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I reati tributari: evoluzione normativa e disciplina in vigore

Approfondimenti

I reati tributari: evoluzione normativa e disciplina in vigore

Indice


1. L’evoluzione della normativa

Il diritto penale tributario si compone delle disposizioni volte a punire la violazione delle norme e degli obblighi di natura fiscale gravanti in capo al contribuente in forza della normativa tributaria.

La prima fonte normativa è la l. n. 4 del 1929, “Norme generali per la repressione delle leggi finanziarie”. Questa si ispirava a tre principi:

  • il principio di fissità, di cui all’art. 1 co. 1, in forza del quale la normativa della l. n. 4 del 1929 poteva essere modificata solo per dichiarazione espressa del legislatore;

  • Il principio di ultrattività, per cui le leggi penali tributarie continuavano ad applicarsi anche in seguito a modifica normativa o abrogazione della stessa;

  • Il principio della cd. pregiudiziale tributaria, secondo il quale per i reati tributari l’azione penale poteva avere corso solo dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa sovrimposta fosse divenuto definitivo a norma delle leggi di settore.

Il secondo intervento normativo in ordine di tempo è stata la l. n. 516 del 1982, “Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenza in materia tributaria”.

La detta legge ha introdotto significative novità nel sistema. In specie, da un lato, ha comportato l’eliminazione del principio della cd. pregiudiziale tributaria e, dall’altro, ha introdotto fattispecie incriminatrici connotate da una significativa anticipazione della soglia del penalmente rilevante. Si trattava di una serie di reati che si sostanziavano in mere condotte prodromiche rispetto alla lesione del bene giuridico protetto, consistenti in mere irregolarità formali ovvero violazione procedurali.

La necessità di superare tale normativa si è palesata con l’entrata in vigore della Costituzione che, con l’enunciazione dei principi fondamentali e irreprimibili del diritto penale contemporaneo, si pone in inevitabile contrasto con una normativa, come quella di cui in parola, ove la soglia del penalmente rilevante era fissata prescindendo dal bene giuridico che si intendeva tutelare, consistente nell’interesse economico dell’erario al percepimento dei tributi dovuti.

Con l. n. 500 del 1999 il Parlamento delegò il Governo a innovare il diritto penale tributario, avendo quale obiettivo primario la introduzione di un sistema di repressione ispirato al principio di offensività con la eliminazione di tutte le fattispecie aventi carattere prodromico rispetto alla violazione del bene protetto. Nelle intenzioni del legislatore, pertanto, risultava di primaria rilevanza l’emanazione di un testo legislativo comprensivo di una serie di reati connotati da una significativa offesa al bene giuridico protetto.

La delega è stata attuata con il d.lgs n. 74/2000 che ha importato significative novità: da un punto di vista di teoria generale, ha abolito il principio di ultrattività, così sottoponendo la disciplina del diritto penale tributario agli ordini principi di successione di leggi nel tempo di cui all’art. 2 c.p.; da un punto di vista di politica criminale ha introdotto un sistema di condotte illecite in materia tributaria sanzionate penalmente.

Nei tempi recenti si sono succeduti diversi interventi riformatori del d.lgs n. 74/2000.

Il d.l. n. 138 del 2011 ha comportato una sostanziale riforma della disciplina dei reati tributari in materia si imposte sui redditi e IVA. In particolare le modifiche hanno riguardato l’inasprimento delle sanzioni, la limitazione all’accesso al patteggiamento e l’allungamento dei termini di prescrizione dei reati tributari.

Questo ha condotto a precisi risultati.

L’inasprimento delle sanzioni è stato realizzato mediante l’abbassamento delle soglie di punibilità previsto per i delitti in materia di dichiarazione ed eliminato le ipotesi attenuate di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

La limitazione all’accesso al patteggiamento è stata introdotta per tutti i reati tributari e non solo per le fattispecie più gravi. La modifica è consistita nel consentire al contribuente - imputato di definire la propria posizione mediante patteggiamento ma alla condizione esclusiva che ricorra la circostanza attenuante dell’intervenuto pagamento del debito tributario.

L’allungamento dei termini di prescrizione, invece ha riguardato i soli delitti di cui agli artt. 2 a 10.

