Il reato di lesioni personali: profili sostanziali e questioni applicative
- Avvocato Del Giudice
- 5 apr
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Aggiornamento: 3 set

Indice:
1. Il bene giuridico tutelato
L’art. 582 c.p. incrimina chiunque cagioni ad altri una lesione personale dalla quale derivi una malattia nel corpo o nella mente.
La formula legislativa sembra evocare la mera integrità fisica, ma la dottrina più autorevole ha da tempo chiarito che il bene protetto è più ampio e coincide con la incolumità individuale.
Con questa espressione si designa non soltanto l’integrità anatomica della persona, ma l’insieme delle condizioni che assicurano il normale svolgimento delle funzioni vitali, tanto sul piano fisico quanto su quello psichico.
La nozione di incolumità individuale trova oggi il suo fondamento sistematico nell’art. 32 Cost., che tutela la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Ne discende che l’art. 582 non protegge solo l’assenza di menomazioni corporee, ma la salute in senso dinamico, intesa come complessivo equilibrio psicofisico della persona.
Fiandaca–Musco sottolineano che il reato di lesioni personali rappresenta uno degli strumenti principali attraverso cui il diritto penale si pone a presidio della garanzia costituzionale della salute, realizzando una tutela penale anticipata e personalistica.
L’incolumità tutelata dall’art. 582 c.p. è individuale, ossia riferita a un soggetto determinato, e si distingue dall’incolumità pubblica (artt. 422 ss. c.p.), che riguarda un numero indeterminato di persone (es. disastri, epidemie).
La distinzione ha rilievo sistematico perché consente di delimitare il campo delle lesioni personali, circoscrivendolo all’offesa individuale e immediata, e di evitare sovrapposizioni con le figure di reato a pericolo comune.
Elemento qualificante della fattispecie è il riferimento alla condotta “cagionata ad alcuno”: la norma presuppone dunque un soggetto passivo diverso dall’agente. Restano escluse le autolesioni, salvo che assumano rilievo in altre incriminazioni (es. frode assicurativa ex art. 642 c.p.; reati di autolesionismo previsti nei codici penali militari).
Secondo Basile, questa esclusione riflette una scelta di politica criminale coerente: lo Stato non punisce l’offesa che il singolo arreca a sé stesso, a meno che questa non aggredisca interessi ulteriori (ordine pubblico, buon costume, patrimonio assicurativo).
La previsione espressa della “malattia nella mente” conferma che il bene giuridico non si esaurisce nella sfera corporea, ma si estende al funzionamento psichico della persona.
La dottrina evidenzia come ciò anticipi una concezione unitaria e integrata della salute, che solo decenni più tardi sarà consacrata dalla bioetica e dal diritto internazionale dei diritti umani.
Mantovani osserva che la categoria dell’“incolumità individuale” rischia di essere troppo ampia e indeterminata, al punto da sovrapporsi alla salute costituzionale. Tuttavia, questa ampiezza è necessaria per mantenere la fattispecie elastica e capace di adattarsi a evoluzioni scientifiche (si pensi ai disturbi psichici riconosciuti solo in tempi recenti).
Basile, in chiave più sistematica, propone di leggere l’art. 582 come norma di garanzia dell’autodeterminazione corporea, collocata in posizione intermedia tra la tutela patrimoniale del corpo (artt. 575 ss.) e le forme di libertà personale (art. 610 c.p.).
2. L’elemento oggettivo
L’art. 582 c.p. si presenta come un tipico reato d’evento: ciò che rileva non è tanto la modalità della condotta, quanto il risultato che da essa scaturisce.
È sufficiente che il comportamento dell’agente – che può assumere le forme più varie, dall’azione all’omissione – provochi una malattia nel corpo o nella mente. Non è quindi necessario immaginare sempre l’aggressione fisica nel senso classico, lo schiaffo o il pugno: la giurisprudenza ha riconosciuto la configurabilità del reato anche in casi meno intuitivi, come l’esposizione deliberata della vittima a condizioni ambientali nocive (il freddo intenso), la somministrazione di sostanze tossiche, l’induzione ipnotica, la narcotizzazione, fino a giungere all’inoculazione di stupefacenti.
