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Rifiuto di sottoporsi all'alcotest: smette di soffiare per 12 volte perché in ansia, condannato


Sentenze della cassazione in materia di guida in stato di ebbrezza

La massima

Il rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici, che integra il reato di cui all' art. 186, comma 7, cod. strada , si configura non solo in presenza di manifestazioni espresse di indisponibilità a sottoporsi al test, ma anche quando il conducente del veicolo - pur opportunamente edotto circa le modalità di esecuzione dell'accertamento - attui una condotta ripetutamente elusiva del metodo di misurazione del tasso alcolemico. (Fattispecie in cui l'imputato, durante l'alcoltest, aveva, per dodici volte, smesso di soffiare appena l'apparecchio si metteva in funzione, adducendo uno stato di agitazione - Cassazione penale , sez. IV , 12/12/2019 , n. 3202).

Fonte: Ced Cassazione Penale



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La sentenza

Cassazione penale , sez. IV , 12/12/2019 , n. 3202

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'appello di Venezia, il 1 ottobre 2018, ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Vicenza, in data 21 luglio 2017, aveva condannato B.R.G. alla pena ritenuta di giustizia per il reato p. e p. dall'art. 186 C.d.S., comma 7, accertato in (OMISSIS).


Si legge nella motivazione della sentenza che la B., per ben 12 volte, si accingeva a soffiare nell'apparecchio ma, non appena si accendevano circa metà delle luci, la stessa smetteva di soffiare e il macchinario dava esito negativo. Ciò, lungi dall'essere ascrivibile a un presunto stato di agitazione della donna, è stato ritenuto, sia in primo che in secondo grado, espressione di una volontà di sottrarsi all'accertamento.


2. Avverso la prefata sentenza ricorre la B., con atto articolato in cinque motivi di lagnanza.


2.1. Con il primo la deducente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all'affermazione di responsabilità: non può ritenersi compresa nel paradigma normativo l'ipotesi, accreditata dalla Corte di merito, di "rifiuto tacito" in cui l'imputato, lungi dal rifiutare scientemente di sottoporsi all'esame, non riesca a eseguirlo per assoluta incapacità fisica di soffiare a sufficienza; sul piano motivazionale, poi, la Corte erra nell'ammettere dapprima che la B. fosse agitata, salvo poi osservare che la presenza di un accompagnatore e la possibilità di chiamare il padre non precludevano all'imputata l'autocontrollo; inoltre è stato indebitamente trascurato - e letto come un espediente per prendere tempo - il fatto che la B., dopo il fallimento del test, chiese di essere trasportata in ospedale per essere sottoposta a prelievo ematico.


2.2. Con il secondo motivo - che in parte si richiama agli argomenti di quello precedente - la ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all'elemento soggettivo del reato: si sostiene nel motivo in esame che la B. non avesse nè coscienza, nè volontà di sottrarsi all'esame e che non avesse agito nè con dolo, nè con colpa. Sul punto, tuttavia, la Corte di merito sostanzialmente tace, lasciando intendere di ritenere integrato l'elemento soggettivo in re ipsa.


2.3. Con il terzo motivo la ricorrente censura, ancora sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, il diniego delle attenuanti generiche, sol perchè la B. è gravata da alcuni precedenti definiti come specifici, laddove in realtà tali precedenti riguardano il diverso e distinto reato di guida in stato d'ebbrezza; nè del resto è condivisibile il riferimento a una maggiore pericolosità dell'imputata a cagione di detti precedenti.


2.4. Con il quarto motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena: statuizione basata su un percorso argomentativo illogico, anche in questo caso riconducibile a precedenti qualificati come "specifici" (uno dei quali, peraltro, definito con estinzione del reato a seguito di esito positivo del lavoro di pubblica utilità).


2.5. Infine, con il quinto motivo di ricorso, la deducente lamenta violazione di legge in relazione alla mancata conversione della pena detentiva in quella pecuniaria corrispondente, sul solo rilievo che non vi è prova che la B. sia in grado di onorare l'ammenda e ancora sulla base della sua biografia penale.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I primi due motivi, inerenti entrambi all'affermazione di responsabilità della B. in ordine al reato contestato, sono ambedue manifestamente infondati e volti a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio, in termini non consentiti in questo giudizio di legittimità.


E' del tutto corretto e adeguato, infatti, il ragionamento della Corte lagunare in ordine all'inverosimiglianza dell'assunto dell'imputata, secondo la quale a impedirle (per ben 12 volte) di insufflare a sufficienza nell'etilometro sarebbe stata la sua condizione di agitazione. Invero, sono ben descritte nella motivazione della sentenza impugnata le modalità della condotta, chiaramente deponenti per la volontarietà di essa.