Il successivo intervento riformatore è quello avutosi con il D.lgs n. 158 del 2015. Questo, come si legge dalla Relazione governativa che ha accompagnato il testo, ha composto non una revisione e non una firma dello statuto del diritto penale tributario. In particolare l’effetto è stato quello di razionalizzare il D.lgs n. 74 del 2000 e questo, in particolare, è stato possibile attraverso una serie di interventi. Si tratta della rimodulazione delle soglie di punibilità, l’introduzione di nuove ipotesi di non punibilità o di attentati ad effetto speciale e la riscrittura delle fattispecie in tema di dichiarazioni.

L’ultima modifica in ordine di tempo è stata quella della riforma apportata dal d.l. n. 124 del 2019, convertito con modificazioni dalla Legge 19 dicembre 2019, n. 157. L’ispirazione della normativa in parola è da individuare nella esigenza di inasprire la politica sanzionatoria in materia penaltributzaria, in controtendenza alla ratio della riforma del 2015 che era invece di razionalizzazione dell’intero sistema.

L’irrigidimento del sistema sanzionatorio è comunque stato bilanciato da una previsione eccentrica rispetto all’ispirazione della riforma. È stato infatti ampliato l’ambito applicativo della causa di non punibilità dell’art. 13 co. 2 che ora è estesa anche ai reati di cui agli artt. 2 e 3.


2. Il D.lgs n. 74 del 2000

2.1 La struttura del d.lgs n. 74 del 2000

Il D.lgs n. 74 del 2000 si compone di due parti: in una è contenuta la disciplina delle singole fattispecie criminose, nell’altra le disposizioni comuni.

Il titolo I è dedicato alle definizioni. L’art. 1, rubricato “Definizioni”, contiene il significato dei termini inseriti nel corpo normativo: in particolare si tratta degli elementi “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, “elementi attivi o passivi”, “dichiarazioni”, “fine di evadere le imposte”, “fine di consentire a terzi l’evasione”, “fatti commessi da chi agisce in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche”, “imposta evasa”, “soglie di punibilità”, “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” e “mezzi fraudolenti”.

Il Titolo II è dedicato ai delitti. Al Capo I sono indicati i delitti in materia di dichiarazione, al Capo II i delitti in materia di documenti e pagamento di imposte. La disposizione delle singole fattispecie è indicativa della progressione decrescente di disvalore, di gravità dunque, delle singole fattispecie.

Il Titolo III, infine, è dedicato alle disposizioni comuni. In specie gli artt. 12 a 18 bis sono dedicati a diversi istituti di parte generale. Ci si riferisce alle pene accessorie (art. 12), alla confisca (art. 12 bis), casi di non punibilità (art. 13), circostanze del reato (art. 13 bis), circostanza attenuante (art. 14), interruzione della prescrizione (art. 17).


2.2 Il bene giuridico protetto

Ogni fattispecie criminosa è coniata dal legislatore al fine di apprestare tutela ad un bene giuridico, che rischia di essere messo in pericolo o leso.

Nella materia di cui si discute sono coinvolti un bene giuridico diretto e uno intermedio.

Il bene giuridico tutelato in via diretta è l’interesse pubblico alla percezione del tributo. La tutela di questo è assicurata dalla stessa Costituzione che all’art. 53 Cost. prevede che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Il bene giuridico così inteso deve essere sogguardato anche dalla prospettiva comunitaria. In occasione della pronuncia Taricco la Corte di Giustizia UE ha avuto modo di ribadire che, essendo il bilancio dell’UE finanziato anche dall’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati, il nesso tra la riscossione di tali entrati e gli interessi finanziari unionali non possa che ritenersi diretto.

Il bene giuridico intermedio, invece, è da individuarsi nell’interesse alla trasparenza e alle ostensione dei dati relativi alla capacità contributiva del singolo.


3. I delitti

I delitti vengono suddivisi in due categorie tipologiche: nel Capo I sono indicati i delitti in materia di dichiarazione; nel capo II quelli in materia di documenti e pagamenti di imposte.

La dichiarazione, in ambito tributario, è l’atto mediante il quale il contribuente, in osservanza del principio di leale collaborazione nei confronti dell’amministrazione, porta a conoscenza di questa i dati che, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, costituiscono il presupposto impositivo, procedendo alla liquidazione dell’imposta dovuta.

