altresì all'abrogazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis che fin ad allora disciplinava l'elusione fiscale, limitatamente peraltro ad una serie di fattispecie in esso espressamente indicate.


Con specifico riferimento alla nozione di abuso, si è allora previsto che "configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti".


Ma, soprattutto, il decreto legislativo avrebbe risolto la questione della sanzionabilità amministrativa/penale dell'abuso del diritto, prevedendo all'art. 10-bis, comma 13, dello Statuto dei diritti del contribuente che "... le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie".


L'opzione operata dal Legislatore, con il citato del nuovo art. 10-bis, comma 13, sarebbe stata chiaramente quella di escludere la rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del diritto, quali descritte dalla norma generale del citato articolo, facendo salva, per converso, l'applicabilità ad esse delle sanzioni amministrative, ove ne ricorrano in concreto i presupposti per la configurabilità di una violazione amministrativa tributaria.


Cosicchè, sempre nel solco di una maggiore delimitazione delle condotte penalmente rilevanti, con il successivo D.Lgs. n. 158 del 2015, è stato novellato il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 prevedendo, oltre all'innalzamento delle soglie di punibilità ed una diversa aggettivazione degli elementi passivi che devono essere "inesistenti" e non più "fittizi", l'introduzione di un comma 1-bis che esclude dal "conto" dell'imposta evasa quei valori frutto:


1. di non corretta classificazione;


2. di valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati siano stati comunque indicati in bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali;


3. nonchè, ex comma 1-ter, delle valutazioni che singolarmente considerate differissero in misura inferiore al 10% da quelle corrette;


4. della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali.


Allo stesso tempo, in ragione di tale modifica, è stata disposta l'abrogazione del citato D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 7 che prevedeva ipotesi di non punibilità dei fatti riconducibili allo schema dell'art. 4, ma con delle limitazioni che il D.Lgs. n. 158 del 2015 aveva superato.


Infatti, dal confronto dei richiamati commi 1-bis ed 1-ter del novellato art. 4 con l'abrogato art. 7 risulta evidente, secondo il ricorrente, come fosse ormai del tutto priva di limiti l'irrilevanza riconosciuta alla violazione del canone di competenza (non più condizionata al ricorso ai "metodi costanti di impostazione contabile") e, quanto alla correttezza delle valutazioni, come risultasse eliminata l'aggettivazione limitativa che ne indicava la natura come "estimative", venendo altresì ampliato il meccanismo tramite il quale assicurare la trasparenza.


In buona sostanza, dal complesso delle suddette novità normative, emergerebbe, come osservato nella Relazione al D.Lgs. n. 158 del 2015 che "il legislatore ha voluto mantenere una visione di favore in relazione a valori corrispondenti a non corrette valutazioni (secondo i parametri tributari) di elementi attivi e passivi, purchè oggettivamente esistenti e nella misura in cui esse esistano in rerum natura".


Avuto poi riguardo alla sopravvenuta irrilevanza penale della violazione dei criteri dell'esercizio di competenza, il ricorrente, richiamando le opinioni in proposito espresse in dottrina, ha evidenziato come nell'indagine sulla continuità normativa rispetto a pregresse incriminazioni si dovesse tener conto che la stessa non è più subordinata al collegamento con metodi costanti di impostazione contabile, come invece previsto dall'abrogato art. 7, ma è generalizzata, con la conseguenza che la trasgressione ai precetti dell'art. 109 T.U.I.R. (ivi incluso quello riferito alla indeducibilità di cui al suo comma 4) non avrebbe più rilievo penale purchè risulti la reale esistenza delle componenti negative.


Lo stesso discorso varrebbe per la non inerenza (art. 109, comma 5, T.U.I.R.) che può indurre la rilevanza ai fini dell'art. 4 di costi reali, non inerenti pur se commessi con fatti di reato realizzati dal contribuente.


