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Diffamazione: accusa un magistrato di parzialità senza prove, non sussiste il diritto di critica


Corte di Cassazione

La massima

In tema di diffamazione, non è configurabile la scriminante del diritto di critica giudiziaria quando si tacci un magistrato di parzialità per ragioni politiche senza che vi sia prova della verità storica del fatto, per la intrinseca offensività della affermazione, che involge gli imprescindibili caratteri di indipendenza ed autonomia nell'esercizio della funzione giudiziaria, risolvendosi in una critica alla persona, piuttosto che alle capacità professionali del magistrato (Cassazione penale sez. V - 25/10/2021, n. 45249).

Fonte: CED Cass. pen. 2022



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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V - 25/10/2021, n. 45249

RITENUTO IN FATTO

1. E' impugnata la sentenza del Tribunale di Perugia, in funzione di giudice d'appello, con la quale è stata confermata la condanna di L.E., emessa dal Giudice di Pace di Perugia, in data 11.3.2016, per il delitto di diffamazione ai danni di A.S., all'epoca magistrato in servizio presso l'ufficio GIP/GUP del Tribunale di Roma, e si è ridotta la quantificazione delle statuizioni civili attinenti al risarcimento del danno, rideterminandole in 5.000 Euro.


L., avvocato penalista, è stato condannato per diffamazione alla pena di 2.000 Euro di multa, per aver reagito al provvedimento di rigetto dell'istanza di ammissione al gratuito patrocinio, da lui proposta quale difensore di fiducia di M.M., imputato in un procedimento penale pendente presso l'ufficio romano - rigetto deciso dal Dott. A. - indirizzando una missiva allo stesso giudice, al proprio assistito ed al Presidente del Tribunale di Roma con cui ha definito "illegali ed oltraggiose le pseudo motivazioni" addotte a sostegno del provvedimento di rigetto, in quanto mosse da "malcelato disprezzo verso un cittadino" e tali da far "fondatamente ritenere che il suo illegittimo ed abnorme diniego sia riconducibile ad ostilità politica nei confronti del malcapitato signor M." (coinvolto in reati di incitamento all'odio razziale, n.d.r.). Il giudice d'appello ha ritenuto che la segnalazione del Dott. A. come autore di atti viziati da parzialità, in quanto orientati da manifesto disprezzo nei confronti di una parte processuale e da risentimento politico, si traduca nella negazione del riconoscimento degli attributi fondamentali del giudice, quali la serenità, l'indipendenza e l'imparzialità del giudizio, con evidenti conseguenze diffamatorie.


2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso L.E., tramite il difensore, deducendo tre motivi di censura.


2.1. Il primo argomento difensivo eccepisce violazione di legge per intervenuta prescrizione del reato nel corso del processo d'appello e prima della sentenza con cui tale giudizio si è chiuso, trattandosi di reato di competenza del giudice di pace punito in concreto con una sanzione non detentiva.


2.2. In secondo luogo il ricorrente si duole della configurabilità del reato di diffamazione, poiché, a suo dire, mancherebbe il requisito della plurima comunicazione dello scritto diffamatorio a più persone (almeno due) oltre al diffamato, che la sentenza impugnata ha inteso ritrovare nel patrimonio conoscitivo dei due destinatari diversi da quest'ultimo, senza avere certezza della effettiva presa di cognizione da parte loro. Il ricorso adombra, altresì, che il giudice d'appello abbia adottato un'interpretazione siffatta per"compiacere" un collega "in cerca di facili quattrini".


3. Il terzo motivo di ricorso eccepisce violazione di legge in relazione alla ritenuta inconfigurabilità della esimente di cui all'art. 598 c.p. ovvero di quella del diritto di critica prevista dall'art. 51 cpv. c.p..


In particolare, la prima norma invocata scriminerebbe persino espressioni "oltraggiose", in ossequio alla più ampia forma di manifestazione della libertà di pensiero nell'ambito della redazione degli atti giudiziari; l'unico limite all'operatività dell'esimente, rispettato nel caso di specie, è quello della pertinenza delle espressioni che si assumono diffamatorie alla contesa processuale.


Il ricorrente rappresenta, altresì, che il rigetto dell'istanza di ammissione al gratuito patrocinio era stato erroneamente deciso dal Dott. A., il quale non si era avveduto della sufficienza delle condizioni di autentica della firma del proprio assistito istante; del tutto giustificate, dunque, erano le critiche, anche aspre, al suo operato, sviluppate nella missiva ritenuta diffamatoria.


