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Diffamazione: la provocazione è una scusante, non esclude la responsabilità civile


Corte di Cassazione

La massima

In tema di diffamazione, la causa di non punibilità della provocazione non ha natura di scriminante ma di scusante, idonea ad eliminare solo la rimproverabilità della condotta dell'autore in ragione delle motivazioni del suo agire, ferma restando l'illiceità del fatto, imputabile a titolo di dolo, e la conseguente obbligazione risarcitoria nei confronti del soggetto leso. (In applicazione del principio la Corte ha riconosciuto la sussistenza dell'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza d'appello che, in riforma di quella di primo grado, aveva assolto l'imputato a norma dell'art. 599, comma 2, c.p., revocando le statuizioni civili - Cassazione penale sez. V - 08/03/2021, n. 26477).

Fonte: CED Cass. pen. 2021


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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V - 08/03/2021, n. 26477

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza impugnata la Corte d'Appello di Torino, in riforma della pronunzia di primo grado, ha assolto l'imputato V. dal delitto di diffamazione consistito nel pubblicare frasi reputate offensive dell'onore di C.N., per aver agito in stato d'ira a causa del fatto ingiusto dello stesso C..


1. Avverso la sentenza ha proposto ricorso la costituita parte civile lamentando violazione di legge relativamente all'art. 599 c.p. e per omessa motivazione, riguardo alla revoca delle statuizioni civili.


Sotto il primo profilo ha dedotto il ricorrente che l'applicazione dell'esimente non ha eliminato il carattere illecito della condotta, come la stessa Corte di appello aveva riconosciuto affermando che i vari post pubblicati dall'imputato su face book assumevano natura univocamente diffamatoria nei confronti di C.. Secondo una pronunzia di questa Corte, infatti, l'esclusione della punibilità dal reato di diffamazione non eliderebbe la natura civile dell'illecito, né la conseguente obbligazione risarcitoria, configurandosi non tanto come esimente ma quale scusante idonea ad eliminare solo la rimproverabilità della condotta dell'autore del fatto in ragione dei motivi del suo agire, pur restando il fatto imputabile a titolo di dolo e, dunque, illecito.


1.1 Sotto il profilo del difetto di motivazione si è argomentato che la revoca delle statuizioni civili non era stata in alcun modo giustificata.


La difesa dell'imputato ha fatto pervenire memoria con la quale ha contestato l'interesse della parte civile all'impugnazione ed ha esposto le ragioni di merito per le quali ha chiesto di respingere il ricorso.


Con requisitoria scritta a norma del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 12-ter, convertito, con modificazioni, con la L. 24 aprile 2020, n. 27, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione ha concluso per il rigetto.


Ha depositato in via telematica memoria la difesa della parte civile con la quale ha replicato alle conclusioni del PG, chiedendo l'accoglimento del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è fondato.


1. Occorre, in primis, puntualizzare che non è condivisibile la tesi sostenuta nella memoria della difesa dell'imputato, secondo la quale non vi sarebbe interesse della parte civile ad impugnare la sentenza pronunziata ai sensi dell'art. 599 c.p., comma 2, poiché la sentenza assolutoria non avrebbe efficacia preclusiva per la prosecuzione dell'azione civile nella sede propria, non avendo tale pronunzia autorità di cosa giudicata nel giudizio civile o amministrativo ai sensi dell'art. 652 c.p.p.. L'affermazione difensiva è corrispondente ad un indirizzo giurisprudenziale già rappresentato nel panorama esegetico di questa Corte ma al Collegio appare superata, in ragione di quanto opinato dal massimo consesso di legittimità nella recente pronunzia delle Sez. U, Sentenza n. 28911 del 28/03/2019 Ud. (dep. 03/07/2019) Rv. 275953, Papaleo, che ha disatteso proprio l'orientamento sostenuto dalla difesa dell'imputato, sia pure occupandosi del tema dell'interesse della parte civile ad impugnare la declaratoria di prescrizione in caso di contestazione del compiersi del relativo termine. Tale pronunzia si è posta in linea con quanto già chiarito da SU Guerra (N. 40049 del 2008 Rv. 240815) con cui si era superata la tesi della mancanza di interesse della parte civile ad impugnare la sentenza liberatoria in caso di mancanza di efficacia preclusiva ex art. 652 c.p.p., tesi fondata sul presupposto che, in tale ipotesi la parte civile è libera di esercitare la pretesa risarcitoria nella sede propria e, dunque, l'eventuale rimozione della sentenza impugnata in concreto non muterebbe la situazione processuale della parte civile, libera di percorrere la strada propria del giudizio civile.