L’art. 1 co. 1 lett. c) D.Lgs. n. 74 del 2000 per “dichiarazione” intende anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore liquidatore o rappresentante di società, enti, persone fisiche o di sostituto di imposta, nei casi previsti dalla legge.

I delitti in materia di dichiarazione sono quelli di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2), dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3), dichiarazione infedele (art. 4), omessa dichiarazione (art. 5).

I delitti in materia di documenti o pagamento di imposte sono emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8), occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10), omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10 bis), omesso versamento di IVA (art. 10 ter), indebita compensazione (art. 10 quater), sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11).


3.1 Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2)

Co. 1 È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

Co. 2 Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria.

Co. 2-bis. Se l'ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 100.000, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Si tratta di un delitto proprio, di pericolo astratto, di condotta, a forma vincolata e a dolo specifico.

La fattispecie incriminatrice in parola sanziona la presentazione di una dichiarazione dei redditi o dell’imposta sul valore aggiunto falsa, la cui falsità deriva dalla utilizzazione di fatture o altri documenti anch’essi falsi in quanto attestanti la effettuazione di operazioni inesistenti.

È un reato proprio perchè, nonostante sia indicato come possibile autore del reato “chiunque”, la condotta sanzionata include l’indicazione in una delle dichiarazioni relativa all’imposta sul reddito o all’iva di elementi passivi fittizi e potrà compiere male azioni solo chi è tenuto per legge alla presentazione della menzionata dichiarazione.

Si tratta di un delitto di pericolo e non di danno, perchè la fattispecie incriminatrice non richiede la verificazione dell’evasione ma semplicemente la presentazione della dichiarazione.

Si tratta di un delitto a dolo specifico, perchè conformemente alla locuzione impiegata dal legislatore “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto”, l’evento richiamato non è elemento costitutivo della fattispecie ma anzi è esterno ad essa.

Si tratta di un delitto di condotta a forma vincolata perchè l’autore deve essersi reso responsabile di due azioni. Da un lato, questi deve presentare una dichiarazione relativa alla imposta sui redditi o all’IVA contenente elementi passivi fittizi ed inesistenti; dall’altro, al fine di addivenire alla presentazione della detta dichiarazioni, deve utilizzare documenti per operazioni inesistenti.

Con la formula “documentazione falsa” l’art. 1 co. 1 lett. a) intende le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni in tutto o in parte inesistenti ovvero relativi ad operazioni effettivamente avvenute ma che riportano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore al reale ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.

La disposizione in parola risulta eccentrica rispetto alle altre e cioè agli artt. 3, 4 e 5, perchè manca nella previsione in parola una soglia di penale rilevanza. Diversamente dalle altre fattispecie incriminatrici la punibilità o la penale rilevanza del comportamento, a seconda delle sensibilità che tende a ricostruire i limiti soglia quale elemento costitutivo o condizione obiettiva di punibilità, non è correlata al superamento di una data soglia.

La ratio di tale peculiarità è stata esplicata dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 95 del 2019.

Nel caso di specie il Tribunale ordinario di Palermo, in specie, aveva dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 nella parte in cui non prevedeva che la condotta delittuosa ivi descritta fosse punibile quando congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila.

In altri termini il giudice a quo lamentava che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, delineato dalla norma censurata e in rapporto al quale non era prevista alcuna soglia di punibilità, non fosse invece assoggettato alle medesime soglie di punibilità contemplate dall’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 in rapporto al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.

La Corte Costituzionale nella pronuncia n. 95 del 2019 ha ritenuto la questione non fondata. A parere della Consulta, infatti, la diversità di struttura della fattispecie dell’art. 2, quella di non essere dotata di soglie di punibilità, risponde all’intenzione del legislatore di “isolare”, nell’ambito dell’ampia gamma dei mezzi fraudolenti utilizzabili a supporto di una dichiarazione mendace, uno specifico artificio, il quale presenta uno spiccato coefficiente di insidiosità per gli interessi dell’erario.

La Corte Costituzionale tra l’altro colloca tale diversità nell’ambito di una precisa strategia del legislatore, quella di allontanarsi dall’ispirazione generale della normativa, tutta tesa ai reati prodromici, per punire più severamente un fatto che è quello più corrosivo degli interessi dell’erario.

