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L’amministratore di fatto risponde di bancarotta se gestisce l’impresa con poteri direttivi e decisionali

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Corte appello Lecce, 06/08/2024, n.1011

Ai fini dell’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto in un contesto di bancarotta, è necessario accertare la sussistenza di elementi sintomatici di inserimento organico e di partecipazione effettiva nella gestione dell’impresa, indipendentemente dal ruolo formale rivestito. Tali elementi possono emergere da attività direzionali, rapporti con clienti e fornitori o decisioni gestionali, risultando irrilevante che l’amministratore di diritto abbia formalmente assunto la responsabilità.

Responsabilità per bancarotta documentale: dolo specifico e condotta successiva

Bancarotta documentale: negligenza e volontà fraudolenta nella tenuta delle scritture contabili.

Responsabilità dell’amministratore inattivo nella bancarotta fraudolenta: obblighi di vigilanza e tenuta delle scritture contabili.

Assoluzione per bancarotta semplice documentale per mancanza di prove certe

Assoluzione dell’amministratore per mancata prova dello stato di insolvenza durante il suo incarico

Responsabilità dell’amministratore formale nella tenuta delle scritture contabili in fase liquidatoria.

Esclusione di responsabilità per l’amministratore: regolare cessione delle quote e assenza di gestione di fatto.

Responsabilità del concorrente estraneo nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione

Condanna per bancarotta fraudolenta distrattiva e documentale aggravata con riconoscimento delle attenuanti generiche

La mancata tenuta delle scritture contabili come bancarotta semplice e il principio di responsabilità per omessa dichiarazione IVA

La sentenza integrale

Svolgimento del processo
Con sentenza del Tribunale di Lecce in data 1.7.2020, Ra.Se. veniva ritenuto responsabile dei reati ascrittigli e, concesse allo stesso le circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti sull'aggravante contestata in fatto e di cui all'art. 219, comma 2 n. 1), L.F., veniva condannato alla pena di anni due di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. L'imputato veniva dichiarato inabilitato all'esercizio di un'impresa commerciale e incapace ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni due.

Avverso la citata sentenza ha proposto tempestivo appello il difensore dell'imputato, censurando la pronuncia sulla base dei motivi che di seguito si andranno sinteticamente ad esporre.

L'udienza del 9.6.2023, che si teneva ai sensi dell'art. 23-bis di n. 137/20, convertito con modifiche dalla legge n. 176/20, veniva rinviata per l'eccessivo carico.

All'udienza del 24.5.2024, presente l'imputato, le parti, dopo la discussione, concludevano come in epigrafe riportato.

Motivi della decisione
1,1 motivi di appello.

1.1. Con l'atto di appello si chiede l'assoluzione dell'imputato, anche ai sensi dell'art. 530 cpv. c.p.p. perché il fatto non sussiste ovvero con la formula ritenuta di giustizia. Sostanzialmente si contesta la possibilità di configurare in capo al Ra. la qualifica di amministratore di fatto della società fallita, formalmente amministrata dal figlio Ra.Ug.

2. La decisione.

2.1. Nel giudizio di appello è consentita la motivazione "per relationem" alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall'appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. pen. sez. II, 19.3.2013. n. 30838). Invero, le sentenze di primo grado e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (Cass. pen. sez. III, 1.12.2011, n. 13926). Peraltro, questo tipo di motivazione della sentenza di appello non è contraria neppure alla CEDU. Invero, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo (vedi da ultimo Corte EDU, sez. I, 6.2.2020, Felloni c. Italia, parr. 24-26), sebbene i giudici non possono essere tenuti a motivare il rigetto di ogni argomentazione addotta da una parte (Corte EDU 9.12.1994, Ruiz Torija c. Spagna, par. 29), essi non sono tuttavia dispensati dal dover esaminare debitamente i principali motivi di ricorso che quest'ultima deduce e dal rispondervi (si veda, Corte EDU, grande camera, 11.7.2017, Moreira Ferreira c. Portogallo, par. 84). Inoltre, la Corte sottolinea che la motivazione è finalizzata soprattutto a dimostrare alle parti che sono state ascoltate e, quindi, a contribuire ad una migliore accettazione della decisione (si veda, mutaiis mutandis, Corte EDU, grande camera. 16.11.2010, Taxquet c. Belgio, par. 91). Pertanto, nel respingere un ricorso, la giurisdizione d'appello può. in linea di principio, limitarsi a fare propri i motivi della decisione impugnata (Corte EDU, grande camera, 21.1.1999, Garcia Ruiz c. Spagna, par. 26). Tuttavia, il concetto di processo equo richiede che una giurisdizione che abbia dato solo una breve motivazione alla sua decisione, incorporando le motivazioni fornite da una giurisdizione di grado inferiore o in altro modo, abbia effettivamente esaminato le questioni essenziali che le sono state sottoposte (Corte EDU, 19.12.1997, Helle c. Finlandia, par. 60 e Corte EDU, 15.2.2007. Boldea c. Romania, par. 30).

