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Condanna per bancarotta fraudolenta: responsabilità degli amministratori di diritto e di fatto

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Tribunale Nola, 11/09/2018, (ud. 19/06/2018, dep. 11/09/2018), n.1651

L’amministratore "di fatto" di una società fallita è gravato degli stessi doveri dell’amministratore "di diritto" e risponde penalmente per tutte le condotte a lui imputabili, incluse le omissioni, in applicazione dell’art. 40, comma 2, c.p. La mancata tenuta delle scritture contabili e la distrazione di beni societari possono configurare il reato di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale quando risultano dirette a pregiudicare i creditori.

La sentenza integrale

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto emesso a seguito dell'udienza preliminare del 5.10.2017, il Gup del Tribunale di Nola disponeva il rinvio a giudizio di D.R. e F.L. davanti a questo Collegio per rispondere dei reati in epigrafe trascritti.

All'udienza del 18.1.2018, si dava atto della presenza dell'imputato F.L. e si dichiarava l'assenza dell'imputato D.R., regolarmente citato e non comparso; a quel punto, in assenza di questioni preliminari, si dichiarava l'apertura del dibattimento e il Presidente ammetteva le prove testimoniali e documentali richieste dalle parti. La successiva udienza del 15.2.2018 veniva rinviata stante l'assenza giustificata del teste di lista.

Dopo un ulteriore rinvio disposto all'udienza del 27.2.2018, la quale non è stata celebrata giusto decreto n. 20/2017 a firma del Presidente del Tribunale, si giungeva in quella del 20.3.2018, che veniva rinviata per assenza testi.

Alla successiva udienza del 24.5.2018 si dava atto dell'intervenuta rinuncia al mandato da parte del difensore dell'imputato F.L.. A quel punto veniva nominato un nuovo difensore d'ufficio e si disponeva la notifica del verbale allo stesso, come da ordinanza.

Giunti all'udienza del 7.6.2018, preliminarmente si dava atto del mutamento della composizione del collegio e si provvedeva a rinnovare la dichiarazione di apertura del dibattimento e ad ammettere nuovamente le prove richieste dalle parti. A quel punto veniva escusso il curatore presente, S.S., e all'esito si acquisiva la relazione ex art. 33 l.f. da lei redatta. Il Presidente procedeva alla dichiarazione di chiusura dell'istruttoria dibattimentale e il Pm rassegnava le sue conclusioni, mentre le difese rassegnavano le proprie alla successiva udienza del 19.6.2018.

Il Tribunale si ritirava, quindi, in camera di consiglio, all'esito della quale dava pubblica lettura del dispositivo della sentenza in udienza, riservando in 90 giorni il termine per il deposito della motivazione.

Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Sulla scorta dell'istruttoria dibattimentale espletata e degli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento, questo Collegio ha ritenuto pienamente provata l'ipotesi accusatoria e dunque dimostrata la penale responsabilità degli odierni imputati per i fatti che sono loro contestati.

La teste dott.ssa S.S., la cui deposizione è suffragata dalle relazioni ex art. 33 l.f. da lei redatte e acquisite agli atti, riferiva di esser stata nominata curatrice nell'ambito della procedura fallimentare della "D.R. s.r.l.", già "SEF di F.P.", società costituita il 26.9.2005 e oggetto di mutamento di denominazione sociale in data 29.11.2012.

Tale società, dedita ad attività di commercio al dettaglio e all'ingrosso di materiali edili per costruzioni, è stata dichiarata fallita con sentenza emessa dal Tribunale di Nola il 4.7.2013 (cfr. sentenza in atto e aveva avuto sede legale fino al 31.10.2012 in Massa di Somma alla via G.D.F. per poi essere trasferita alla via C. di quel comune.

La fallita società, in particolare, fino al 2.7.2012 era stata amministrata da F.L., il quale fino al 26.10.2011 ne era anche stato socio unico. A lui era subentrato il coimputato D.R. il quale ha rivestito la qualifica di amministratore e socio unico fino al fallimento, intervenuto a luglio 2013, nonostante la società avesse di fatto cessato la propria attività già il 30.6.2012.