Si pone, d’altronde, in questo senso anche la modifica normativa della l. 157 del 2019 al co. 2 bis dell’art. 2, che ha introdotto una soglia di rilevanza in funzione di circostanza attenuante. La disposizione ora prevede che se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila si applica la reclusione di un anno e sei mesi a sei anni.

L'art. 39, comma 1, lett. a), del d.l. n. 124/2019, conv. in legge n. 157/2019, ha operato anche sulla cornice edittale della pena: in luogo della precedente compresa tra un 1 e 6 mesi di pena minima e 6 anni di pena massima ha previsto attualmente la reclusione da 4 a 8 anni.


3.2 Dichiarazione fraudolenta mediante altri raggiri (art. 3)

Co. 1 Fuori dai casi previsti dall'articolo 2, è punito con la reclusione da tre a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente:

a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila;

b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l'ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell'imposta, è superiore al cinque per cento dell'ammontare dell'imposta medesima o comunque a euro trentamila.

Co. 2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria.

Co. 3. Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali.

Si tratta di un delitto proprio, di pericolo concreto (nella parte in cui “ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria”), di condotta, a forma vincolata e a dolo specifico.

Il delitto è proprio per le stesse ragioni che valgono per l’art. 2 e cioè che può rendersi autore del fatto indicato dalla norma solo chi è tenuto per legge alla presentazione della menzionata dichiarazione.

È un delitto di condotta perchè il soggetto attivo è perseguito per avere commesso una delle seguenti azioni, indicate alternativamente tra loro. In specie è sufficiente che in via alternativa l’autore si sia avvalso di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, di documenti falsi o ancora di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria.

L’art. 3 è dotato di due soglie di penale rilevanza. La norma esige che l’imposta evasa, con riferimento a taluna delle singole imposte, sia superiore a euro trentamila (a) e che l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, sia superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, sia superiore a euro un milioni cinquecento mila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizia in diminuzione dell’imposta sia superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila (b).

In ordine alla natura delle soglie di punibilità si è aperto un dibattito. Prima di dare conto delle diverse posizioni emerse è bene premettere la nozione di “imposta evasa”, che è oggetto di una delle due soglie di penale rilevanza indicate dalla norma e che è stata utilizzata a base dei diversi ragionamenti poi svolti dagli interpreti.

Per “imposta evasa” l’art. 1 co. 1 lett. f) D.lgs n. 74 del 2000 intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine; non si considera imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettificazione in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili.

Da un lato, c’è la tesi di chi sostiene che le soglie di punibilità siano elementi costitutivi, dall’altro la tesi di chi sostiene che siano condizioni obiettive di punibilità.

Le conseguenze sono rilevanti e investono la consistenza dell’elemento soggettivo.

Il dolo specifico è un particolare modo di atteggiarsi del dolo. Questo si connota perchè, diversamente dalle altre ipotesi, si correla a una finalità specifica che è estranea agli elementi del fatto di reato. In considerazione di ciò, non può mai appartenere alle finalità proprie del dolo specifico un elemento o un evento che appartenga al fatto di reato incriminato dalla disposizione.

Ne deriva che a considerare le soglie di punibilità come elementi costitutivi o condizioni obiettive di punibilità, a mutare è il dolo, che sarà generico o specifico, a prescindere dal dato letterale della norma.

In specie, là dove le soglie di punibilità dovessero intendersi come elemento costitutivo del reato, seppure non in termini di evento, l’elemento soggettivo non potrebbe essere di dolo specifico ma dolo generico; là dove invece le soglie di punibilità dovessero essere intese come condizioni obiettive di punibilità, proprio perchè esterne al fatto di reato, il dolo potrebbe essere, coerentemente al dato normativo, dolo specifico.

Distinguere le condizioni obiettive di punibilità dagli elementi costitutivi del reato non è operazione semplice e immediata. A questi fini la dottrina e la giurisprudenza si sono avvalsi di vari criteri, quello letterale e quello sostanziale.

Il primo si è dimostrato nella maggior parte dei casi insoddisfacente, perchè spesso il legislatore fa uso improprio del lessico normativo.