1.1 Partendo da tale condivisa premessa SU Papaleo, confutando la tesi smentita, ha precisato che se il sistema ha riconosciuto al danneggiato la possibilità di azionare la propria pretesa di carattere civilistico percorrendo, oltre alla via del giudizio civile, anche quella del giudizio penale mediante la costituzione di parte civile, una interpretazione che ritenesse insussistente l'interesse all'impugnazione, sol perché sarebbe pur sempre possibile la residua azione civile, si tradurrebbe nella sostanziale ripulsa del congegno normativo e nella indebita "amputazione" di una facoltà riconosciuta dal legislatore. L'interesse concreto deve, quindi, essere individuato nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili, e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 c.p.p., senza la necessità di iniziare "ex novo" il giudizio civile.


1.2 Le sezioni semplici di questa Corte seguono la lezione delle SU come emerge da Sez. 4, Sentenza n. 10114 del 21/11/2019 Ud. (dep. 16/03/2020) Rv. 278643 secondo la quale sussiste l'interesse processuale della parte civile a impugnare la decisione di assoluzione resa con la formula "perché il fatto non costituisce reato", in quanto le limitazioni all'efficacia del giudicato, previste dall'art. 652 c.p.p., non incidono sull'estensione del diritto all'impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile dall'art. 576 c.p.p.; infatti, chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della controparte si giova di tale accertamento e si trova in posizione migliore di chi deva cominciare il giudizio "ex novo". Nello stesso senso e con preciso riferimento ad un caso analogo di assoluzione dell'imputato dal delitto di diffamazione ai sensi dell'art. 599 c.p., comma 2, si è espressa sez. 5 - Sentenza n. 17941 del 07/02/2020 Ud. (dep. 11/06/2020) Rv. 279205, affermando la sussistenza dell'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di assoluzione che abbia riconosciuto l'esimente di cui all'art. 599 c.p., comma 2, atteso che la parte civile una volta che ha deciso di perseguire i propri interessi in sede penale, ha diritto ad opporsi, attraverso i rimedi impugnatori, ad una pronunzia diversa da quella cui avrebbe aspirato, pur se priva di efficacia preclusiva all'azione civile ai sensi dell'art. 652 c.p.p..


2. Dopo tale necessaria premessa va osservato che la doglianza avanzata dalla difesa della parte civile nei motivi di ricorso coglie nel segno. La norma ex art. 599 c.p., comma 2, ai sensi della quale l'imputato è stato assolto recita, infatti: Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall'art. 595 nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. Essa è stata considerata una causa di non punibilità (Sez. 5, Sentenza n. 30502 del 16/05/2013 Ud. (dep. 15/07/2013) Rv. 257700, oppure una esimente (Sez. 5, Sentenza n. 7244 del 06/07/2015 Ud. (dep. 24/02/2016) Rv. 267137) ma in ogni caso sembra espressione di una scelta discrezionale del legislatore che, in presenza di un fatto ingiusto ritiene non punibile la reazione immediata della persona offesa che, a sua volta, offenda la reputazione o l'onore dell'autore del comportamento ingiusto.


2.1 La nozione di fatto ingiusto è stata definita nel senso che esso è ravvisabile non solo quando il fatto sia contrario al diritto altrui o alle regole imposte dall'ordinamento giuridico ma anche in presenza di un fatto che in determinate condizioni di tempo e di luogo, in considerazione dei rapporti tra le parti, riveli un atteggiamento inopportuno ed espressivo di iattanza da parte di chi lo realizza oppure un fatto non conforme alle regole morali o sociali o della convivenza civile. (Ex multis, Sez. 5, n. 21133 del 09/03/2018, Iachetta, Rv. 273131). 2.2 Nella fattispecie in esame la Corte d'appello ha ritenuto le espressioni adoperate dalla persona offesa certamente diffamatorie, avendo affermato che il 2.9.2005 comparivano sulla pagina facebook di V. svariati post dal contenuto univocamente diffamatorio ma ha giudicato non punibile l'imputato per la ritenuta ricorrenza della causa di non punibilità della provocazione.