Può infatti qualificarsi come "rifiuto" qualsiasi manifestazione di volontà negativa a fronte della richiesta, rivolta al conducente dall'organo di polizia competente per il controllo, a sottoporsi all'accertamento strumentale della condizione di ubriachezza alla guida. Può cioè trattarsi di un rifiuto comunque espresso, in modo manifesto o tacito, esplicito o implicito, cortese o scortese, purchè siano inequivoci l'atteggiamento di riottosità del conducente e il suo intendimento di sottrarsi al controllo. A titolo di esempio, il reato è stato ritenuto sussistente nell'ipotesi - affine a quella che ne occupa - in cui l'imputato, durante l‘alcoltest, abbia più volte aspirato anzichè soffiare come richiestogli, impedendo così la rilevazione del tasso alcolemico: ciò in base al principio secondo cui il reato di rifiuto si configura non solo in presenza di manifestazioni espresse di indisponibilità a sottoporsi al test, ma anche quando il conducente del veicolo - pur opportunamente edotto circa le modalità di esecuzione dell'accertamento - attui una condotta ripetutamente elusiva del metodo di misurazione del tasso alcolemico (Sez. 4, n. 5409 del 27/01/2015 - dep. 05/02/2015, Avondo, Rv. 262162).


Del tutto adeguata anche la motivazione in base alla quale la Corte di merito giudica irrilevante, in quanto sostanzialmente dilatorio e strumentale, l'atteggiamento dell'imputata allorquando di fronte al fallimento del test chiese di essere trasportata in ospedale e di essere colà sottoposta a prelievo ematico.


2. Quanto al terzo e al quarto motivo, riguardanti rispettivamente il diniego delle attenuanti generiche e quello della sospensione condizionale della pena, essi sono a loro volta manifestamente infondati.


Invero, in risposta alle lagnanze dell'esponente, va premesso che, quando si parla di precedenti penali specifici, ci si richiama ai criteri del bene giuridico violato o del movente del reato, che consentono di accertare, nei casi concreti, i caratteri fondamentali comuni fra i diversi reati (Sez. 6, n. 15439 del 17/03/2016, C, Rv. 266545). In linea di principio, quindi, possono essere ritenuti "reati della stessa indole" non soltanto quelli che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni, desunti - anche a prescindere dall'identità del bene protetto - dalle modalità di esecuzione o dai moventi del reo (cfr. ad es. Sez. 2, n. 40105 del 21/10/2010, Apostolico, Rv. 248774).


Ora, alla stregua dei dianzi ricordati principi, non è mestieri dubitare che il precedente per guida in stato d'ebbrezza, cui la stessa ricorrente fa riferimento, debba intendersi come "specifico" rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all'accertamento dello stato di alterazione alla guida, ascritto alla B..


Chiarito quanto precede, è noto che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (cfr. ad esempio Sez. 5, Sentenza n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269, in cui è stato ritenuto sufficiente, ai fini del diniego delle attenuanti generiche, il riferimento ai precedenti penali dell'imputato); quanto poi al diniego della sospensione condizionale, la Corte di merito ha tratto dal comportamento dell'imputata e dai suoi precedenti penali, in modo del tutto adeguato e conducente, il convincimento di non poter addivenire a un giudizio prognostico favorevole in ordine alla sua astensione dal commettere futuri reati della stessa indole (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 44458 del 30/09/2015, Pomposo, Rv. 265613, in cui è stato ritenuto sufficiente il riferimento a precedenti non definitivi).


3. Infine, anche il quinto motivo, riferito alla mancata conversione della pena detentiva in quella pecuniaria, è manifestamente infondato.


Nella motivazione resa sul punto, la Corte distrettuale evidenzia in primo luogo che già in occasione di una precedente condanna la B. ebbe a beneficiare della sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità, senza che ciò abbia sortito effetti in termini di ravvedimento. Tale argomento, invero, aderisce all'indirizzo della giurisprudenza apicale di legittimità (Sez. U, Sentenza n. 24476 del 22/04/2010, Gagliardi, Rv. 247274), secondo la quale, se è vero che la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria è consentita anche in relazione a condanna inflitta a persona in condizioni economiche disagiate, nondimeno, nell'esercitare il potere discrezionale di sostituire le pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, il giudice deve tenere conto dei criteri indicati nell'art. 133 c.p.; ed è evidente che nella specie il richiamo al comportamento tenuto dalla B. pur dopo avere già ottenuto l'ammissione alla sanzione sostitutiva di cui all'art. 186 C.d.S., comma 9-bis, risponde ai criteri indicati dal citato art. 133.


4. Alla declaratoria di inammissibilità - non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa della ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) - consegue l'onere delle spese del procedimento, nonchè quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma di Euro 2.000,00.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.


Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2019.


Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2020

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