Per quanto riguarda le cause del fallimento, la procedura era iniziata il 18.4.2013 su istanza della società G.D.M. s.p.a., ma il curatore affermava di non essere in grado di riferire sulle cause e le circostanze che avevano portato al dissesto societario, non essendo riuscita ad interloquire con l'amministratore, il quale si era reso irreperibile.

La S. riferiva, però, che il totale del passivo accettato all'esito della procedura era pari ad euro 472.408,02.

Per quanto riguarda la verifica della regolarità delle scritture contabili, non risultava depositata alcuna documentazione contabile, né libri sociali, da parte dell'amministratore: l'ultimo bilancio depositato era quello del 31.12.2011, risultando quindi omesso il deposito per l'esercizio successivo precedente al fallimento.

Ciò aveva, quindi, evidentemente impedito al curatore di effettuare un'analisi precisa della situazione patrimoniale.

Il regime di contabilità cui la società era soggetta era quello ordinano ex art. 2214 c.c.; andavano, quindi, tenuti: il libro giornale, il libro degli inventari, il libro verbali assemblee, libro determinazioni amministratore unico, nonché il registro delle fatture emesse, dei corrispettivi e dei cespiti ammortizzabili ai sensi del d.p.r. n. 633 del 26.10.1972.

Passando alla situazione patrimoniale della società al momento del fallimento, il curatore riferiva di non essere stata in grado di accertare l'attivo stante la citata mancanza di documenti ufficiali idonei ad attestarne l'entità.

Dal bilancio depositato il 31.12.2011 si evincevano, in ogni caso, rimanenze finali per 2.274.968 euro, crediti verso clienti per 1.099.648 euro e disponibilità liquide per 53.786,00 euro, somme che non venivano più rinvenute.

Passando alle operazioni di inventano, queste ebbero inizio in data 19.7.2013, quando il curatore si era recato presso la sede sociale alla via C. ove alcuna società veniva rinvenuta constatandosi che all'indicato indirizzo vi era solo un locale al piano terra in completo stato di abbandono chiuso da una porta in legno.

Dalla cassetta postale affissa alla parete attigua alla porta, il curatore aveva provveduto a prelevare la corrispondenza, costituita da un estratto conto della banca Unicredit al 31.5.2013 con saldo zero e una "contabile riepilogativa" del Banco di Napoli, relativa ad effetti insoluti.

Il curatore rilevava, inoltre, che in data 16.2.2012 era stata costituita una nuova società, la "Sef di F.L.", con sede legale in Massa di Somma alla via S.F., la quale aveva identico oggetto sociale della fallita.

Secondo la prospettazione accusatoria, quindi, tale società si sarebbe posta in continuità con la "Domigno s.r.l." - già "Sef di F.P." - e a riprova di ciò il curatore evidenziava che socio unico nonché amministratore della nuova società era effettivamente F.L., già socio e amministratore della fallita.

Costui, quindi, aveva dapprima creato una nuova società per poi cessare l'attività della Sef di F.P. e trasferire tutte le sue quote al D.R. in vista dell'imminente fallimento della società che veniva quindi svuotata di tutti i mezzi e le disponibilità (compresi i dipendenti), servendosi altresì della medesima sede sociale alla via G.D.F. (vecchia sede della fallita), dove veniva aperta una unità locale della Sef.

Ne deriva, con tutta evidenza, una vera e propria commistione tra le due società, quantomeno nel periodo dal 2.3.2012 (quando era iniziata l'attività della Sef) al 31.10.2012, avendo in tale arco temporale anche condiviso la sede sociale.

Ciò premesso, la curatrice aveva proposto ricorso per ottenere il sequestro giudiziario della neocostituta Sef (cfr. ricorso per sequestro giudiziario ante causam depositato il 12.11.2013), che era stato accolto, giusto provvedimento del giudice del Tribunale di Nola del 26.11.2013 (cfr. decreto n. 7566\13, in atti).