2.2. Ciò detto, l'appello nel suo complesso non è fondato.

Come sinteticamente sopra riportato, nell'impugnazione si chiede l'assoluzione dell'imputato sostanzialmente escludendo che possa attribuirsi al Ra.Se. la qualifica di amministratore di fatto della "(…)" s.r.l., società dichiarata fallita in data 15.2.2013, di cui risultava amministratore di diritto il figlio Ra.Ug., già condannato, con sentenza ex art. 444 c.p.p., irrevocabile, per questi fatti (vedi quanto affermato dal difensore dell'imputato all'udienza del 9.7.2018, pag. 4 della trascrizione della stenotipia dell'udienza).

Come è noto, ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore "di fatto" è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Cass. pen. sez. V, 27.6.2019, n. 45134).

Sulla base di tale principio di diritto è opportuno riesaminare i principali elementi di prova che portano a confermare la predetta qualifica, attribuita dal collegio di prime cure, all'appellante.

Nelle s.i.t. rese in data 24.11.2014, acquisite agli atti sull'accordo delle parti, Ri.El., dipendente della società fallita dal mese di maggio 2007 al mese di luglio del 2008, con mansioni di apprendista commessa, riferiva che, per quello che aveva potuto notare in quell'anno di attività, il gestore di tutto era Ra.Se., padre di Ra.Ug., amministratore della società. Invero, Ra.Ug. pur effettuando i pagamenti ai fornitori (mentre la Rizzello veniva pagata dalla ragioniera "Signora Ta.", e, prima della sua assunzione, dallo stesso Ra.Ug.), tuttavia la vera gestione dell'impresa era nelle mani del padre, che stazionava al piano terra della sede sita in via (…). Molte volte, riferiva la Ri., i due si erano trovati in combutta per qualche decisione e quindi spesso davano in escandescenza con discussioni molto animate. Queste dichiarazioni, contestate alla Ri. nel corso della sua audizione dibattimentale, venivano dalla stessa confermate (vedi pag. 9 della trascrizione stenotipica dell'udienza del 9.7.2018).

Ri.Pa., ex dipendente della "(…)", ditta facente capo al Ra.Se., dopo la chiusura della citata ditta passato alle dipendenze della "(…)", con sede in via (…), dove svolgeva mansioni di magazziniere addetto alle vendite dal 2007 al 2012, riferiva che la società era amministrata formalmente da Ra.Ug., ma nell'attività, nella gestione della società, quest'ultimo era coadiuvato anche dal padre. Il Ri. si gestiva da solo, ma comunque le direttive venivano date da Ra.Ug., ma a volte anche Ra.Se. diceva la sua e per questo c'erano disaccordi con il figlio che sfociavano in litigi abbastanza accesi. Nel corso del suo esame dibattimentale, il Ri. precisava che Ra.Se. aiutava il figlio nella gestione della società, poiché questi era inesperto. Il Ra.Se. manteneva più i contatti con i fornitori e i clienti avendo più esperienza e conoscendoli di più, avendo sostanzialmente "passato" i suoi clienti al figlio.

Il teste Os.Fa., amministratore della società (…) s.r.l., fornitrice della "(…)" s.r.l., riferiva che i rapporti commerciali con la società fallita si avviavano per il tramite del suo agente di commercio Ba.Fr.

Costui, per come gli aveva riferito, si relazionava con Ra.Se., che l'Os. sapeva essere il titolare della ditta poi fallita. II teste non si limitava a riferire ciò che aveva appreso dal suo agente di commercio, come sostenuto nell'atto di appello, ma aggiungeva di essersi sentito telefonicamente con il Ra.Se. e di essersi incontrato anche fisicamente con l'imputato una volta a Milano fuori da una fiera. In quest'ultima circostanza, l'Os. riferiva di avere parlato con il Ra. della posizione di insolvenza della "(…)" nei confronti della (…) s.r.l.

Il Ra. Io rassicurava dicendogli che avrebbe cercato di chiuderla. Il teste, infine, escludeva di avere mai sentito parlare del Ra.Ug.

Ca.Ro., dipendente prima della "(…)", e poi della "(…)" s.r.l., complessivamente per circa sei anni, riferiva in sede di esame testimoniale di essere stato assunto, sia nella prima, che nella seconda ditta, da Ra.Se.