In conclusione, ad avviso del ricorrente, si sarebbe giunti ad una "liceizzazione" agli effetti penali di tutti quei comportamenti fiscali concernenti la classificazione, la competenza, l'inerenza e la deducibilità, con quanto consegue in termini di abolitio crimínis delle relative condotte.


2.2. Aggiunge poi il ricorrente come il giudice dell'esecuzione avesse fornito una diversa e non consentita lettura del giudicato, non essendo revocabile in dubbio che se la condotta ascritta al condannato fosse stata quella del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3 la vicenda avrebbe senz'altro assunto, in conformità all'approdo cui è giunta l'ordinanza impugnata, tratti completamente diversi anche sotto il profilo della richiesta abolitio criminis.


La questione però è che il ricorrente era stato condannato per il delitto di dichiarazione infedele (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4) ed al giudice dell'esecuzione non era certamente permesso di rivedere l'imputazione, tanto meno il titolo di condanna.


Richiamando la giurisprudenza di legittimità, il ricorrente infine obietta che al giudice dell'esecuzione, nel caso di abrogazione parziale di una norma incriminatrice, non è consentita la completa rivisitazione del giudizio di merito o anche l'esecuzione di accertamenti ulteriori, al fine di stabilire se il fatto per il quale era stata pronunciata condanna costituisca o meno reato, ma deve limitarsi ad interpretare il giudicato e, quindi, ad accertare se nella contestazione fatta all'imputato risultano anche tutti gli elementi costituenti la nuova categoria dell'illecito. Un diverso procedere comporterebbe un non vietato riesame del giudizio di merito, non essendo consentito al giudice dell'esecuzione di modificare l'originaria imputazione o di accertare il fatto-reato, difformemente da quanto ritenuto dalla sentenza passata in giudicato.


3. Il Procuratore generale, concludendo per il rigetto del ricorso, ha osservato che:


- la "ratio" dell'abrogato art. 7 era riconducibile alla volontà del legislatore di sottrarre a punizione violazioni dovute ad "incertezze" nell'applicazione della complessa normativa tributaria, tant'è che, se con l'introduzione dell'art. 4, comma 1-bis si è perseguito l'obiettivo di ulteriore "alleggerimento" del "rischio penale" conseguente a valutazioni giuridico-tributarie non corrette, la ragion d'essere dell'incriminazione è rimasta la stessa;


- che quindi si è mantenuta, ampliandola, una visione di favore quanto alle "valutazioni" non corrette rispetto a parametri tributari connotati da "ampi margini di opinabilità e di incertezza"; per converso è rimasta una posizione opposta nei confronti delle indicazioni non riconducibili a "difficoltà" nella comprensione/applicazione della normativa tributaria bensì a "comportamenti artificiosi, fraudolenti e simulatori" (posizione di cui è conferma il fatto che il comma 1-bis in questione non riguarda la dichiarazione fraudolenta);


- che dunque vi è "continuità normativa" nella volontà di perseguire penalmente le condotte riferibili ai comportamenti appena indicati;


- che allora necessariamente il giudice dell'esecuzione - investito della questione relativa alla eventualmente sopravvenuta abolitio criminis della dichiarazione infedele di elementi attivi per violazione tout court dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza - si è posto il problema di verificare le caratteristiche della violazione medesima, come risultanti dalle sentenze;


- che del resto è stato affermato come, in sede di verifica di cui all'art. 673 c.p.p. la delibazione del giudice dell'esecuzione debba riguardare l'accertamento specifico compiuto dal giudice di merito come espresso nella sua sentenza;


- che le considerazioni del giudice dell'esecuzione fanno evidente e coerente riferimento al fatto che il tribunale, traendo le conclusioni rispetto a quanto precedentemente "ricapitolato" a pag. 50 della sentenza, a pag. 51 scrive "è certo, poi, che la condotta posta in essere dall'imputato fosse finalizzata all'evasione delle imposte sui redditi, atteso che non si spiegherebbe altrimenti per quale motivo si siano ingiustificatamente imputati all'anno 2003 ricavi certamente riconducibili all'esercizio 2004";


- che in definitiva la decisione impugnata è coerente con il fatto che la violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza ha fatto seguito a "documenti creati ad arte" ed ha comportato la imputazione al 2003, ultimo anno dell'esenzione decennale Irpeg.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle seguenti considerazioni.