Il vero cuore della fattispecie non è dunque il “come”, ma il “che cosa”: la malattia. È questo l’evento tipico su cui si misura l’offensività della condotta.
2.1 La nozione di “malattia” tra estensione giurisprudenziale e correzioni dottrinali
Per decenni la giurisprudenza di legittimità ha adottato un concetto estensivo e inclusivo di malattia.
Sulla scia della Relazione ministeriale al progetto del codice Rocco, la malattia è stata definita come qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, anche di lieve entità, se accompagnata da un processo di reintegrazione.
In questa prospettiva, sono state ricondotte alla categoria della malattia anche manifestazioni di minima rilevanza clinica, quali:
ecchimosi e infiltrazioni ematiche sottocutanee (Cass., 22 marzo 2010, Apicella);
ematomi e contusioni lievi (Cass., 11 giugno 1985, Bellomo);
escoriazioni e soluzioni di continuo superficiali (Cass., 26 aprile 2010, Esposito).
L’effetto pratico è stato quello di ampliare la sfera del penalmente rilevante: anche alterazioni passeggeri, guaribili in pochi giorni, sono state inquadrate come malattia, con la conseguente applicazione dell’art. 582 piuttosto che dell’art. 581 c.p.
La dottrina penalistica e medico-legale non ha mancato di sottolineare i limiti di questa concezione così ampia della malattia.
Il primo rilievo riguarda il rapporto con l’art. 581 c.p.: se ogni minima alterazione anatomica fosse sufficiente a integrare il requisito della malattia, la fattispecie delle percosse rischierebbe di restare priva di contenuto.
In fondo, quasi ogni atto di violenza sul corpo, anche il più lieve, lascia una traccia visibile — un eritema, un graffio, una piccola ecchimosi — che, seguendo l’impostazione tradizionale, basterebbe per parlare di lesione.
Non meno problematiche sono le conseguenze applicative di tale impostazione. Si è osservato, con argomenti non privi di ironia, che una cicatrice superficiale, pur se inoffensiva e meramente estetica, essendo indelebile potrebbe essere qualificata come “malattia insanabile” ai sensi dell’art. 583, comma 2, n. 1 c.p., con un salto sanzionatorio sproporzionato rispetto alla reale offensività del fatto (così Leoncini).
Infine, il punto forse più delicato: lo scollamento rispetto al linguaggio medico. La medicina intende la malattia come un processo morboso in evoluzione, accompagnato da una compromissione delle funzioni dell’organismo. La definizione giurisprudenziale, invece, finiva per ridurre tutto a una mera alterazione anatomica statica, anche priva di conseguenze funzionali. Ne derivava un’evidente frattura con la communis opinio scientifica, come hanno rimarcato con forza Galiani, Antolisei e Basile.
Da qui la proposta, oggi ampiamente condivisa, di restringere la nozione penalmente rilevante di malattia a quelle situazioni che presentino una menomazione funzionale clinicamente apprezzabile, escludendo invece i fenomeni di natura puramente estetica o passeggera, destinati a riassorbirsi senza alcun impatto sulla salute della persona.
A partire dalla fine degli anni ’90, la Cassazione ha progressivamente corretto la rotta. In pronunce come Cass. 15 ottobre 1998, Rocca e Cass. 28 ottobre 2004, Perna, e soprattutto con l’intervento delle Sezioni Unite Giulini (2009), si è affermato un concetto più rigoroso:
la malattia non coincide con ogni minima alterazione,
richiede una riduzione apprezzabile della funzionalità,
deve configurarsi come processo morboso in evoluzione, destinato a concludersi con la guarigione, l’adattamento a nuove condizioni o, nei casi estremi, la morte.
In altre parole, l’evento tipico è la compromissione dinamica della salute, non la semplice modificazione anatomica.