4. Il PG Dr. Filippi Paola ha chiesto l'inammissibilità del ricorso alla luce del fatto che non è decorso neppure il tempo di prescrizione.


4.1. Il ricorrente ha fatto pervenire conclusioni scritte con le quali ribadisce le ragioni del proprio ricorso.


4.2. La parte civile, A.S., tramite il difensore, ha fatto depositato conclusioni scritte per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso e nota spese per un ammontare di 3420 Euro oltre IVA e CPA.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.


2. Il primo motivo è manifestamente infondato.


Il reato di diffamazione è un delitto punito con pena alternativa della reclusione ovvero della multa e, quindi, secondo il chiaro disposto dell'art. 157 c.p., conta un tempo di prescrizione non inferiore a sei anni dal momento della commissione del fatto, che diventano sette anni e sei mesi, computato il termine massimo previsto ai sensi del successivo art. 161.


Detto termine di prescrizione massimo, nel caso di specie, calcolati anche i 64 giorni di sospensione previsti dalla disciplina emergenziale da COVID-19 (D.L. n. 11 del 2020, conv. in L. 24 aprile 2020, n. 27), ai sensi della quale è stato disposto rinvio il 9.3.2020 (per l'udienza del 10.7.2020), rimane fissato al 29.11.2021; e la sospensione dei termini di prescrizione nelle fasi del procedimento o del processo diverse dal giudizio di cassazione non è necessariamente legata alla sopravvenuta impossibilità di celebrare un'udienza, posto che il D.L. n. 11 del 2020, art. 83, comma 2, conv. in L. n. 27 del 2020 sospende, senza distinzione, "tutti i termini procedurali", purché, come detto, gli stessi decorrano nell'intervallo temporale considerato da tale disposizione e siano tali nel senso indicato dall'art. 172 c.p.p., comma 1 (Sez. U, n. 5292 del 26/11/2020, Sanna, Rv. 280432).


3. Il secondo motivo di censura proposto dal ricorrente è anch'esso manifestamente infondato.


Viene in gioco, nella prospettiva difensiva, la configurabilità del reato di diffamazione, in rapporto all'elemento normativo della comunicazione dello scritto diffamatorio a più persone, nonché alla necessità che vi sia prova dell'effettiva cognizione di tale scritto da parte di questi ultimi.


Ebbene, è opinione dominante in giurisprudenza che, avuto riguardo a talune categorie di destinatari, l'invio di una missiva denigratoria renda di per sé esistente il requisito della comunicazione con più persone, poiché la destinazione alla divulgazione può trovare il suo fondamento oltre che nella esplicita volontà del mittente-autore, anche nella natura stessa della comunicazione, in quanto propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare), che deve essere portato a conoscenza di altre persone, diverse dall'immediato destinatario, ferma la necessaria prevedibilità ovvero la volontarietà, da parte dell'autore, della circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi (Sez. 5, n. 26560 del 29/9/2014, Cadoria, Rv. 260229; Sez. 5, n. 23222 del 6/4/2011, Saccucci, Rv. 250458).


Tali condizioni si verificano, ad esempio, in caso di invio ad ordini professionali, in persona di loro rappresentanti istituzionali, ovvero a dirigenti della pubblica amministrazione, di missive dal contenuto atto a sollecitare un intervento disciplinare, oppure costituenti vera e propria denuncia, oppure in caso di comunicazioni o denunce dirette ad organi giudiziari (Procuratore della Repubblica, Presidente del Tribunale o altro): cfr., per alcune fattispecie, tra le altre, Sez. 5, n. 34831 del 23/10/2020, Di Vita, Rv. 280034; Sez. 5, n. 30727 del 8/3/2019, De Feo, Rv. 276525; Sez. 1, n. 27624 del 30/5/2007, Colantoni, Rv. 237086.


Il nucleo comune di tali decisioni si ritrova nella constatazione dell'inevitabile conoscibilità di comunicazioni indirizzate a destinatari titolari di qualifiche peculiari, private o pubbliche che siano, anche da parte di altre persone, oltre al destinatario (dagli addetti all'apertura ed allo smistamento della corrispondenza agli ulteriori, necessari ricettori della notizia-denuncia dal contenuto diffamatorio, quali i titolari di iniziative amministrative o disciplinari riguardo ai fatti denunciati).