Il secondo, invece, si è mostrato più affidabile. Questo impone all’interprete di considerare il singolo elemento di cui è dubbia la natura nell’economia della fattispecie tenendo conto dei principi costituzionali di necessarietà della pena e prescindendo dal dato formale. Alla stregua di questa impostazione gli elementi costitutivi di un fatto renderebbero un fatto meritevole di pena, mentre le condizioni obiettive di punibilità lo renderebbero anche bisognoso di pena.

Dovrebbero considerarsi elementi costitutivi, dunque, tutti gli accadimenti che attengono alla offesa del bene protetto e accentrano in sè l’offensività del fatto, perchè in difetto di questi il fatto non potrebbe essere sussunto nel reato; dovrebbero invece al contrario considerarsi condizioni obiettive di punibilità quegli accadimenti che arricchiscono la sera dell’offesa del reato.

Questi, infatti, pur non attendendo alla sfera dell’offesa del bene protetto, non accentrano in sè tutta la offensività del fatto ma comprobano solo un ulteriore aggravamento, una progressione dell’offesa tipica.

Tracciate queste premesse, è possibile indicare le diverse soluzioni date in dottrina alla vicenda di cui in parola.

Da un lato figura la tesi di chi nega fermamente la possibilità di ricondurre le soglia di penale rilevanza agli elementi costitutivi in termini di evento. Secondo questa ricostruzione l’accadimento in parola consisterebbe di un fatto che è riconducibile a un momento antecedente o comunque coincidente con la presentazione della dichiarazione e quindi in nessun caso potrebbe tradursi in un evento, che di regola è successivo alla condotta sanzionato.

Ciononostante altra dottrina ha ritenuto possibile qualificare le dette soglie di punibilità come elementi costitutivi del reato. Hanno rilevato a favore della tesi della natura di elementi costitutivi del reato i seguenti argomenti.

In primo luogo si è fatta valere la considerazione che il superamento delle soglie non è un fatto estraneo alla volontà e all’azione dell’autore, come dovrebbe essere se fosse stato una condizione obiettività di punibilità.

In secondo luogo è stato ritenuto rilevante la circostanza che l’evasione è un fatto che avviene necessariamente ed esclusivamente a mezzo della presentazione della dichiarazione, che consiste a sua volta del momento di consumazione del reato di cui in parola. A ritenere così appare chiaro che l’evasione costituisce un fatto costituente il reato, che non potrebbe mai appartenere a una realtà diversa, a una finalità esterna, alla stregua dell’elemento soggettivo del dolo specifico.

Tale orientamento è quello che riscontra più adesioni in giurisprudenza. Tuttavia altre e non irrilevanti considerazioni deporrebbero per considerare le soglie di penale rilevanza come condizioni obiettive di punibilità, con buona pace del dolo specifico, e non come elementi costitutivo.

In particolare è vero che dichiarazione ed evasione nell’economia della norma e nella realtà naturalistica coincidono, ciò comportando la sussunzione dell’evasione, astratta e poi successivamente concreta, tra gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice; ma è anche necessario che l’interprete tenga fede al tenore letterale della fattispecie.

Il legislatore nell’art. 2 co. 1 lett. a) non fa riferimento alla evasione dell’imposta, ma alla imposta evasa. La differenza che passa tra le espressioni “l’imposta evasa” e “l’evasione della imposta” è esplicativa di una certa intenzionalità del legislatore che sembra deporre verso la rilevanza di un aspetto piuttosto che di un altro. In specie l’utilizzo di questa espressione sembra porre in primario rilievo non il fatto della evasione ma il fatto della quantità della evasione, che inerisce non alla offensività ma al grado di offensività.

La costruzione del periodo nei termini di “imposta evasa superiore a” non solo riflette adeguatamente la realtà delle soglie di penale rilevanza, ma soprattutto esprime la volontà del legislatore di considerare il core della fattispecie non nella evasione quanto nella falsa dichiarazione, che abbia però comportato come effetto di avere raggiunto una data quantità di (maggiore e illecito) risparmio di spesa per il contribuente.

La maggiore condivisibilità di un siffatto ragionare tra l’altro deriverebbe anche dalla maggiore coerenza con il dato legislativo complessivamente inteso. Solo interpretando così le soglie di penale rilevanza si consentirebbe alla norma di non tradire l’intentio legis del legislatore, che ha costruito espressamente il dolo come dolo specifico e non come generico. Solo così, insomma, si assicurerebbe alla norma di essere compiutamente sincera e non indicativa di una realtà ed espressiva di un’altra.