In questa direzione, a titolo esemplificativo:
non costituisce malattia un’asimmetria estetica del seno post-intervento, se priva di ripercussioni funzionali (Cass., 14 novembre 1996, Franciolini).
costituisce malattia un processo infiammatorio post-chirurgico con febbre e necessità di rimozione di protesi (Cass., 28 ottobre 2004, Perna).
costituiscono malattia le difficoltà respiratorie anche di breve durata, perché incidono sul funzionamento dell’apparato respiratorio (Cass., 15 ottobre 1998, Rocca).
2.4 La malattia nella mente
Per espressa previsione normativa, l’evento può consistere anche in una malattia psichica. La giurisprudenza ha ricompreso nel concetto:
lo shock cerebrale post-traumatico;
la depressione reattiva insorta dopo un’aggressione;
l’ansia, le vertigini, le palpitazioni e altri disturbi neurovegetativi;
persino lo svenimento o l’offuscamento temporaneo delle facoltà cognitive.
Resta invece esclusa la c.d. nevrosi da scopo, dove l’alterazione non è conseguenza del trauma ma di una strategia consapevole della vittima per ottenere vantaggi risarcitori o assicurativi (Cass., 5 giugno 1963, Gallini).
L’accertamento richiede sempre una verifica causale rigorosa, con il supporto delle scienze mediche e psicologiche, per evitare indebite estensioni di responsabilità penale.
2.5 La durata della malattia: lesioni lievissime, lievi, gravi e gravissime
La questione della durata della malattia rappresenta uno dei nodi più delicati dell’art. 582 c.p., non soltanto perché da essa dipende la gravità della lesione e quindi l’entità del trattamento sanzionatorio, ma anche perché costituisce il parametro tecnico cui si aggancia la disciplina della procedibilità e della competenza.
Il legislatore, in maniera apparentemente semplice, distingue tre soglie temporali: le lesioni lievissime, guaribili entro venti giorni; le lesioni lievi, di durata compresa tra ventuno e quaranta giorni; e le lesioni gravi o gravissime, che superano tale soglia o che presentano gli indici qualificanti previsti dall’art. 583 c.p. (pericolo di vita, indebolimento permanente di un senso o di un organo, deformazioni, ecc.). Dietro questa scansione, tuttavia, si nasconde un terreno complesso, nel quale diritto e medicina faticano a parlare lo stesso linguaggio.
La Cassazione, nel tempo, ha oscillato tra due diversi criteri di calcolo. Da un lato, vi è il criterio funzionale-clinico, che lega la cessazione della malattia al momento in cui la vittima recupera la piena capacità funzionale, cioè quando le menomazioni fisiche o psichiche non impediscono più lo svolgimento delle normali attività quotidiane. È un approccio che guarda alla salute come bene dinamico, ancorato alla capacità dell’organismo di tornare al suo equilibrio.
Dall’altro lato, si è affermato in più di una decisione un criterio radiologico-formale, in particolare per le fratture ossee: in questa prospettiva, la malattia non si considera cessata fino a quando non si è consolidato il callo osseo, indipendentemente dal fatto che il soggetto, di fatto, abbia già recuperato buona parte della funzionalità.
Questo approccio tende a privilegiare la documentazione medico-legale e i referti radiografici, riducendo al minimo la discrezionalità valutativa del giudice.
Il contrasto non è di poco conto. Se si adotta il criterio funzionale, la durata può essere più breve, in quanto non necessariamente occorre attendere il consolidamento anatomico della lesione. Se, invece, si adotta il criterio radiologico, i tempi di guarigione risultano sensibilmente più lunghi, con il rischio di far “scivolare” automaticamente molte ipotesi nella fascia delle lesioni gravi, con conseguenze sanzionatorie e processuali non indifferenti.
A complicare il quadro vi è il tema della convalescenza.
Non di rado il soggetto, pur avendo recuperato la funzionalità essenziale, rimane per un certo tempo in uno stato di ridotte energie, con necessità di riposo o limitazioni nelle attività quotidiane.
La giurisprudenza ha riconosciuto che anche tale fase può essere computata nella durata della malattia, ma solo a condizione che essa si traduca in una reale menomazione delle forze organiche e non in un generico periodo di cautela o prudenziale astensione dal lavoro.