In data 3.12.2013 l'ufficiale giudiziario incaricato non era però riuscito ad immettersi nel possesso della società, avendo trovato la sede operativa chiusa. Ne era seguita la rinuncia alla misura cautelare da parte del curatore.

I suddetti elementi istruttori confermano senza dubbio l'ipotesi accusatoria, essendo risultato dimostrato che la società "Sef di F.L." si è sostituita alla fallita "D.R. srl", la quale è stata spogliata di tutte le sue consistenze e portata al fallimento causato volontariamente dagli odierni imputati, i quali, succedutisi nella qualifica di amministratori della fallita, lungi dall'attivarsi tramite le (omissis) sia autonomamente, quale diretto destinatario della norma incriminatrice. Nella prima ipotesi è necessaria la prova dell'apporto causale dato dall'extraneus al fatto proprio dell'amministratore legale.

Nella seconda ipotesi, è sufficiente la prova della gestione della società da parte dell'amministratore di fatto la cui responsabilità è diretta e personale, e non concorsuale, prescinde da quella dell'amministratore legale e si staglia quand'anche sia esclusa la responsabilità di quest'ultimo (cfr. Cass. pen., sez. V., 17.1.1996, C. pen. 1997, 547).

Egli, quindi, è da ritenersi gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, per cui, nella ricorrenza delle prescritte condizioni oggettive e soggettive, assume la responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall'art. 40, co. 2, c.p.

Nel caso concreto, molti elementi inducono a ritenere senza ombra di dubbio che il F.L. sia rimasto il reale gestore della Domigno srl anche dopo il subentro in tale ruolo di D.R..

Egli, infatti, mentre era amministratore e socio unico della D.R. srl, ha costituito la nuova società la quale si è progressivamente sostituita a questa, che è stata portata al fallimento con una politica distruttiva in danno dei creditori. Anche se costui, quindi, dal 2.7.2012 non ha più rivestito la carica di amministratore di diritto della D.R. srl, ne è senza dubbio rimasto amministratore di fatto, continuando ad esercitare la medesima attività di impresa con una nuova veste societaria.

Inoltre entrambi gli imputati, rimasti assenti in dibattimento, non hanno fornito al Collegio alcun elemento di segno contrario al fine di poter modulare differentemente la propria responsabilità ed il loro coinvolgimento nella vicenda fallimentare. D'altronde, gli stessi si sono anche sottratti all'interrogatorio richiesto dal curatore.

Partendo, quindi, dal reato di cui al capo a), entrambi gli imputati sono chiamati a rispondere del delitto di bancarotta fraudolenta di cui all'art. 216 comma 1 n. 1 R.D. 267/1942, per aver di fatto ceduto la "Domigno srl" alla società "Sef di F.L.", senza alcun corrispettivo.

Invero, sulla base della testimonianza resa dal curatore fallimentare, suffragata dalle relazioni ex art. 33 l.f. con relativi allegati, è emerso in modo limpido che la costituzione della Sef abbia avuto come unico scopo perseguito dagli imputati quello di continuare ad esercitare l'attività d'impresa nonostante i problemi economici in cui versava la D.R. srl, la quale, già sostituitasi alla Sef di P.F. il 29.11.2012, è stata dichiarata fallita dopo meno di un anno, tramite una fraudolenta distrazione di tutti i suoi beni in danno dei creditori.

Al riguardo, il primo indice della continuità tra le due società è dato dalla circostanza che la "Sef di F.L." fu costituita in data 16.2.2012 e che fino al 31.10.2012 questa aveva aperto un'unità locale nella sede sociale della D.R. srl alla via D.F.

In secondo luogo, non può non evidenziarsi che F.L. ha rivestito il ruolo di amministratore sia di diritto che di fatto sia della D.R. srl che della Sef Ancora, le due società avevano il medesimo oggetto sociale, oltre che la medesima denominazione. E' palese, infatti, che il cambio di nome da "Sef di F.P." a "D.R. srl" sia stata un'operazione organizzata al solo fine di creare confusione e far ritenere ai clienti che ci fosse continuità tra la Sef di F.P. e la Sef di F.L..