In ipotesi siffatte, ferma la necessità di valutare caso per caso la possibile sussistenza della causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p. o della causa di non punibilità ex art. 598 c.p., la diffusività del messaggio denigratorio ed offensivo contenuto nello scritto è insita nella qualifica del destinatario di essa e nelle sue funzioni (al netto dell'ipotesi di comunicazioni inviate solo in via confidenziale, sulla quale cfr. Sez. 5, n. 40137 del 24/4/2015, G., Rv. 265788).


In quest'ottica, può configurare il reato di diffamazione anche la comunicazione con una sola persona, se attuata con modalità tali che detta notizia venga sicuramente a conoscenza di altri; il che si verifica qualora l'espressione offensiva sia contenuta in un documento che, per sua natura, sia destinato ad essere visionato da più persone (Sez. 5, n. 522 del 26/5/2016, dep. 2017, S., Rv. 269016, in una fattispecie relativa a frasi offensive inserite in un vaglia postale; diversamente è opinabile in caso manchi la prevedibilità della diffusione, come nella fattispecie di Sez. 5, n. 34178 del 10/2/2015, Corda, Rv. 264982).


In una simile cornice ermeneutica, la missiva denigratoria inviata dall'imputato al suo assistito, al Presidente del Tribunale di Roma ed allo stesso giudice di quel Tribunale, persona offesa dal reato, mescola i contenuti del reclamo avverso il rigetto (definito "illegale") della domanda di ammissione al gratuito patrocinio proposta dal ricorrente come difensore di un indagato, ed i caratteri di una lettera di denuncia-sfogo, aggressiva della reputazione del magistrato-autore del provvedimento ritenuto errato, accusato di "ostilità politica", sicché risulta senz'altro idonea a costituire la premessa di un possibile procedimento disciplinare, esplicitamente auspicato dal ricorrente, poiché infarcita di allusioni alla disonestà intellettuale di quest'ultimo.


Del tutto apodittico, poi, l'argomento della mancata dimostrazione, in atti, della circostanza che la lettera diffamatoria sia stata effettivamente conosciuta dai suoi destinatari, poiché risulta dalla sentenza impugnata come lo stesso ricorrente abbia dedotto, nell'atto di appello, che l'ulteriore istanza di ammissione al gratuito patrocinio, proprio in conseguenza dell'invio della missiva diffamatoria, era stata assegnata ad un GIP diverso dalla persona offesa; inoltre, ancora il provvedimento impugnato sottolinea come, a seguito della ricezione dell'esposto, il Presidente del Tribunale di Roma abbia sollecitato il Dott. A. a redigere e trasmettere una relazione di chiarimenti al riguardo. Vi è certezza, dunque, che il dirigente dell'ufficio giudiziario romano abbia preso cognizione dello scritto non riservato inviatogli e, seguendo la linea interpretativa già sintetizzata, ciò basta a determinarne la conoscibilità anche da parte di terzi, a prescindere dalla conoscenza che ne abbia avuto anche l'altro destinatario formale della missiva, oltre alla vittima del reato, e cioè la persona difesa dal ricorrente.


4. Il terzo motivo di censura è infondato.


Il ricorrente invoca, alternativamente, la scriminante dell'esercizio del diritto di critica, prevista in generale dall'art. 51 c.p., ovvero la disposizione dell'art. 598 c.p., secondo cui non sono punibili le offese, e quindi le espressioni diffamatorie, contenute negli scritti delle parti o dei loro patrocinatori, diretti all'autorità giudiziaria ovvero ad un'autorità amministrativa, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo.


Quest'ultima fattispecie sarebbe connotata, nella prospettiva difensiva, da una particolare capacità di rendere non punibili persino frasi "oltraggiose", in ossequio alla più ampia forma di manifestazione della libertà di pensiero nell'ambito della redazione degli atti giudiziari, ferma la pertinenza delle manifestazioni espressive, e sul presupposto, nel caso di specie, dell'erroneità del rigetto dell'istanza di ammissione al gratuito patrocinio da parte del magistrato offeso.


Le ragioni difensive non hanno pregio.


4.1. Il Collegio evidenzia, anzitutto, come la natura giuridica dell'istituto previsto dall'art. 598 c.p. sia al centro di una questione interpretativa, che vede divisi coloro i quali ritengono che tale fattispecie configuri una causa di non punibilità, non idonea ad escludere l'illiceità del fatto (così, parte della giurisprudenza - Sez. 6, n. 39934 del 30/09/2005, Ferrari, Rv. 233841 - e la dottrina dominante, che fanno leva sul dato letterale e sulla circostanza che il comma 2 della norma in esame prevede la possibilità di applicare sanzioni all'autore della condotta), e quanti, invece, sostengono trattarsi di una vera e propria causa di giustificazione o esimente, che esclude l'illiceità del fatto ed è ricollegabile all'esercizio del diritto di difesa, fondando, dunque, sull'art. 24 Cost. e sull'art. 51 c.p. (cfr., per tale tesi, la sentenza Sez. 5, n. 6701 del 8/2/2006, Massetti, Rv. 234008).