2. Nell'ordine logico, la prima questione da risolvere, per la delibazione del caso in esame, attiene ai poteri che il sistema processuale penale attribuisce al giudice dell'esecuzione nell'interpretazione del giudicato.


In questa particolare prospettiva, siccome le garanzie stabilite per il condannato non possono assestarsi su soglie più basse rispetto a quelle che il codice di rito prevede per l'imputato, al giudice dell'esecuzione è precluso fare riferimento, nell'interpretazione del giudicato, a fatti e circostanze non oggetto di accertamento in contraddittorio, sicchè egli, ai fini dell'applicazione del principio sancito dall'art. 2 c.p., comma 2, deve rigorosamente limitarsi ad accertare il contenuto e la portata della sentenza di condanna.


Ne consegue che il giudice dell'esecuzione, richiesto della revoca della sentenza di condanna per asserita abrogazione della norma penale incriminatrice in seguito ad una successione di leggi modificative del precetto, deve innanzitutto confrontare la struttura della vecchia incriminazione rispetto alla nuova, poi deve valutare il fatto contestato e riconosciuto in sentenza ed infine deve raffrontarlo con gli elementi nuovi e specializzanti della legge successiva, senza poter rivisitare il giudizio di merito o disporre ulteriori accertamenti (Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585).


Sul punto, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il giudice dell'esecuzione - al quale sia chiesta, a seguito di modificazioni normative, la revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis - ha il compito di accertare la sussistenza, con riferimento al "tempus commissi delicti", degli elementi costitutivi della sopravvenuta tipologia di reato (Sez. 1, n. 17285 del 16/04/2008, Briatore, Rv. 239629) cosicchè egli, con riferimento all'ipotesi di abrogazione di una norma incriminatrice, deve limitarsi ad interpretare il giudicato e quindi ad accertare se nella contestazione risultino gli elementi costituenti la nuova categoria dell'illecito, in quanto la verifica demandatagli si risolve nel confronto del fatto contestato nell'imputazione e accertato nella sentenza con gli elementi specializzanti introdotti dalla nuova normativa (Sez. 1, n. 13404 del 17/02/2005, Spadola, Rv. 231260).


I predetti orientamenti non sono in contrasto con l'indirizzo secondo il quale il giudice dell'esecuzione - fermo restando che non può ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, nè valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione - deve accertare se il reato per il quale è stata pronunciata condanna sia considerato ancora tale dalla legge e, a tal fine, può compiere una sostanziale ricognizione del quadro probatorio già acquisito e utilizzare elementi i quali, irrilevanti al momento della sentenza, siano divenuti determinanti, alla luce del diritto sopravvenuto, per la decisione sull'imputazione contestata (Sez. 3, n. 5248 del 25/10/2016, dep. 2017, Managò, Rv. 269011), perchè in siffatto ambito, pur sempre di tipo meramente ricognitivo, al giudice dell'esecuzione non è consentito modificare l'originaria qualificazione o accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto in sentenza, riqualificandolo (Sez. U, n. 29023 del 27/06/2001, Avitabile, Rv. 219223), atteso che al predetto giudice l'art. 673 c.p.p. non riconosce quel potere di rivalutazione che, del tutto eccezionalmente, gli è attribuito dall'art. 671 c.p.p., solo ai fini dell'applicazione del concorso formale e della continuazione di reati (Sez. 1, n. 550 del 27/10/2004, dep. 2005, De Vita, Rv. 230812).