Il trattamento sanzionatorio è stato poi modificato dalla l. 157 del 2019 che ha modificato la pena: la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni è stata sostituita con la pena della reclusione da 3 a 8 anni.


3.3 Dichiarazione infedele (art. 4)

Co. 1 Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:

a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro 100.000;

b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro due milioni.

Co. 1-bis. Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali.

Co. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b).

Si tratta di un delitto proprio, di pericolo astratto, di condotta, a forma vincolata, di dolo generico.

Si tratta di un delitto proprio perchè è realizzabile solo dai soggetti tenuti alla presentazione della dichiarazione annuale sui redditi o sull’IVA e contestualmente obbligati al versamento delle dette imposte.

Si tratta di un delitto di condotta. La condotta si articola in due momenti diversi: il primo consiste nella presentazione di una dichiarazione annuale IVA o dei redditi che rechi elementi attivi inferiori a quelli effettivi ovvero elementi passivi non più fittizi ma inesistenti a seguito della novella del 2015; il secondo è espresso dal mancato versamento dell’imposta dovuta secondo le soglie dovute dallo stesso art. 4, oggetto dell’intervento del legislatore del 2015.

Ne deriva che la fattispecie si consuma quando vi sia una falsità ideologica non suffragata da fatture per operazioni inesistenti o dal contestuale utilizzo di operazioni inesistenti, documenti falsi o mezzi fraudolenti tesi a celare il mendacio.


3.4 Omessa dichiarazione (art. 5)

Co. 1 È punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila.

Co. 1-bis. È punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d'imposta, quando l'ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro cinquantamila.

Co. 2. Ai fini della disposizione prevista dai commi 1 e 1-bis non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.

Si tratta di un delitto proprio, in specie un delitto di mano propria, di pericolo, di condotta e a dolo specifico.

Si tratta di un delitto proprio, di mano propria, perchè il legislatore è quanto mai chiaro. Questi qualifica come possibile autore solo colui che non presenta una delle dichiarazioni in parola, essendovi obbligato. Se ne fa derivare che l’unico soggetto che si può rendere autore è chi è gravato dal debito tributario.

In questo senso, d’altronde, si pone anche la giurisprudenza di legittimità. Cassazione Sez. III 17 luglio 2014 n. 42000 ha infatti chiarito che la dichiarazione dei redditi non è un compito delegabile a terzi. Secondo la Corte di Cassazione infatti “qualora l’incarico ad altri di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi fosse sufficiente ad esonerare il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione si finirebbe inammissibilmente per modificare l’obbligo di presentazione originariamente previsto per il delegante in mera attività di controllo sull’adempimento da parte del soggetto delegato”.

Si tratta di un delitto di condotta perchè esso si realizza in presenza di due circostanze: il soggetto obbligato omette di presentare entro novanta giorni dalla scadenza prevista dalla normativa fiscale la dichiarazione in materia di redditi o di IVA e non abbia proceduto al pagamento dell’imposta dovuta oltre la soglia richiamata dalla fattispecie.

In ordine all’elemento soggettivo, stante la ripetizione della stessa locuzione normativa, “al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto”, si ripropongono le medesime questioni viste con riferimento all’art. 3.

Ad ogni modo la giurisprudenza è abbastanza consolidata nel ritenere che possa dirsi integrato l’elemento soggettivo del reato quando l’obbligato abbia la coscienza e la volontà di omettere il versamento dell’imposta dovuta entro il termine prescritto nonché di astenersi dalla presentazione della dichiarazione annuale entro il termine penalmente rilevante, coincidente con i novanta giorni successivi alla scadenza prevista.

La l. 157 del 2019, intervenuta a modifica della disposizione, prevede un aggravamento del trattamento sanzionatorio. Il minimo edittale è raddoppiato perchè è portato a due anni e il massimo edittale è elevato a cinque.


3.5 Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10 bis)

È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquanta mila euro per ciascun periodo di imposta.

Si tratta di un delitto proprio, di pericolo, di pura omissione e a dolo generico.