Orbene, premesso che, effettivamente, la giurisprudenza di questa Corte regolatrice ha ribadito anche di recente ed in modo esplicito la natura di causa di non punibilità dell'istituto previsto dall'art. 598 c.p., ammettendo che detta fattispecie e la scriminante di cui all'art. 51 c.p. operano su piani diversi, la prima non escludendo l'antigiuridicità del fatto ma solo l'applicazione della pena e ricomprendendo anche condotte di offesa non necessarie, purché inserite nel contesto difensivo; la seconda ricollegandosi, invece, all'esercizio del diritto di difesa e richiedendo il requisito della necessarietà ed il rispetto dei limiti di proporzionalità e strumentalità (Sez. 5, n. 14542 del 7/3/2017, Palmieri, Rv. 269734), va precisato che, in ogni caso, qualsiasi sia l'interpretazione della natura della disposizione in esame, le offese non punibili ai sensi dell'art. 598 c.p. sono solo quelle che si riferiscono all'oggetto della causa, in modo diretto ed immediato, ed hanno una qualche finalità difensiva (oltre alla sentenza n. 14542 del 2017, cfr. Sez. 5, n. 8421 del 23/1/2019, Gigli, Rv. 275620).


Ciò perché la ratio della norma si coglie nell'esigenza di assicurare la libertà di discussione delle parti contendenti, anche nel caso di offesa non necessaria, ma che si inserisca nel sistema difensivo dei procedimenti con funzione strumentale (cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 128 del 1979 e n. 380 del 1999), nel senso che le espressioni ingiuriose devono concernere, in modo diretto ed immediato, l'oggetto della controversia e devono assumere rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta.


Come è stato ben chiarito, le offese non punibili sono "quelle che concernono l'oggetto della causa e non quelle che, sia pure con finalità lato sensu difensive, investano vicende assolutamente estranee al thema decidendum" (cfr. la citata sentenza n. 14542 del 2017).


Ed in tale prospettiva si pone anche la Corte costituzionale, che ha da tempo precisato come, nell'art. 598 c.p. non possa rinvenirsi il fondamento di una singolare facoltà di offendere (cfr. la sentenza n. 380 del 1999), la cui esistenza sarebbe destinata a ripercuotersi sull'interpretazione dei confini dell'art. 51 c.p., sicché, nel caso in cui l'espressione sia estranea all'oggetto della causa, l'interprete dovrà collocarsi fuori dal cono d'ombra applicativo dell'art. 598 citato e verificare i presupposti generali della scriminante del diritto di critica.


Già sotto il profilo ermeneutico esplorato, quindi, la condotta del ricorrente non può dirsi che integri la suddetta scriminante (o causa di non punibilità): sono state, infatti, rivolte alla persona offesa - "colpevole" di aver emesso un provvedimento di rigetto dell'istanza di ammissione al gratuito patrocinio per ragioni processuali, che, a dire dell'imputato, era errato - indeterminate accuse di partigianeria ed inimicizia ("ostilità") politica con il suo assistito, imputato in un procedimento per reati di opinione, avulse dal merito del provvedimento di rigetto dell'istanza di ammissione al gratuito patrocinio di cui si lamenta l'illegittimità e non certo collegabili in modo diretto ed immediato ad esso, ma anzi generiche e prive di nesso con le ragioni della decisione giurisdizionale.


4.2. Sotto un differente profilo interpretativo, le offese rivolte al magistrato vittima della diffamazione non sono contenute in uno scritto che rientra effettivamente nel novero di quegli "atti difensivi inviati alle parti processuali attuali del giudizio ordinario o amministrativo al quale siano riferite", alla cui appartenenza, pure, l'art. 598 c.p. ricollega l'operatività dell'esclusione della punibilità, non potendo operare la previsione normativa nei riguardi di soggetti solo interessati al giudizio (Sez. 5, n. 38424 del 17/5/2019, Pizzi, Rv. 277005; Sez. 5, n. 45173 del 22/5/2015, Rando, Rv. 265505).