Nondimeno occorre subito chiarire che esula dall'ipotesi della vietata riqualificazione il caso in cui il giudice dell'esecuzione, fermi gli accertamenti e gli esiti del giudicato, sussuma il fatto nel diritto sopravvenuto, che consideri quello stesso fatto come reato ridisegnandone il perimetro mediante l'assorbimento di condotte che, tipizzate secondo il diritto anteriore in una diversa norma penale, siano ricomprese nel precetto di una nuova fattispecie incriminatrice rimodellata dal diritto posteriore.


In tal caso, il confronto delle fattispecie, secondo i principi che saranno di seguito enunciati (v. infra 3 del considerato in diritto), depone nel senso della continuità del tipo di illecito (con conseguente applicazione della regula iuris di cui all'art. 2 c.p., comma 4) quando il fatto di reato, tal quale, per cui la condanna è intervenuta, sia sussumibile in una nuova fattispecie criminosa che, tal quale, lo contempli, restando invece precluso al giudice dell'esecuzione di qualificare diversamente in iure il fatto, per il quale è stata riportata la condanna, sussumendolo in una diversa fattispecie incriminatrice già esistente all'epoca del commesso reato ma estranea ratione temporis al giudicato di condanna.


Ciò precisato, la doglianza sollevata dal ricorrente appare dotata di fondamento in quanto, salvo quanto sarà più chiaro in seguito, il giudice dell'esecuzione non poteva spingersi a considerare, al fine di ritenerli rilevanti, comportamenti fraudolenti non richiesti per l'astratta integrazione tanto della fattispecie incriminatrice ratione temporis vigente e coperta dal giudicato di condanna (la quale esigeva peraltro la fittizietà, non anche la fraudolenza, e limitatamente agli elementi passivi), quanto per l'integrazione della fattispecie sopravvenuta (che, per gli elementi passivi, non più richiede la fittizietà ma esclusivamente l'inesistenza), laddove la contestazione addebitava al ricorrente l'infedele indicazione nella dichiarazione dei redditi di soli elementi attivi, essendosi in tal senso formata la correlazione tra l'accusa e la sentenza.


3. La seconda questione da risolvere attiene ai criteri in base ai quali stabilire, nel caso di successioni di leggi penali nel tempo che incidano sull'ambito di operatività di una determinata fattispecie incriminatrice, se il fenomeno successorio si risolva in una parziale abolitio criminis, governata dal principio declinato dall'art. 2 c.p., comma 2 con conseguente frantumazione del giudicato di condanna, o piuttosto comporti una piena continuità normativa, disciplinata dal comma 4 del medesimo articolo preclusiva di qualsiasi contaminazione delle sentenze irrevocabili di condanna.


Sul punto, le Sezioni Unite Giordano, in sostanziale continuità con le Sezioni Unite Donatelli (Sez. U, n. 33539 del 09/05/2001, in motiv., che pure ha fatto leva sulla comparazione e raffronto tra gli elementi strutturali del contenuto normativo delle fattispecie incriminatrici) hanno fornito lo strumento per l'impostazione del corretto orientamento ermeneutico in siffatta delicata materia, oggetto di un vivace e non ancora sopito dibattito dottrinale e giurisprudenziale, affermando che, in tema di successione di leggi penali, perchè sia applicabile la regola dell'art. 2 c.p., comma 4, occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge, mentre non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie. Tale situazione va verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario, di regola, fare ricorso ai criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità di offesa. L'art. 2 c.p., infatti, pone, nei commi che lo costituiscono, una sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perchè operi la regola del comma 4 deve essere esclusa l'applicabilità del comma 1 e del comma 2.


Ne consegue che un fatto è punibile se, astrattamente considerato e sulla base dei criteri enunciati, rientra nell'ambito normativo di disposizioni che si sono succedute nel tempo e, quando ciò accade e nei limiti in cui accade, non opera l'effetto abolitivo della disposizione successiva (Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224607).