La vicenda si riferisce a fenomenologia ben circoscritta.

La sostituzione di imposta, infatti, è uno strumento impositivo con il quale l'Amministrazione finanziaria, in luogo della riscossione dell'imposta direttamente dal percettore del reddito, incassa il tributo da un altro soggetto, ovvero quello che eroga gli emolumenti, il quale assume la qualifica di "sostituto" d'imposta in quanto tenuto al pagamento in luogo dell'altro (normale soggetto passivo, c.d. "sostituito"), sotto forma di prelievo di una percentuale (c.d. "ritenuta alla fonte") della somma oggetto di erogazione (costituente reddito) e del suo successivo versamento all'Erario (in genere con cadenza mensile).

L'istituto ha la sua ragion d'essere nell'esigenza pratica di colpire la ricchezza da tassare nel momento della produzione, prima ancora che la stessa giunga nella disponibilità del destinatario e si applica, in base a quanto stabilito dal Titolo III del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ad una platea di soggetti comprendente gli enti pubblici, gli istituti di credito, i soggetti esercenti attività di impresa, ovvero artistica e professionale, che corrispondono redditi di lavoro dipendente o assimilati, redditi di lavoro autonomo, redditi di capitale, provvigioni inerenti a rapporti di commissione, agenzia, mediazione, rappresentanza di commercio e procacciamento d'affari o redditi diversi.

L'operatività del meccanismo di sostituzione d'imposta comporta l'adempimento di determinati obblighi strumentali a carico del sostituto, il quale deve essenzialmente: provvedere, entro scadenze predeterminate (precisamente entro il 16 del mese successivo a quello in cui le somme sono state corrisposte), al versamento in favore dell'Erario degli importi delle ritenute operate alla fonte; rilasciare al sostituito (entro il 31 marzo dell'anno successivo a quello di erogazione delle somme) una "certificazione unica" (CU) attestante l'ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate (in modo da permettere al soggetto passivo di documentare e di dimostrare il prelievo subito), delle detrazioni di imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali; trasmettere in via telematica detta certificazione all'Agenzia delle Entrate entro il 7 marzo sempre dell'anno successivo; presentare infine la dichiarazione annuale unica di sostituto d'imposta (mod. 770) dalla quale risultino tutte le somme pagate e le ritenute operate nell'anno precedente.

La fattispecie merita un approfondimento dal punto di vista storico considerate le molteplici modifiche normative oltre che le rilevanti pronunce delle alte magistrature dell’ordinamento.

Il primo assetto organico del sistema sanzionatorio penale tributario è contenuto nel decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516. In particolare, con riguardo alle condotte illecite attribuibili al sostituto di imposta, l’art. 2 aveva previsto una disciplina sanzionatoria articolata in reati di natura sia contravvenzionale (art. 2, comma 1, numeri 1, 2 e 3), sia delittuosa (art. 2, comma 2).
Accanto alle contravvenzioni di omessa e infedele dichiarazione del sostituto di imposta (con la previsione di differenti soglie di punibilità), l’art. 2, comma 2, sanzionava con la reclusione da due mesi a tre anni e con la multa da un quarto alla metà della somma non versata, chiunque non pagava all’erario le «ritenute effettivamente operate» a titolo di acconto o di imposta sulle somme pagate.

La disciplina penale recata dall’art. 2 del d.l. n. 429 del 1982, come convertito, era stata, poi, novellata dall’art. 3 del decreto-legge 16 marzo 1991, n. 83 (Modifiche al decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, in materia di repressione delle violazioni tributarie e disposizioni per definire le relative pendenze), convertito, con modificazioni, nella legge 15 maggio 1991, n. 154.

Pur mantenendo ferma la previsione dell’omessa dichiarazione annuale del sostituto di imposta, quale illecito penale di natura contravvenzionale, la novella aveva disciplinato l’omesso versamento delle ritenute secondo due distinte fattispecie incriminatrici.

La prima, di natura contravvenzionale, prevista al comma 2 del novellato art. 2, del d.l. n. 429 del 1982, come convertito, con cui si sanzionava, con la pena dell’arresto fino a tre anni o con l’ammenda fino a lire sei milioni, l’omesso versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di ritenute alle quali il sostituto di imposta era obbligato per legge relativamente a somme pagate per un ammontare complessivo per ciascun periodo di imposta superiore a cinquanta milioni di lire.