Quindi, sulla base di tali elementi, è risultato provato che la nuova società fu costituita al fine di poter continuare a svolgere l'attività lavorativa nel medesimo settore e con le medesime risorse, in danno dei creditori sociali della Domigno srl, la quale società veniva in pratica "svuotata" di tutti i suoi beni, risorse e attrezzature.

I fatti risultano altresì provati da quanto riferito dal curatore fallimentare relativamente al sopralluogo presso la sede sociale della D.R. srl in via C., dove nulla veniva rinvenuto, circostanza questa ancor di più dimostrativa dell'avvenuta distrazione di tutti i beni della fallita a favore della neo istituita Sef.

Tutti questi elementi, quindi, non possono che portare univocamente a ritenere provata la sussistenza dei reato loro contestato al capo a) della rubrica, di cui devono rispondere entrambi gli imputati, che rivestivano la qualifica di amministratori di diritto delle due società coinvolte.

Passando alle contestazioni di cui al capo b) della rubrica, gli imputati sono altresì chiamati a rispondere per aver sottratto risorse attive alla società consistenti nelle rimanenze di magazzino (per euro 2.274.968,00) e nelle disponibilità liquide (per euro 53.786,00).

Al riguardo, il curatore ha evidenziato che nulla è stato rinvenuto in sede di inventario nelle casse sociali né nei conti correnti accesi presso il banco di Napoli e l'Unicredit.

Inoltre, nonostante nel bilancio 2007 fossero indicati "crediti verso clienti" per 1.689.424,00 euro, non vi era segno in quelli successivi di una svalutazione degli stessi, non risultando però che fossero stati soddisfatti o utilizzati in alcun modo (capo c).

Orbene, dalle dichiarazioni rese dal curatore anche tali ipotesi risultano pacificamente dimostrate, essendo emerso che in sede di inventario nulla fu rinvenuto e in assenza di alcun elemento di segno contrario proveniente dalla difesa atto a dimostrate l'utilizzo di tali risorse attive per scopi societari.

Giova evidenziare che secondo costante giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, "in tema di prova del delitto di bancarotta fraudolenta, il mancato rinvenimento, all'atto della dichiarazione di fallimento, di beni e di valori societari, a disposizione dell'amministratore, costituisce, qualora non sia da questi giustificato, valida presunzione della loro dolosa distrazione, probatoriamente rilevante al fine di affermare la responsabilità dell'imputato" (cfr. Cass. Pen. Sez. V n. 3400 del 15.12.2004 e nello stesso senso, più recente, sentenza n. 22894 del 17.04.2013 secondo la quale "in materia di bancarotta fraudolenta la prova della distrazione dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell'amministratore, della destinazione dei beni suddetti").

Anche in questo caso devono rispondere delle suddescritte distrazioni entrambi gli imputati, rispettivamente in qualità di amministratore di diritto e di fatto della fallita, sulla base delle considerazioni già svolte in precedenza.

Passando al capo d) della rubrica, è contestata agli imputati un'ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria da operazioni dolose di cui all'art. 223 comma 2 e n. 2 Legge fallimentare per aver aggravato lo stato di dissesto della fallita società in quanto, pur essendosi praticamente azzerato il patrimonio sociale dal 2007, essi hanno proseguito ad esercitare fattività di impresa fino al 2012 omettendo di attivare le procedure ex artt. 2447 e 2448 c.c.

Riguardo a tali contestazioni è emersa piena prova della sussistenza sia dell'elemento oggettivo che di quello soggettivo dei contestati reati in quanto il F.L. non procedendo a sciogliere la società o a ricapitalizzarla pur in presenza di un dissesto patrimoniale grave, ha cagionato (ovvero concorso a cagionare) il dissesto della società.

Questa finalità può chiaramente evincersi da tutta la condotta tenuta dall'imputato, sintomatica di una volontaria attività posta in essere in danno dei creditori sociali.