In altri termini, la convalescenza è rilevante quando è ancora segno di una compromissione clinica, non quando è semplice precauzione.
È evidente che questa oscillazione non è soltanto tecnica, ma incide profondamente sul principio di determinatezza e sul rispetto dell’offensività.
Una definizione troppo “radiologica” della durata rischia di trasformare un fatto di scarsa gravità in un reato di ben altra consistenza, mentre una definizione eccessivamente “funzionale” potrebbe sottovalutare gli strascichi di alcune patologie.
Non a caso, parte della dottrina (Basile in particolare) invita a leggere la durata come categoria funzionale e dinamica, in coerenza con l’art. 32 Cost. e con l’idea di salute come equilibrio psicofisico complessivo, senza cedere alla tentazione di farne un parametro puramente tecnico o burocratico.
In questo senso, il calcolo dei giorni non può mai ridursi a un dato aritmetico: è una valutazione medico-legale che deve essere filtrata dal giudice alla luce dei principi di colpevolezza e proporzionalità, così da evitare che la qualificazione giuridica dipenda solo da un referto o da una lastra, ma rifletta realmente l’offensività della condotta.
2.6 Il nesso causale
Il tema del nesso causale nelle lesioni personali apre una delle questioni più raffinate dell’intera dogmatica penalistica, perché mette a confronto la rigidità della regola condizionalistica con la necessità di filtrare l’imputazione dell’evento attraverso criteri di ragionevolezza e colpevolezza.
In linea di principio, l’art. 40 c.p. stabilisce che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione”. La formula è classica: la condotta deve porsi come condizione necessaria dell’evento secondo il criterio della condicio sine qua non. A sua volta, l’art. 41 c.p. conferma che il concorso di cause non interrompe il nesso, salvo che si tratti di un fatto sopravvenuto, da solo sufficiente a determinare l’evento.
Applicata alle lesioni personali, questa regola comporta che il responsabile non può sottrarsi all’imputazione dell’evento invocando la presenza di concause fisiologiche. Se l’offesa ha colpito un organismo già debilitato, o ha riattivato una patologia latente, ciò non spezza il nesso ma semmai aggrava la posizione dell’agente, secondo il noto brocardo “qui vulnerat debilem, facit eum debiliorem”.
Così, chi provoca una caduta a un anziano cagionandogli una frattura, non può eccepire che un giovane non avrebbe subito la stessa conseguenza: l’ordinamento tutela la vittima nella sua individualità concreta, con le fragilità che la contraddistinguono.
Analogo discorso vale per gli errori diagnostici o terapeutici dei sanitari, quando non connotati da dolo o colpa grave. La giurisprudenza costante ritiene che il comportamento del medico, anche se improntato a imperizia o negligenza lieve, non valga a interrompere il nesso causale. L’agente resta responsabile perché la sua condotta iniziale è stata condizione necessaria dell’evento finale, e le complicanze terapeutiche si innestano fisiologicamente sul quadro lesivo originario. Solo quando l’intervento medico si configura come del tutto anomalo e macroscopicamente scorretto – espressione di colpa grave o di dolo – esso assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente, con effetto interruttivo.
Un ulteriore profilo riguarda il rifiuto di cure da parte della vittima. È noto il caso del testimone di Geova che rifiuta la trasfusione di sangue: la Cassazione ha escluso che tale scelta interrompa il nesso causale, ponendo a carico dell’agente l’evento letale o lesivo conseguente. In questi casi, la condotta del soggetto passivo non integra un comportamento anomalo o eccentrico, ma si inscrive nella libertà costituzionalmente garantita di autodeterminarsi in campo sanitario. Diversamente opinando, si introdurrebbe una discriminazione tra vittime “forti” e vittime “deboli”, in contrasto con il principio di eguaglianza.