Escluso pertanto il ricorso alla teoria del fatto concreto, secondo la quale vi sarebbe successione modificatrice quando l'episodio della vita sia riconducibile a due fattispecie che, quantunque costituite da elementi eterogenei tra loro, si susseguono cronologicamente e facendo applicazione del precedente principio di diritto declinato dalla sentenza Giordano, si ricava che - quando dal confronto strutturale delle fattispecie, eventualmente ma non necessariamente integrato da elementi valutativi, i fatti commessi sotto il vigore della precedente legge rientrano nella previsione della disciplina sopravvenuta - detti fatti rimangono punibili, a norma dell'art. 2 c.p., comma 4, mentre gli altri (ossia, quelli che, a seguito dell'applicazione del medesimo criterio e commessi sotto il vigore della precedente legge, non rientrano nella previsione della nuova) non costituiscono più reato, per un effetto abolitivo delle nuove disposizioni che a norma dell'art. 2 c.p., comma 2, travolge anche il giudicato di condanna.


Pertanto, ai fini dell'integrazione del fenomeno abrogativo, è necessario e sufficiente che la nuova legge, incidendo sul perimetro del fatto tipico, abbia determinato una successione normativa con effetto anche solo parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti, commessi prima dell'entrata in vigore delle modifiche legislative, che non sono più minimamente riconducibili alla nuova fattispecie criminosa, come astrattamente ridisegnata dallo ius superveniens.


In applicazione di tali regole, enunciate nei limiti richiesti dalla questione esaminata, il giudice dell'esecuzione, per stabilire la portata del fenomeno successorio, avrebbe dovuto porre a confronto la vecchia e la nuova fattispecie incriminatrice e non limitarsi, come è accaduto, a valutare il fatto concreto, pervenendo alla non condivisibile conclusione circa l'ipotizzabilità di una continuità normativa tra la fattispecie ratione temporis vigente e quella sopravvenuta.


4. Cosicchè la terza ed ultima questione deve essere riservata al confronto tra le fattispecie incriminatrici per verificare se la nuova incriminazione, incidendo o meno sul fatto tipico, abbia eventualmente ritagliato una porzione di fatto eliminandone la rilevanza penale, in termini di tipicità della condotta astrattamente punibile, o se abbia invece modificato aspetti accidentali dell'incriminazione, restando il fatto tipico all'interno del perimetro disegnato tanto dalla vecchia quanto dalla nuova fattispecie incriminatrice.


4.1. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, nella formulazione previgente alla recente revisione del sistema sanzionatorio penale tributario di cui al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione della L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 8, comma 1), prevedeva il reato tributario di dichiarazione infedele per la cui integrazione non era richiesta la sussistenza di una dichiarazione fraudolenta ma soltanto la presentazione di una dichiarazione infedele e, pertanto, la mera indicazione, anche senza l'uso di mezzi fraudolenti, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ed elementi passivi fittizi, il tutto nel ricorso delle altre condizioni ivi previste in relazione all'ammontare dell'imposta evasa e degli elementi attivi sottratti alla imposizione e, quindi, quando fossero superate le relative soglie di punibilità (Sez. 5, n. 36894 del 23/05/2013, Della Gatta, Rv. 257190).


In questo quadro, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 7 disponeva, tra l'altro, come non dessero luogo a fatti punibili a norma degli artt. 3 e 4 dello stesso Decreto le rilevazioni nelle scritture contabili e del bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza ma sulla base dei metodi costanti di impostazione contabile, con la conseguenza che per l'esclusione della punibilità era necessario che dette rilevazioni, pur eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, rispondessero a "metodi costanti di impostazione contabile" e semprechè tale corrispondenza emergesse con chiarezza dalla lettura dei bilanci e delle scritture nella loro interezza e non sulla base di semplici rilievi a campione (Sez. 3, n. 36910 del 27/03/2013, Giannotte, Rv. 256509).