La seconda, di natura delittuosa, prevista al comma 3, secondo cui: «Chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare complessivo superiore a lire venticinque milioni per ciascun periodo d’imposta, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire tre milioni a lire cinque milioni; se il predetto ammontare complessivo è superiore a dieci milioni di lire ma non a venticinque milioni di lire per ciascuno periodo d’imposta si applica la pena dell’arresto fino a tre anni o dell’ammenda fino a lire sei milioni».

Allo stesso tempo, la condotta veniva sanzionata anche in via amministrativa per effetto dell'art. 13, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, attesa l'introduzione di una specifica previsione in tal senso riguardante i versamenti tributari in generale dovuti «alle prescritte scadenze».

Su tale assetto sanzionatorio è, poi, intervenuto il d.lgs. n. 74 del 2000, adottato in attuazione dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), che aveva conferito la delega al Governo «per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario». Tale nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto ha, in via generale, limitato la rilevanza penale delle fattispecie in materia tributaria alle sole condotte caratterizzate da un comportamento fraudolento, richiedendo un quid pluris rispetto al semplice sottrarsi all’obbligazione tributaria; con ciò non prevedendo fattispecie incriminatrici concernenti il sostituto di imposta.

Le nuove fattispecie incriminatrici, introdotte dagli artt. da 2 a 5 del d. lgs. n. 74 del 2000, non hanno riguardato comportamenti del sostituto di imposta e, quindi, il comportamento consistente nell’omesso versamento delle ritenute è risultato depenalizzato, rimanendo sanzionato sul solo piano amministrativo, ai sensi degli artt. 13 e 14 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante «Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662».

L’art. 1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)», ha arricchito il catalogo dei reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 introducendo l’art. 10-bis che prevede il delitto di omesso versamento delle ritenute secondo la seguente formulazione: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta». La norma della finanziaria del 2005 ha, in sostanza, reintrodotto, sia pure con alcune modifiche, il delitto di omesso versamento di ritenute certificate, già disciplinato dall’art. 2, comma 3, del d.l. n. 429 del 1982, come convertito, e come sostituito dalla novella di cui al d.l. n. 83 del 1991, come convertito, lasciando però immuni da sanzione penale i casi di mancato versamento all’erario di ritenute che non fossero state certificate.

Successivamente, con la legge n. 23 del 2014, il Parlamento ha conferito un’ampia delega al Governo finalizzata a ridisegnare l’ordinamento tributario per «un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita». In attuazione di tale delega, l’art. 7, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 158 del 2015 ha modificato la previsione di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, rispettivamente nella rubrica e nella descrizione della fattispecie, che ora reca la seguente formulazione «è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta».

A parte l'innalzamento della soglia della rilevanza penale, appare dunque evidente l'elemento differenziale nelle due versioni della norma: mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole «ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti» (quindi il CUD o CU); post 2015 la norma appare operare anche, ed alternativamente, il riferimento alle «ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione» (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770).

Da ultimo è intervenuta la Corte Costituzionale che, con pronuncia n. 175 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in parola nella parte in cui prevede “ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione”, per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., oltre che con l’art. 25 co. 2 Cost.

Con questa pronuncia la Consulta ha censurato la scelta del legislatore delegato di inserire le parole «dovute sulla base della stessa dichiarazione o» nella fattispecie incriminatrice del delitto di omesso versamento delle ritenute di cui all’art.10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 perchè contrasta con gli artt. 25, secondo comma, 76 e 77, primo comma, Cost., non essendo sorretta dai principi e dai criteri direttivi della delega legislativa.

Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale, come indicato nel testo della pronuncia della Consulta, viene a essere ripristinato il regime vigente prima del d.lgs. n. 158 del 2015, che ha introdotto la disposizione censurata.

Pertanto da una parte l’integrazione della fattispecie penale dell’art. 10-bis richiede il mancato versamento da parte del sostituto, per un importo superiore alla soglia di punibilità, riguardi le ritenute certificate; dall’altra il mancato versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione, ma delle quali non c’è prova del rilascio delle relative certificazioni ai sostituiti, costituisce illecito amministrativo tributario.



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