Più complessa è la valutazione dei comportamenti negligenti della vittima nella gestione della malattia: ad esempio, il paziente che non osserva le prescrizioni mediche o che sottovaluta sintomi di aggravamento. Anche qui la giurisprudenza mostra un orientamento rigoroso: simili condotte, pur potendo concorrere causalmente, non sono di regola da sole sufficienti a determinare l’evento, e dunque non spezzano il nesso. L’imputazione resta ferma all’autore della condotta lesiva iniziale.
Il filo conduttore è chiaro: il nesso causale nelle lesioni personali si mantiene saldo, e solo un fattore sopravvenuto eccezionale e abnorme, dotato di piena autonomia eziologica, può considerarsi causa esclusiva dell’evento, liberando l’agente da responsabilità. È in questa direzione che il diritto penale recepisce le acquisizioni della teoria dell’imputazione oggettiva, senza discostarsi dalla lettera degli artt. 40–41 c.p., ma valorizzando il principio di colpevolezza e la funzione di garanzia della tipicità.
3. L'elemento soggettivo
Il profilo dell’elemento soggettivo nelle lesioni personali costituisce uno snodo fondamentale, perché segna il punto d’incontro – e spesso di tensione – tra dogmatica penalistica, principio di colpevolezza e prassi giurisprudenziale.
Per lungo tempo, l’orientamento dominante della Cassazione si è attestato su una ricostruzione semplificata: era ritenuto sufficiente che l’agente avesse il dolo di aggredire fisicamente la vittima, mentre l’evento malattia veniva imputato sul piano meramente causale. In questa prospettiva, bastava il proposito di “colpire” qualcuno, a prescindere dalla rappresentazione e volizione delle conseguenze patologiche, perché ogni esito lesivo fosse automaticamente ricondotto a dolo. L’elemento soggettivo si appiattiva così sul dato della “manomissione” corporea, e la malattia era relegata a mero post-factum.
Già in dottrina, però, si era fatta strada una critica severa a tale ricostruzione.
Autori come Antolisei, Basile e Fiandaca–Musco avevano sottolineato come questa impostazione tradisse il principio di colpevolezza sancito dall’art. 27, co. 1, Cost., che impone di accertare almeno la colpa per tutti gli elementi essenziali del fatto tipico.
Attribuire la malattia in via automatica, senza verificare la rappresentazione soggettiva dell’agente, significava scivolare in una forma di responsabilità oggettiva, da tempo bandita dal nostro ordinamento.
La svolta decisiva è arrivata con la sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale, che ha posto un argine netto a queste derive: l’agente non può essere chiamato a rispondere per un evento che non abbia in alcun modo previsto né potuto prevedere. Anche nell’art. 582 c.p., dunque, l’evento malattia deve entrare nel raggio della colpevolezza, quanto meno a titolo di colpa.
Questo principio è stato ripreso e definitivamente consolidato dalle Sezioni Unite Giulini (2009).
In quella occasione la Corte ha chiarito che la malattia non è un mero corollario della condotta, ma l’evento tipico che integra la fattispecie. Conseguentemente, essa deve essere oggetto del dolo: l’agente deve averla prevista e voluta, o almeno accettata come possibile sviluppo della propria azione (dolo eventuale).
La decisione ha dunque segnato la fine del paradigma tradizionale e ha riallineato la lettura della norma al principio costituzionale di colpevolezza.
Le conseguenze applicative sono tutt’altro che marginali.
Se l’agente intende “solo percuotere” – cioè limitarsi a colpire senza rappresentarsi un processo morboso – ma in concreto provoca una malattia, non potrà rispondere di lesioni volontarie. In tal caso, la sua responsabilità penale sarà ridimensionata: per il gesto violento risponderà di percosse (art. 581 c.p.), mentre per la malattia cagionata, se riconducibile a colpa, potrà rispondere di lesioni colpose ai sensi dell’art. 586 c.p., che disciplina l’ipotesi di lesioni come conseguenza non voluta di altro delitto doloso.