Il reato di infedele dichiarazione era stato peraltro ritenuto configurabile anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all'amministrazione finanziaria, avesse comportato una dichiarazione infedele per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare (Sez. 3, n. 26723 del 18/03/2011, Ledda, Rv. 250958).


4.2. Il precedente quadro normativo, sinteticamente delineato, è stato modificato con la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, essendo stata espressamente esclusa, in primo luogo, la rilevanza penale dell'elusione fiscale e dell'abuso del diritto, il quale resta sanzionato soltanto in sede amministrativa; con il D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 (disposizioni sulla certezza del diritto dei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione della L. 11 marzo 2014, n. 23, artt. 5 e 6 e art. 8, comma 2), infatti, è stato abrogato il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis ed è stato introdotta la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis rubricato "disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale" il cui comma 13 dispone che "le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma la applicazione delle sanzioni amministrative tributarie".


A tal proposito, questa Sezione ha già affermato che non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis, comma 13, introdotto dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1, esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti (Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015, Mocali, Rv. 264949).


E' stato poi abrogato, dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 14, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 7 aggiungendosi al cit. Decreto, art. 4, comma 1-bis (secondo il quale "ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi e passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante a fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali") e comma 1-ter (secondo cui "fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscano in misura inferiore al 10% da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto della verifica del superamento delle soglie di punibilità prevista dal comma 1, lett. a) e b)".


Infine, nel precetto del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 il termine "fittizi" è stato sostituito con la parola "inesistenti" (D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 4, anche nella parte in cui ha introdotto il predetto comma 1-bis).


In dottrina è stato opportunamente osservato, in linea con quanto esposto nella Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 158 del 2015, come le significative modifiche appena citate costituiscono oggetto di una scelta legislativa volta a ridisegnare il sistema sanzionatorio tributario in termini di minore rigore e di maggiori certezze per il contribuente, circoscrivendo l'area di intervento penale ai soli fatti connotati da un particolare disvalore in maniera da scongiurare la creazione di "aree di rischio penale" per il contribuente correlate ad aspetti valutativi e comunque non connotati da frode anche al fine di evitare che una tale area di rischio si possa tradurre in un disincentivo ad investimenti imprenditoriali in Italia.


Ne deriva come sia stata ridisegnata la fattispecie tipica del delitto ex D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, giacchè la condotta punibile, risolvendosi in falsità ideologiche prive di qualsiasi connotato fraudolento, si materializza: (1) nell'annotazione di componenti positivi del reddito per ammontare inferiore a quello reale (in sostanza, l'omessa annotazione di ricavi), (2) nell'indebita riduzione dell'imponibile tramite l'indicazione nella dichiarazione di costi inesistenti (e non più fittizi), ossia di componenti negativi del reddito mai venuti ad esistenza in rerum natura e (3) nelle sottofatturazioni, ovvero all'indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale, in maniera da consentire all'emittente il conseguimento di ricavi non dichiarati, atteso che il delitto di infedele dichiarazione aveva ed ha natura residuale rispetto ai delitti di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 3 (Sez. 3, n. 28226 del 09/02/2016, Disparra, Rv. 267409) ed ora l'art. 3, comma 3 (reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) chiarisce che "ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali". In tal modo, il legislatore ha escluso la natura fraudolenta delle sottofatturazioni, ricomprese nel raggio della condotta punibile di cui al delitto ex art. 4.


Di particolare rilievo, per quanto qui interessa, è il testuale riconoscimento dell'estraneità dal fatto tipico ("... non si tiene conto...") delle violazioni dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, ora non più subordinate, come invece disponeva l'abrogato D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 7, alla loro derivazione da metodi costanti di impostazione contabile, con un intervento novellistico che ha inciso direttamente sulla struttura del reato polverizzando la precedente causa di non punibilità tipizzata nel D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 7, ora abrogato, e non riproducendone, come invece ha ritenuto il giudice dell'esecuzione, un'altra sia pure diversamente modellata.