Deve, quindi, osservarsi, come in conseguenza dell'affermazione operata dalla Corte d'Appello, permangano sia il carattere inequivocabilmente antigiuridico delle espressioni adoperate da V. nei confronti della parte civile sia il carattere illecito della condotta dell'autore del fatto, quest'ultima tuttavia valutata, in considerazione delle concrete circostanze del caso in esame, scusabile e/o non punibile penalmente ex art. 599 c.p., comma 2. La mancata punibilità in sede penale del comportamento dell'imputato, tuttavia, non elimina la violazione del diritto altrui che ne è derivata, trovando questa adeguata risposta nel sistema normativo, sotto il profilo civilistico, nel sorgere dell'obbligo di risarcimento del danno arrecato all'onore ed alla reputazione della costituita parte civile.


2.3. Il Collegio ritiene, infatti, di condividere la giurisprudenza civile citata in proposito nella memoria di parte ricorrente, secondo la quale la provocazione di cui all'art. 599 c.p., comma 2, escludendo la punibilità del reato di diffamazione ma non anche la natura di illecito civile del fatto, né la conseguente obbligazione risarcitoria del danno subito dal soggetto leso, sì configura non tanto come esimente ma quale scusante, idonea ad eliminare solo la rimproverabilità della condotta dell'autore del fatto in ragione delle motivazioni del suo agire, pur restando il fatto imputabile a titolo di dolo e, dunque, illecito. Sez. 1, Sentenza n. 2197 del 04/02/2016 (Rv. 638583 - 01).


Nella motivazione i Giudici civili hanno chiarito che secondo la più recente dottrina penalistica, quella prevista dall'art. 599 c.p., comma 2, non è una scriminante, o esimente o causa di giustificazione, ma è una scusante, che esclude solo la colpevolezza per il fatto pur tipicamente illecito. Vero è che la giurisprudenza penale continua a qualificare abitualmente quella prevista dall'art. 599 c.p., comma 2, come un'esimente o una scriminante. Tuttavia è evidente che, se non esclude l'illiceità dell'ingiuria o della diffamazione, la provocazione non è una causa di giustificazione, che eliderebbe la stessa antigiuridicità, ma è appunto una scusante, che esclude solo la colpevolezza penale dell'autore, non più intesa come mera imputabilità psicologica del fatto, ma come rimproverabilità della condotta in ragione anche delle motivazioni ad agire. In questa impostazione dunque, benché il fatto rimanga imputabile a titolo di dolo e perciò anche illecito, è esclusa la responsabilità penale per difetto di colpevolezza penale.


3. Il caso al vaglio appare risolvibile al lume delle suesposte considerazioni giuridiche, poiché, escluso senza dubbio alcuno che la provocazione ex art. 599 c.p., comma 2, abbia natura di causa di giustificazione, e senza volersi addentrare in questioni che appaiono apprezzabili sotto il profilo delle esattezza delle definizioni giuridiche, la sostanza della pronunzia impugnata è che le espressioni adoperate dall'imputato hanno certamente carattere diffamatorio e quindi illecito, ma sono state giudicate scusabili a causa della provocazione realizzata dalla parte civile. Residua, quindi, il carattere di illecito civile, dal quale sorge l'obbligazione risarcitoria. La statuizione civilistica disposta in primo grado relativamente al risarcimento del danno da definirsi in separata ed alla provvisionale di 25 mila Euro in favore della parte civile, non andava revocata, continuando ad avere fondamento nel carattere illecito delle frasi usate dall'imputato, non essendovi difformità sullo specifico punto tra la sentenza del Tribunale e quella della Corte di appello, che ha ribadito la natura diffamatoria delle espressioni di cui in imputazione. La sentenza impugnata va, quindi, annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, al quale va rimessa anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità.


P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità.


Così deciso in Roma, il 8 marzo 2021.


Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2021

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