Il F.L., infatti, a fronte di un azzeramento del capitale sociale presente già dall'anno 2007 avrebbe dovuto agire a norma dell'art. 2447 c.c., essendosi verificata un vero e proprio azzeramento del capitale sociale (visto che risultavano esposte perdite per 1.201.309,00 a fronte di un capitale sociale di 25.825,40 euro).

In merito a tale condotta deve ritenersi che vi sia senz'altro prova dell'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 223 co. 2 n. 2), per il quale è sufficiente il mero aggravamento di uno stato di dissesto già esistente ed aliunde determinato, aggravamento che non può escludersi nel caso di specie essendosi registrato un progressivo aumento delle passività lungo lo snodarsi della vita societaria.

Quindi, la mancata messa in liquidazione, ovvero la mancata attuazione degli obblighi di cui agli artt. 2447 codice civile non può che giustificarsi come volontarietà e consapevolezza delle dannose conseguenze dell'azione in assenza di alcun elemento che possa portare a ritenere che l'imputato abbia proseguito l'attività sociale nella speranza di una ripresa economica dell'azienda (Cfr. Cass. pen., Sez. 5, Sentenza n. 8863 del 09/10/2014 "in tema di bancarotta, la convocazione dell'assemblea dei soci ex art. 2447 cod. civ., in presenta di una riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale rientra tra gli "obblighi imposti dalla legge" la cui inosservanza può dar luogo a responsabilità penale dell'amministratore ai sensi dell'art. 224, primo comma, numero 2, della legge fallimentare laddove costituisca causa o concausa del dissesto ovvero del suo aggravamento").

Tale reato è inoltre certamente addebitabile anche al D.R., il quale, avendo assunto la carica di amministratole di diritto della fallita dal 2.7.2012, ha concorso a cagionarne il dissesto portandola al fallimento unitamente al F.L..

Infine, passando all'ipotesi di bancarotta documentale, al capo e) della rubrica è contestato agli imputa a di aver sottratto/distrutto i libri e le altre scritture contabili, che non sono state rinvenute dal curatore in sede di fallimento, così impedendo la ricostruzione del patrimonio e del volume di affari della società fallita.

E' indubbio che la suddetta sottrazione sia stata posta in essere all'evidente fine di arrecare pregiudizio ai creditori, tenuto conto del contesto in cui il fatto è avvenuto sintomo di una condotta artatamente finalizzata, così come le altre contestuali operazioni, a pregiudicare, come di fatto è poi avvenuto, le ragioni dei creditori, impedendo ai predetti la ricostruzione del patrimonio e del volume di affari della società fallita.

Infatti, la previsione incriminatrice di cui all'art. 216 l.f. individua l'oggetto materiale del reato nei libri e nelle altre scritture contabili che hanno la funzione di rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, ricollegandosi direttamente all'art. 2214 c.c., e la condotta nella "sottrazione, distruzione e/ o falsificazione ovvero tenuta irregolare".

Al riguardo, giova precisare che dal punto di vista oggettivo il contestato delitto è integrato sia dalla sottrazione di scritture contabili, precedentemente sussistenti, sia dall'omessa tenuta delle stesse, penalmente rilevante ex art. 216 n. 2 l.f. quando sorretta dal necessario dolo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o, come nel caso di specie, di recare pregiudizio ai creditori (cfr. sul punto Cass. Pen. Sez. V sentenza n. 11115 del 22/01/2015 secondo la quale "l'omessa tenuta della contabilità interna integra gli estremi del reato di bancarotta documentale fraudolenta, e non quello di bancarotta semplice, qualora si accerti che scopo dell'omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori").

In particolare, nella fattispecie in questione è palese che la sottrazione o omessa tenuta delle scritture contabili sia stata posta in essere al fine di pregiudicare le ragioni creditorie, alla luce del contesto in cui la condotta degli imputati si inserisce.