Invero, dalla tipicità del fatto di reato, è eccettuata ("... non si tiene conto), essendone stata ritagliata una porzione, la divergenza tra gli importi indicati in dichiarazione e quelli effettivamente percepiti (elementi attivi per un importo inferiore a quello effettivo), quando la discrasia sia frutto della violazione della regola cronologica relativa all'esercizio di competenza o della non inerenza ma l'elemento attivo, seppur impropriamente collocato nel tempo, sia reale e ontologicamente esistente, ossia riconoscibile in rerum natura, il che vale, come anticipato, per gli elementi attivi perchè, quanto a quelli passivi, è sufficiente la loro esistenza per escludere la tipicità.


Il fatto tipico, precisato nel modello legale del reato di infedele dichiarazione dei redditi (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4), deve perciò ritenersi integrato dalla presenza di elementi positivi della condotta punibile, ossia dalla indicazione nella dichiarazione di ricavi per un ammontare inferiore a quello effettivo, anche con il ricorso alla tecnica della sottofatturazione, o dalla indicazione di costi inesistenti (non più fittizi), con conseguente superamento della soglia di punibilità, e (in aggiunta) dalla contemporanea mancanza di elementi negativi della condotta delittuosa, in quanto rientranti anche essi (sia pure in negativo) nella dimensione della tipicità (nel senso cioè che i ricavi omessi non devono essere stati anticipati o posticipati rispetto all'esercizio di competenza, risolvendosi in ciò, anche alla stregua di elementi negativi del fatto di reato, l'intera condotta punibile).


Va, a questo proposito, ricordato che il reato di dichiarazione infedele è punito meno gravemente dei reati ex D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 3 per la mancanza di mezzi fraudolenti di supporto alla condotta, che è pertanto stimata come meno insidiosa, per l'assenza di azioni fraudolente idonee a mettere in pericolo l'accertamento. Si tratta perciò di una condotta di tipo commissivo che, come detto, si risolve in un falso ideologico consumato nella sola dichiarazione, priva di quei connotati di particolari insidiosità che caratterizzano la fattispecie di reato della dichiarazione fraudolenta.


La conseguenza di tutto ciò è che, abrogato il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 7 ed introdotto l'art. 4, comma 1-bis del cit. decreto, il fatto tipico non è integrato se, al cospetto di tutti gli altri elementi (dolo specifico di evasione e superamento delle soglie di punibilità), la condotta sia stata realizzata in violazione dei criteri di competenza, inerenza ed indeducibilità, tali da escludere, ormai per presunzione legislativa, ogni capacità decettiva della condotta dell'agente, ritenendosi l'erario in grado, nelle ipotesi indicate nell'art. 4, comma 1 bis, di recuperare l'imposta, applicando le sole sanzioni amministrative, cosicchè la immutatio veri perde di significato ai fini del disvalore penale del fatto e, quindi, ai fini della lesività della condotta.


La precedente considerazione supera, ad avviso del Collegio, il pertinente rilievo pure espresso dal Procuratore generale, secondo il quale vi sarebbe continuità di tipo di illecito rispetto a condotte non riconducibili a "difficoltà" nella comprensione o nell'applicazione della normativa tributaria ed invece connotate da "comportamenti artificiosi, fraudolenti e simulatori".


L'osservazione è senza dubbio condivisibile ma non si atteggia a regolare il caso in esame, tanto che neppure il giudice dell'esecuzione, pur affermando che il giudicato di condanna avrebbe riguardato una condotta prossima ad una vera e propria dichiarazione fraudolenta, si è spinto a ritenere la continuità del tipo di illecito con la nuova fattispecie incriminatrice tipizzata nel D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, avendo invece optato per la continuità normativa, del tutto invece insussistente limitatamente alle ipotesi considerate dal richiamato comma 1-bis, tra la previgente formulazione dell'art. 4 stesso Decreto e quella attuale.