In altre parole, l'esimente di cui all'art. 598 c.p. - concernente la non punibilità delle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie e amministrative (nella specie, si tratta di uno scritto volto, più che al reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell'istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a sollecitare un procedimento disciplinare nei confronti del magistrato offeso, cui l'imputato ha fatto espressamente riferimento) - non è applicabile qualora le espressioni offensive siano contenute in una memoria difensiva inviata a persona diversa dal contraddittore del procedimento, in quanto l'operatività dell'esimente, funzionale al libero esercizio del diritto di difesa, deve restare circoscritta all'ambito del giudizio ordinario od amministrativo nel corso del quale le offese siano proferite (e sempre a condizione che queste ultime siano pertinenti all'oggetto della causa o del ricorso amministrativo: Sez. 5, n. 7633 del 18/11/2011, dep. 2012, Masia, Rv. 252161).


Il Presidente del Tribunale di Roma, cui (anche) è stato rivolto lo scritto incriminato, non può considerarsi certamente "parte" coinvolta nel procedimento; così come la richiesta centrale a lui rivolta nella lettera diffamatoria, di procedere disciplinarmente nei confronti del magistrato che aveva emesso il provvedimento sfavorevole contestato dal ricorrente, non può dirsi pertinente all'oggetto dell'istanza difensiva (cfr. par. 4.1.) il cui rigetto è stato bollato come "illegale" ed "abnorme".


4.3. Sgombrato il campo dalla possibilità di configurare, nel caso di specie, l'ipotesi di non punibilità prevista dall'art. 598 c.p., il campo di verifica si fa più ampio ragionando dell'applicabilità della scriminante del diritto di critica, prevista in via generale dall'art. 51 c.p..


A tal proposito, non vi è dubbio che l'esimente in parola postuli comunque, quale presupposto necessario, la verità del fatto storico attribuito al diffamato, ove tale fatto sia posto a fondamento della elaborazione critica (ex multis, soprattutto in tema di diffamazione a mezzo stampa, ma con valutazioni che possono, in linea generale, esportarsi alla critica giudiziaria in generale, cfr. Sez. 5, n. 40930 del 27/9/2013, Travaglio, Rv. 257794; Sez. 5, n. 8721 del 17/11/2017, dep. 2018, Coppola, Rv. 272432; Sez. 5, n. 34129 del 10/5/2019, Melia, Rv. 277002).


Si è consolidato, altresì, il condivisibile principio secondo cui l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, sebbene essa non vieti l'utilizzo di termini che, pur se oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Sez. 5, n. 17243 del 19/2/2020, Lunghini, Rv. 279133; Sez. 5, n. 37397 del 24/6/2016, C., Rv. 267866; Sez. 5, n. 31669 del 14/4/2015, Marcialis, Rv. 264442; vedi da ultimo, in un'ipotesi peculiare, Sez. 5, n. 33115 del 14/10/2020, Fontana, Rv. 279965).


Sul fronte della giurisprudenza Europea, per quanto riguarda la critica diretta contro coloro i quali rivestano posizioni pubbliche rilevanti, come certamente può dirsi per chi espleti le funzioni di magistrato, la Corte Europea dei Diritti Umani, da ultimo nella sentenza Magosso e Brindani c. Italia del 16.1.2020, ha posto l'accento sul fatto che i limiti della critica nei confronti dei funzionari che agiscono in qualità di personaggi pubblici nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali sono più ampi rispetto ai semplici privati cittadini (come precedenti, cfr. anche Med2lis Islamske Zajednice Bre'ko e altri c Bosnia Erzegovina (GC) del 27 giugno 2017; Mariapori c. Finlandia del 6 luglio 2010).


La giurisprudenza della Corte EDU, con specifico riguardo alla diffamazione di esponenti della magistratura, interpretando il p. 2 dell'art. 10 CEDU, disposizione che, tra i motivi specifici idonei a giustificare le limitazioni alla libertà di espressione, indica lo scopo di "garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario", può dirsi orientata in modo stabile ad affermare che il potere giudiziario non è sottratto alla critica, ma che la speciale protezione dell'autorità giudiziaria, attuata mediante anche possibili limitazioni alla libertà di espressione, si giustifica per il fatto che in tal modo si concorre a tutelare la buona amministrazione della giustizia, di cui il rispetto e la fiducia del pubblico sono una condizione (cfr. Corte EDU, Sunday Times (n. 1) c. Regno Unito, 26.4.1979, p. 55-56). La tutela dei giudici e dei pubblici ministeri, cioè, è necessaria, anche in considerazione del particolare dovere di riserbo, prudenza e continenza che grava su di loro (Corte EDU, Prager e Oberschlick c. Austria, 26.4.1995, p. 34; Corte EDU, Sunday Times (n. 1) c. Regno Unito, 26.4.1979, p. 55-56).