Questa ricostruzione, oggi consolidata, ha il merito di eliminare ogni residuo di responsabilità oggettiva, restituendo al dolo il suo ruolo pieno: quello di un atteggiamento psichico che deve investire tutti gli elementi costitutivi del reato. Ma essa ha anche una valenza più ampia, perché ribadisce che l’art. 582 non è un reato “da presunzione”, bensì una fattispecie che richiede un vero e proprio accertamento soggettivo, in linea con le esigenze di tassatività e di offensività.
4. Procedibilità e competenza
Il tema della procedibilità e della competenza nel reato di lesioni personali ha conosciuto negli ultimi anni una vera e propria rivoluzione, segnata prima dall’intervento della Riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022) e poi dal correttivo del 2024 (d.lgs. 31/2024).
Per lungo tempo la disciplina era frammentata e complessa, con continui contrasti interpretativi legati al rapporto tra durata della malattia, aggravanti e regole sulla procedibilità. L’obiettivo dichiarato della riforma è stato proprio quello di ridurre l’area della procedibilità d’ufficio, riservandola ai soli casi in cui l’interesse pubblico alla repressione appare davvero prevalente, e di devolvere al Giudice di pace le ipotesi meno gravi, alleggerendo così il carico dei tribunali ordinari.
4.1 La regola generale: querela di parte
Oggi, la linea guida è chiara: tutte le lesioni guaribili entro quaranta giorni sono procedibili a querela.
Questo spostamento ha segnato un cambio di paradigma rispetto alla tradizione, che in passato prevedeva d’ufficio le lesioni oltre i venti giorni.
La riforma ha dunque restituito alla persona offesa un ruolo centrale nella scelta di attivare o meno il procedimento penale, coerente con la logica di deflazione processuale e di valorizzazione dell’autonomia privata introdotta dal legislatore.
4.2 Le eccezioni: i casi di procedibilità d’ufficio
La querela non è però sempre necessaria.
Restano procedibili d’ufficio:
le lesioni gravi e gravissime di cui all’art. 583 c.p.;
le ipotesi aggravate dall’uso di armi, dalla minorata difesa della vittima o da altre circostanze previste dall’art. 585 c.p., salvo le eccezioni legate ai rapporti familiari e parafamiliari, in cui prevale la logica di protezione del vincolo affettivo;
le lesioni commesse ai danni di esercenti professioni sanitarie e sociosanitarie, ai sensi dell’art. 583-quater, comma 2 c.p. La novità qui è significativa: dopo le modifiche introdotte dal d.l. 34/2023, convertito in l. 56/2023, e recepite dal correttivo 2024, anche le lesioni non gravi in danno dei sanitari sono oggi procedibili d’ufficio, a conferma della volontà politica di rafforzare la tutela degli operatori di un settore sempre più esposto a episodi di aggressione.
4.3 La disciplina transitoria
Non va dimenticata la norma transitoria prevista dal d.lgs. 150/2022: per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma (30 dicembre 2022), il termine per proporre querela decorreva comunque da quella data, garantendo così l’applicazione retroattiva della disciplina più favorevole.
Un aspetto che ha inciso in numerosi processi pendenti, consentendo di rimettere in discussione procedimenti che, fino a quel momento, si ritenevano automaticamente procedibili d’ufficio.
4.4 La competenza: il ruolo del Giudice di pace
Sul piano della competenza, il punto fermo è stato posto dalle Sezioni Unite, sent. 28 marzo 2024, n. 12759, che hanno chiarito un contrasto ormai decennale.
La questione riguardava le lesioni con prognosi compresa tra i ventuno e i quaranta giorni, procedibili a querela: spettava al Giudice di pace o al Tribunale monocratico?
Le SU hanno scelto la strada della coerenza sistematica: se la regola generale è la procedibilità a querela per tutte le lesioni fino a quaranta giorni, allora è naturale che la competenza appartenga al Giudice di pace in entrambe le ipotesi, sia per quelle di durata inferiore o pari a venti giorni, sia per quelle comprese tra ventuno e quaranta. Solo quando la lesione è procedibile d’ufficio, la competenza resta in capo al Tribunale.