Nè il predetto art. 4, comma 1 bis può, ad avviso del Collegio, essere esposto ad interpretazioni in malam partem, ovviamente vietate in ambito penale, essendo chiara la volontà del legislatore di decriminalizzare le condotte che, risolvendosi in infedeltà dichiarative, siano state realizzate in violazione dei criteri di competenza, non inerenza e non deducibilità, secondo i casi, di elementi attivi (esistenti in rerum natura) o passivi.


Per il resto, occorre precisare che le modifiche normative in precedenza indicate si prestano ad essere considerate neutre ossia prive di incidenza sulla continuità normativa, che senz'altro perdura, tra la vecchia e la nuova disposizione, essendosi determinata una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo e, a quest'ultimo riguardo, limitatamente, come si è detto, ai fatti, commessi prima dell'entrata in vigore della L. 24 settembre 2015, n. 158, che non rientrano nel modello legale di reato tipizzato dalla nuova fattispecie criminosa.


Con questa precisazione, resta pertanto valido l'indirizzo già espresso dalla Corte secondo il quale, in materia di reati tributari, il reato di dichiarazione infedele, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, come delineato a seguito delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 4, comma 1, lett. a), si pone in continuità normativa con la fattispecie previgente ed è più favorevole all'imputato quando vengano in considerazione le soglie di punibilità, avendone la nuova disciplina innalzato l'ammontare (Sez. 3, n. 40317 del 26/04/2016, Merlo, Rv. 267789).


5. Sulla base dei principi in precedenza enunciati, è dunque possibile stimare la fondatezza del motivo di ricorso.


In primo luogo, gli elementi di "fraudolenza", valorizzati nell'ordinanza impugnata, non hanno trovato riscontro nelle sentenze di merito che si sono pienamente attenute alla contestazione dell'addebito, con la conseguenza che tutta la vicenda fattuale è stata sussunta nell'ambito della infedeltà dichiarativa senza trasmodare nella fraudolenza, invero non contestata e neppure diversamente ritenuta in iure nella sentenza e persino nell'ordinanza impugnata.


In secondo luogo, la res iudicata, come si desume anche dal testo del provvedimento impugnato, ha riguardato una condotta realizzata in violazione del principio di non corretta imputazione dei ricavi all'esercizio di competenza sulla base di contabilizzazioni cronologicamente anticipate a fini meramente elusivi e, quindi, il giudicato di condanna si è formato in ordine alla indicazione di ricavi conseguiti in un diverso anno di competenza fiscale e dichiarati non nell'anno nel quale i componenti positivi del reddito si erano materializzati ma in relazione ad un periodo fiscale diverso, con la conseguenza che la condanna è stata pronunciata sul presupposto che ciò non rispondesse a "metodi costanti di impostazione contabile", condizione non più richiesta dalla fattispecie penale incriminatrice.


Si è trattato quindi di un giudicato di condanna per un fatto che, senza bisogno di alcun accertamento al riguardo, la legge successiva non prevede più come reato, cosicchè detto giudicato rimane travolto, ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 2, dall'abolitio criminis.


6. L'ordinanza impugnata va pertanto annullata senza rinvio, conseguendo da ciò la revoca della sentenza emessa in data 28 settembre 2010 dal tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, confermata dalla Corte di appello di Lecce il 15 novembre 2011, irrevocabile il 27 marzo 2013, nei confronti di G.A., perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.


P.Q.M.

Annulla, senza rinvio, la ordinanza impugnata e revoca la sentenza emessa in data 28-09-2010 dal Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, confermata dalla Corte di appello di Lecce il 15-11-2011, irrevocabile il 27-032013, nei confronti di G.A., perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.


Dispone che ne venga data comunicazione al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi.


Così deciso in Roma, il 22 marzo 2017.


Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2017

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