Particolarmente rilevante e', ai fini che qui interessano, il caso risolto dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Morice c. Francia del 23 a. 2015, in cui la Grande Chambre ha chiarito come il diritto di critica nei confronti di esponenti della magistratura corrisponde ad un interesse pubblico e gode di limiti più ampi di quello esercitabile nei confronti dei normali cittadini, purché la critica non si traduca in "attacchi gravemente lesivi e infondati", delineando, in tal modo, le coordinate per una corretta declinazione dell'esercizio legittimo del diritto di critica nei riguardi dell'operato della magistratura, in ragione del suo rappresentare un'istituzione fondamentale dello Stato, meritevole di essere tutelata nell'immagine di imparzialità, per la necessità di assicurare la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario (per una ricostruzione in senso analogo, cfr. Sez. 5, n. 19889 del 17/2/2021, Parrino, Rv. 281264).


Infine, nel recente arresto L.P. e Carvalho c. Portogallo del 8.10.2019, la Corte EDU ha ravvisato una violazione dell'art. 10 CEDU in relazione alla condanna, rispettivamente per diffamazione e per oltraggio, subita da due avvocati in relazione a dichiarazioni offensive contenute nei loro scritti difensivi, affermando che le sanzioni inflitte, benché di modesto ammontare, possono determinare un c.d. chilling effect, un effetto dissuasivo e sterilizzante sulla professione forense in generale e nella difesa degli interessi dei clienti da parte degli avvocati (sul tema, in motivazione, cfr. Sez. 5, n. 34016 del 14/5/2021, Vulpio).


Anche la giurisprudenza della Cassazione ha dimostrato peculiare attenzione ad un bilanciamento della critica giudiziaria con i valori di tutela dell'onore dei magistrati coinvolti, bilanciamento che si delinea anche come attitudine costante a coltivare il valore del dissenso in democrazia (tra le molte pronunce, si segnalano: Sez. 5, ord. n. 5638 del 16/1/2015, Sarzanini, Rv. 263467; Sez. 5, n. 2890 del 4/12/1998, dep. 1999, Soluri, Rv. 212693; Sez. 5, n. 28661 del 9/6/2004, Sinn, Rv. 229312).


E così, il limite della continenza nel diritto di critica, utile a scriminare il reato di diffamazione, è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, sicché il contesto nel quale la condotta si colloca, di cui pure deve tenersi conto per valutare la portata diffamatoria di una condotta, non può scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona oggetto di critica in quanto tale, travalicando la linea di demarcazione tra il dissenso espresso all'operato altrui -che deve essere ampiamente consentito in una società democratica, soprattutto nei confronti di chi ricopra incarichi o funzioni pubblici, e, tra questi, dei magistrati - e la lesione della reputazione e dell'onore della persona attaccata. Il "dissenso", infatti, è certamente un valore da garantire come bene primario in ogni moderna società democratica che voglia davvero dirsi tale, ma non può trascendere le idee, esorbitare dalla ricostruzione dei fatti e giungere a fondare manifestazioni espressive che diventino meri argomenti di aggressione personale di chi è portatore di una diversa opinione (in tal senso Sez. 5, n. 7995 del 9/12/2020, dep. 2021, in motivazione).


L'elaborazione ermeneutica si è sempre più affinata, dunque, nel corso degli anni, sino a giungere all'attuale stabilizzazione di un orientamento di particolare apertura nei confronti della liceità della critica giudiziaria, sulla base del principio di derivazione anche dalla giurisprudenza Europea, secondo cui, in democrazia, a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e l'assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica (cfr. la citata sentenza della Corte EDU Magosso e Brindani, in tema).