In particolare, il D.R. e succeduto al F.L. nella qualifica di amministratore in un momento in cui la società già versava in stato di evidente difficoltà economica tanto da fallire dopo circa un anno. Tale operazione di successione tra i due, evidentemente d'accordo nel frodare i creditori sociali, in uno all'inesistenza di una sede sociale dove la D.R. sii esercitasse la propria attività e, quindi, all'insussistenza di attivo, nonché alla contemporanea costituzione da parte del precedente amministratore di altra società avente uguale oggetto sociale della fallita, sono tutte operazioni chiaramente sintomatiche della finalità di ledere le ragioni creditorie.

In tale contesto, quindi, è evidente che non si tratta di un'omessa tenuta o sottrazione di scritture contabili imputabile alle ragioni più varie, anche ad una mera negligenza, ma di una condotta, così come le altre sopra descritte, artatamente finalizzata a pregiudicare le ragioni dei creditori, impedendo ai predetti sia la ricostruzione del patrimonio e del volume di affari della società, in assenza di scritture contabili nonché di una sede reale.

E', dunque, certamente sussistente, nel caso in questione, il dolo specifico di cui all'art. 216 l.f., costituito dallo "scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori" (cfr. sul punto, Cass. Pen. Sez. VI n. 17084 del 09/12/2014, secondo cui "L'elemento psicologico del reato di bancarotta documentale post fallimentare si identifica nel dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori mediante sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture").

Non sussistono dubbi, inoltre, sulla riferibilità della condotta delittuosa ad entrambi gli imputati, in quanto il D.R. rivestiva la carica di amministratore al momento del fallimento e quindi era giuridicamente gravato dagli obblighi di tenuta delle scrittore, mentre il F.L., essendone l'amministratore di fatto nonché essendo stato il precedente amministratore di diritto, aveva l'onere di dimostrare la sua estraneità ai fatti mediante la prova dell'avvenuta consegna della documentazione al D.R., cosa che non è avvenuta.

Ritiene questo collegio, infatti, di condividere l'orientamento espresso dalla Cassazione penale nella sentenza n. 39593 resa dalla Sez. 5, il 20/05/2011 secondo la quale "In tema di reati fallimentari, l'amministratore "di fatto" della società fallita è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore "di diritto", per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili".

Passando al trattamento sanzionatorio, non si ritengono concedibili agli imputati le circostanze attenuanti generiche, in assenza di alcun elemento positivamente valorizzarle nelle loro condotte ed emergendo piuttosto un'allarmante macchinazione dei delitti posti in essere.

E' inoltre sussistente la contestata circostanza aggravante di cui all'art. 219, comma 2 l.f., che prevede un aumento di pena quando il colpevole abbia commesso più fatti tra quelli previsti negli artt. 216,217 e 218 rd. 267\42, cosa che è avvenuta nel caso di specie.

Tutto ciò premesso, valutati i criteri di cui all'art. 133 c.p., stimasi congruo irrogare a D.R. e F.L. la pena finale di anni tre e mesi sci di reclusione ciascuno (pena base anni tre di reclusione - minimo pena - aumentata ex art. 219 l.f.).

Alla condanna seguono per legge il pagamento delle spese processuali, nonché ex art 216 RD 267\42 l'inabilitazione dei predetti all'esercizio di imprese commerciali e l'incapacità all'esercizio di uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni dieci.

Ai sensi dell'art. 29 c.p., essendo stata comminata una pena superiore ad anni 3 di reclusione, gli imputati vanno altresì dichiarati interdetti dai pubblici uffici per anni 5.

P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara D.R. e F.L. colpevoli dei delitti a loro ascritti e, con la contestata circostanza aggravante di cui all'art. 219 r.d. n. 267\42, li condanna alla pena finale di anni tre e mesi sci di reclusione ciascuno, oltre al pagamento delle spese processuali.

Letto l'art. 216 co. 4 r.d. n. 267\42, dichiara gli imputati inabilitati all'esercizio di un'impresa commerciale per anni dieci, nonché incapaci per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

Letto l'art. 29 c.p., dichiara gli imputati interdetti dai pubblici uffici per anni cinque.

Indica in giorni 90 il termine per il deposito dei motivi.

Nola, 19 giugno 2018

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