5. Rapporti con altre figure di reato
Il tema dei rapporti tra il delitto di lesioni personali e le altre figure criminose occupa da sempre un terreno di confine che la giurisprudenza è chiamata a presidiare con particolare attenzione, al fine di evitare sia indebite duplicazioni sanzionatorie sia zone di impunità.
5.1 Lesioni personali e percosse (art. 581 c.p.)
Il discrimine classico è quello tra mera percossa e malattia. La percossa si esaurisce in un atto di violenza fisica che produce dolore ma non determina un processo patologico o una menomazione funzionale. La lesione, invece, si configura quando l’aggressione comporta una malattia nel corpo o nella mente, nel senso ormai precisato dalla giurisprudenza come compromissione funzionale apprezzabile e non passeggera. Ne deriva che la linea di confine non sta nell’intensità del colpo, ma nella sua idoneità a produrre una malattia: lo schiaffo che lascia solo bruciore rientra nelle percosse; lo stesso gesto che provoca una tumefazione guaribile in più giorni integra una lesione.
5.2 Lesioni personali e tentato omicidio
Più complesso è il rapporto con il tentato omicidio, che chiama in causa l’elemento soggettivo e l’idoneità degli atti. La distinzione si fonda principalmente su tre parametri:
i mezzi usati (un’arma da fuoco diretta a zone vitali difficilmente può essere letta come intenzione di cagionare una mera malattia);
la zona corporea aggredita (colpire il torace o il capo evoca un rischio letale, mentre colpire un arto ha una valenza diversa);
il dolo specifico: se l’agente mira a uccidere, siamo nel tentato omicidio; se accetta la compromissione della salute senza volere la morte, restiamo nell’orbita delle lesioni volontarie, anche gravi. La giurisprudenza ha più volte ribadito che il dolo omicidiario non può presumersi dall’idoneità astratta dell’arma o dalla gravità della ferita, ma deve emergere da un complesso di indizi convergenti: condotta, modalità dell’aggressione, reiterazione dei colpi, dichiarazioni dell’agente.
5.3 Lesioni personali e maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.)
Altro confine delicato è quello con i maltrattamenti. Le condotte abituali di sopraffazione, vessazione o violenza psicologica integrano di per sé il delitto di maltrattamenti; ma quando a tale condotta si aggiunge un evento lesivo concreto – una malattia nel corpo o nella mente – non si ha reato complesso, bensì concorso formale tra art. 572 e art. 582. Il maltrattamento fotografa la cornice di sistematica prevaricazione, mentre la lesione valorizza l’episodio specifico che ha prodotto un danno alla salute. La Cassazione ha chiarito che tale concorso non viola il principio del ne bis in idem, poiché si tratta di beni giuridici parzialmente diversi: da un lato la dignità e integrità morale della persona nella relazione familiare, dall’altro la salute fisica o psichica.
5.4 Lesioni personali, violenza privata (art. 610 c.p.) e resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.)
Anche il rapporto con la violenza privata è stato più volte oggetto di scrutinio.
Se l’azione violenta è finalizzata a costringere la vittima a fare, tollerare o omettere qualcosa, integra la violenza privata; se però da tale condotta deriva anche una malattia, si avrà concorso tra art. 610 e art. 582.
Solo quando l’offesa si riduce a un gesto fugace e non produce malattia si rimane nel perimetro della mera violenza privata.
Analogo discorso vale per la resistenza a pubblico ufficiale: l’agente che, per sottrarsi all’atto dell’ufficiale, usa violenza provocando lesioni, risponde di entrambi i reati in concorso.
La violenza serve a integrare la resistenza, ma se da essa scaturisce una malattia, non vi è assorbimento e trova applicazione autonoma anche l’art. 582.
In definitiva, la disciplina dei rapporti tra lesioni e figure affini si regge su un principio di fondo: ogni qualvolta la condotta violenta produca un evento di malattia, questa conseguenza autonoma non viene assorbita, ma dà luogo a un titolo ulteriore di responsabilità.
Solo le condotte che restano confinate nella sfera della mera aggressione fisica, priva di esiti clinicamente rilevanti, trovano collocazione esclusiva in altre incriminazioni.
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