Pertanto, il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto - si è detto - nel modo più ampio possibile, costituendo l'unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell'esercizio di una rilevante attività istituzionale, che viene esercitata nel nome del popolo italiano da soggetti che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono di ampia autonomia ed indipendenza; ne deriva che il limite della continenza può ritenersi superato soltanto in presenza di espressioni che, in quanto inutilmente umilianti, trasmodino nella gratuita aggressione verbale del soggetto criticato (Sez. 5, n. 19960 del 30/1/2019, Giorgetti, Rv. 276891; in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto funzionale alla disapprovazione della condotta processuale tenuta da un magistrato inquirente, nel contesto di una vicenda processuale coinvolgente un avvocato civilista, dapprima condannato e poi definitivamente assolto da un'imputazione per estorsione, l'affermazione secondo la quale detto magistrato sarebbe incorso in negligenza inescusabile, avendo dimostrato di ignorare l'elementare concetto di negozio giuridico.


Altrettanto emblematico il caso che ha portato a scriminare le espressioni "sprovveduto" ed "incauto" rivolte ad un magistrato: Sez. 5, n. 11662 del 6/2/2007, Iannuzzi, Rv. 236362).


Se tale ampiezza espansiva della critica consentita si riscontra sul fronte delle censure alla professionalità del magistrato, anche quando esse si manifestino in una forma espressiva aspra e sferzante, non altrettanto può dirsi qualora la critica coinvolga i prerequisiti della funzione giurisdizionale, costituiti dai caratteri di indipendenza ed autonomia, percepiti come imprescindibili attribuzioni dell'essere appartenenti all'ordine giudiziario, e coinvolga un giudizio di valore e di stima sulla persona del magistrato, piuttosto che sulle sue capacità professionali.


Così, è stato stabilito che non costituisce esercizio legittimo del diritto di critica la gratuita attribuzione di mala fede a chi conduce indagini giudiziarie, presentando come risultato di complotti o di strategie politiche l'opera del pubblico ministero, perché in tal caso non si esprime un dissenso, più o meno fondato e motivato, sulle scelte investigative, ma si afferma un fatto che deve essere rigorosamente provato e si finisce per realizzare un attacco alla "stima" di cui gode il magistrato (Sez. 5, n. 28661 del 2004 cit.; cfr. anche Sez. 5, ord. n. 5638 del 16/1/2015, Sarzanini, Rv. 263467 e Sez. 5, n. 41671 del 7/7/2016, Menzione, Rv. 268043); ed egualmente è a dirsi se le accuse sono di strumentalizzazione della funzione (Sez. F, n. 29453 del 8/8/2006, Sgarbi, Rv. 235069) o si trasmoda dalla critica aspra al dileggio (Sez. 5, n. 2066 del 11/11/2008, dep. 2009, Fasolino, Rv. 242348).


Ancor più esplicitamente si è affermato, ponendo un principio che il Collegio intende ribadire: in tema di diffamazione e diritto di critica giudiziaria, non è scriminata la condotta che attribuisce parzialità per ragioni politiche ad un soggetto che esercita la funzione giudiziaria in quanto intrinsecamente offensiva (Sez. 5, n. 10631 del 12/2/2009, Sgarbi, Rv. 243484), sempre che, ovviamente, non vi sia prova della verità della parzialità politica attribuita, intesa come verità storica del fatto specificamente denunciato.


Dunque, qualora vengano in gioco accuse di negligenza e incapacità del magistrato, la critica giudiziaria può assumere una connotazione anche molto "pesante", aspra e sferzante; laddove, invece, detta critica si incentri su accuse di partigianeria politica e, quindi, attribuisca al magistrato un deficit di imparzialità ed indipendenza - attribuzioni che, non a caso, sono state definite dal CSM "imprescindibili condizioni per un corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali" (insieme all'equilibrio, cfr. la Circolare n. 20681 del 8.10.2007 e successive modifiche, in tema di valutazione di professionalità, nonché la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ritiene tali caratteri delle precondizioni.. consustanziali all'esercizio della funzione giurisdizionale: CDS, Sez. 5, n. 5309 del 29 luglio 2019) - l'unica possibilità di ritenere la condotta diffamatoria scriminata deve essere indicata nella precisa verità storica del fatto, non potendo il giudizio di valore, di cui pure in astratto può nutrirsi la critica, avere ingresso in tal caso.