Svolgeva le mansioni di corriere e riceveva le disposizioni da parte di Ra.Se.

Nell'ambito della "(…)" s.r.l. interagivano a livello gestionale sia Ra.Ug. che Ra.Se.

Ad entrambi consegnava i ricavi delle consegne, a seconda di chi trovava in azienda. A conferma dell'attendibilità del teste, deve osservarsi che il Ca. non taceva la controversia penale in corso con il Ra.Se., anzi spiegava di essere stato denunciato per essersi rivolto male nei confronti dell'imputato dopo avere perso il lavoro, poiché il Ra. non aveva mantenuto l'impegno di dargli "piano piano" quello che gli doveva sotto il profilo retributivo, e, trovandosi in un momento di difficoltà familiare, aveva un po' "esagerato" al telefono nel rivendicare con rabbia nei confronti dell'imputato i suoi diritti. Dunque, da questo chiarimento si trae ulteriore conferma dei poteri gestionali tenuti dall'appellante all'interno della società fallita, giacché assumeva anche impegni retributivi verso dipendenti dell'azienda licenziati.

Il teste Im.St., titolare di una società in accomandita semplice, all'epoca cliente della "(…)" s.r.l., dichiarava di rivolgersi in genere per gli acquisti con un venditore di nome "Pa.", che stava al banco, ma altre volte si era interfacciato con Ra.Ug. e Ra.Se., presenti all'interno dei locali dell'azienda. Precisava, altresì, confermando sul punto quanto dichiarato in sede di indagini preliminari, che, quando sorgevano problemi in ordine alla gestione della garanzia dei prodotti, il dipendente che si trovava al banco si relazionava con Ra.Se.

L'Im. era a conoscenza che amministratore formale della società fallita era Ra.Ug., ma il proprietario che gestiva tutta la situazione era Ra.Se.

To.Co., nel corso del suo esame testimoniale, riferiva di avere venduto merce alla "(…)" s.r.l. Per il ritiro della merce in genere si recava presso la sua ditta un collaboratore; tuttavia, il To. non poteva escludere che si fosse recato presso la sua ditta anche Ra.Se., che conosceva anche dai tempi della "(…)". In ogni caso, per i rapporti commerciali con la "(…)" s.r.l. si era interfacciato con l'imputato. Conosceva Ra.Ug. in quanto figlio di Se., ma non era a conoscenza di cosa facesse.

Lo.Ad., titolare della ditta "(…)" che si occupa di software gestionali, escusso come teste, ricordava di essere stato contattato da Ra.Se., che gli diceva che il figlio stava per aprire un'attività (appunto la "(…)" s.r.l.) e quindi aveva necessità di un software. Il rapporto commerciale proseguiva poi con entrambi, sia il padre che il figlio, i quali si consigliavano e consultavano fra loro per assumere le decisioni.

La teste Co.To., la ragioniera dipendente della "(…)" s.r.l., riferiva di essere stata assunta da (…).

Non negava la presenza del Ra.Se. presso la sede della società, che, a suo dire, veniva a trovare il figlio, senza impartirgli ordini. Riferiva di avere ricevuto sempre direttive dal solo Ra.Ug. e negava di essere a conoscenza di rapporti intrattenuti direttamente con fornitori e clienti da parte del padre.

Ch.Si., titolare della "(…) s.n.c.", società che aveva ereditato dai genitori, riferiva di avere avuto rapporti commerciali con la "(…)" s.r.l. Si relazionava generalmente con il dipendente Ri.Pa.

Conosceva Ra.Se. poiché, ai tempi in cui gestivano la sua ditta i suoi genitori, il Ra. si recava al negozio per la merce, ma presentandosi come titolare della ditta "(…)". Il teste precisava di non essere a conoscenza di chi fosse l'amministratore della "(…)" s.r.l., giacché si relazionava sempre con il suddetto dipendente. Conosceva Ra.Ug. come figlio di Ra.Se.

Anche Sa.Pa. dichiarava di avere avuto rapporti commerciali prima con la "(…)" e poi con la "(…)" s.r.l. Il suo punto di riferimento per gli ordini era sempre il dipendente di nome "Pa." (evidentemente Ri.Pa.). Conosceva Ra.Se., che aveva avuto modo di incontrare successivamente al fallimento. Tuttavia, non aveva avuto modo di relazionarsi con l'amministratore della società fallita, sicché non aveva idea di chi fosse ad amministrare la "(…)" s.r.l. Non aveva mai conosciuto, però, Ra.Ug.