La citata sentenza n. 41671 del 2016, ad esempio, in una fattispecie che presenta alcune analogie significative con quella all'esame del Collegio, ha ritenuto intrinsecamente offensive le dichiarazioni fatte dall'imputato, di professione avvocato, ad un incontro pubblico su fatti di grave allarme sociale, secondo le quali il pubblico ministero competente "voleva chiudere l'indagine in un sol modo, prima ancora di cominciarla", conducendo una "pseudo-indagine", in quanto intese ad attribuire al medesimo l'esercizio del proprio ruolo professionale sulla scorta di un'idea preconcetta (tuttavia, con qualche accento più aperto in ambito di critica all'atteggiamento personale del magistrato, cfr. Sez. 5, n. 34432 del 5/6/2007, Blandini, Rv. 237711, che ha ritenuto sussistente l'esimente del diritto di critica in relazione ad un'accusa di "subalternità psicologica" nei confronti della famiglia dell'imputato ricca e potente, avanzata da un giornalista nei confronti di un magistrato del pubblico ministero, poiché, nel caso di specie, l'affermazione costituiva argomento atto a rinvenire una plausibile spiegazione ad una ritenuta grave ingiustizia e non già a denigrare la persona del requirente).


Ed è quasi superfluo aggiungere che il contesto e le circostanze della condotta diffamatoria, così come le modalità espressive con le quali essa si è realizzata, costituiscono fattori concreti che distinguono fattispecie come quella sottoposta all'esame del Collegio da altre, più frequenti ipotesi, che, più sovente in ambito di libertà di stampa e diritto all'informazione, coinvolgono questioni relative alle opinioni politiche dei magistrati, singolarmente o come gruppi o in quanto categoria; come è stato già efficacemente sostenuto, infatti, qualora si rilevi la prevalenza dell'interesse pubblico all'informazione, niente di ciò che il magistrato fa o dice anche in sede privata può dirsi indifferente alla pubblica opinione, quando le cose dette o fatte siano idonee a valere come indici di valutazione rispetto all'esercizio delle funzioni, rientrando la puntuale e corretta applicazione dell'attività giudiziaria nell'interesse della collettività (Sez. 5, n. 10151 del 23/4/1986, Emiliani, Rv. 173847).


4.4. Venendo al caso che occupa il Collegio, premesso che in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e quindi della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005, dep. 2006, Travaglio, Rv. 233749; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706; Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145), deve rilevarsi come il ricorrente non possa fondatamente dolersi della mancata applicazione nei suoi confronti della scriminante dell'esercizio del diritto di critica.


La lettera-denuncia diffamatoria, indirizzata, tra gli altri, al Presidente del Tribunale in cui la parte civile, magistrato dell'ufficio GIP/GUP, svolgeva all'epoca le sue funzioni, si è chiaramente posta l'obiettivo di criticare non soltanto la professionalità di quest'ultimo, intento certamente legittimo - per quanto sinora esposto - anche qualora il pensiero critico fosse stato manifestato attraverso espressioni forti ed aggressive (come possono essere le accuse rivolte, nella specie, al Dott. A. di aver formato un atto "illegittimo" ed "abnorme" e di aver impiegato un tempo eccessivo nella risposta giudiziaria all'istanza proposta), ma, soprattutto, ha avuto la finalità di far apparire la decisione presa dal giudice come derivata da una matrice di "ostilità politica" nei confronti dell'istante, in tal modo accusandolo apertamente di parzialità e mancanza di indipendenza e colorando la dedotta illegittimità ed abnormità del provvedimento sfavorevole di un alone negativo immanente ed irrimediabilmente diffamante.


Si rammenta che per indipendenza si intende lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali senza condizionamenti, rapporti o vincoli che possano influenzare negativamente o limitare le modalità di esercizio della giurisdizione; l'imparzialità, invece, implica il corretto atteggiamento del magistrato nei confronti di tutti i soggetti processuali (e, come è stato ben precisato, essa è la imprescindibile condizione che gli organi giurisdizionali devono avere nella coscienza sociale: cfr. Sez. 5, n. 15447 del 2011, n. m.).


Tali due essenziali prerequisiti della professionalità di un magistrato sono stati messi in discussione dal ricorrente nei riguardi della persona offesa, senza alcun elemento concreto che potesse farli neppur lontanamente ritenere appannati o mancanti, come risulta dal testo stesso dello scritto diffamatorio, sicché, mancando qualsiasi plausibilità e verità del fatto, il tenore complessivo della lettera dell'imputato si risolve in un attacco gratuito ed aspecifico all'imparzialità ed all'indipendenza del magistrato bersaglio delle critiche, non scriminabile ai sensi dell'art. 51 c.p..


5. Il ricorso, pertanto, deve essere complessivamente rigettato ed al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile costituita in giudizio, che, viste le conclusioni e la nota allegata, il Collegio ritiene congruo indicare in Euro 2.800, oltre accessori di legge.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 2.800, oltre accessori di legge.


Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2021.


Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2021

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