Il teste Da.An., titolare della ditta "(…)", nella sostanza ha confermato di avere avuto rapporti commerciali con Ra.Se., sebbene fino al 2009 circa. Pur nell'imprecisione del ricordo, se cioè i rapporti erano con la ditta "(…)", ovvero con la "(…)" s.r.l. (in un primo momento il teste sembrava confermare i rapporti commerciali anche con quest'ultima ditta, come riferito in sede di indagini, ma poi si confondeva), in ogni caso non aveva mai trattato con Ra.Ug., che non sapeva neppure chi fosse.

Il teste Vi.Fa., commercialista, subentrato nella consulenza commerciale della "(…)" s.r.l. dopo la sua costituzione, chiamato dall'amministratore formale Ra.Ug., dichiarava che per quanto riguarda la gestione della società si era sempre interfacciato con Ra.Ug.

Conosceva ed aveva incontrato talvolta Ra.Se., con il quale, avendo esperienza del settore, scambiava opinioni. Trattandosi di padre e figlio, ovviamente fra i due vi era un naturale rapporto di confronto e consiglio, ma la strategia gestionale della società era del figlio.

Dalle prove testimoniali sopra riassunte emerge chiaramente come Ra.Se. quantomeno coadiuvasse di fatto nella gestione ed amministrazione della società fallita il figlio Ra.Ug.

Invero, la "(…)" s.r.l. sostanzialmente costituiva la prosecuzione della vecchia azienda dell'imputato, cioè la "(…)". La nuova società, che vedeva come soci i figli del Ra. e amministratore formale il figlio Ra.Ug., continuava ad essere gestita di fatto dall'imputato, che aveva mantenuto e proseguito i contatti con i suoi vecchi clienti (fornitore e acquirenti).

In tale senso si richiamano le dichiarazioni dei dipendenti Ri. e Ri., che facevano chiaramente riferimento ad una cogestione della società da parte del Ra.Se. con il figlio. I due avevano spesso animate discussioni su decisioni gestionali da prendere, a dimostrazione del fatto che la costante presenza dell'imputato nell'azienda non era semplicemente per fare visita al figlio (come dichiarato dalla Co.To. e dal commercialista Vi.Fa., che hanno tentato, non riuscendovi, di sminuire il rapporto tra padre e figlio e di ridurlo ad un semplice rapporto familiare, senza alcun riflesso sulla gestione della società), ma perché aveva un concreto interesse nella gestione della stessa. Nello stesso senso si richiama la testimonianza dell'altro dipendente della società (…) era Ro.

A conferma di ciò si richiama la testimonianza di Lo.Ad., che dichiarava che nel rapporto commerciale intrattenuto con la "(…)" s.r.l. si relazionava sia con Ra.Se. che con Ra.Ug., i quali si confrontavano e si consigliavano fra loro per gli aspetti decisionali; Il teste Im. ha riferito chiaramente di essere a conoscenza che amministratore formale della società fallita era Ra.Ug., ma il vero proprietario che "gestiva tutta la situazione" era Ra.Se.

Il teste Os. ha ricordato di avere appreso dal suo agente di commercio che il responsabile della "(…)" s.r.l. era il Ra.Se., con il quale aveva avuto modo anche di relazionarsi telefonicamente e, una volta, anche di persona. Anche i testi T., Ch. e Sa., che, nei rapporti commerciali con la "(…)" s.r.l., si relazionavano con dipendenti e collaboratori, conoscevano comunque il Ra.Se., mentre o non conoscevano proprio Ra.Ug., ovvero lo conoscevano come figlio dell'imputato, senza, però, sapere se avesse o meno interessi nella società fallita.

Ma a conferma definitiva del ruolo di amministratore di fatto della società fallita dell'imputato si richiama quanto emerso dalla relazione ex art. 33 L.F. del curatore fallimentare dott. Sa.

Invero, dagli allegati della relazione (precisamente ali. 3, atto pienamente utilizzabile: vedi Cass. pen. sez. V, 30.11.2017, n. 12338, e Cass. pen. sez. V, 17.5.2019, n. 38431) emerge che in sede di audizione dell'amministratore della società fallita in data 2.3.2013 si presentava spontaneamente Ra.Se., in qualità di genitore dell'amministratore formale, accompagnato dal commercialista dott. Fabrizio Viva. L'imputato riferiva in quella sede (ma non documentava la circostanza) di essersi presentato al posto del figlio poiché Ra.Ug. era in stato di salute precario. Tuttavia, Ra.Se. non si limitava a presentare eventuale documentazione della società fallita, rimandando (eventualmente) per gli opportuni chiarimenti ad una successiva audizione del figlio, ma si dichiarava disponibile a rendere personalmente sommarie informazioni circa la società amministrata dal figlio. È sufficiente leggere il verbale per rendersi conto di come Ra.Se. fosse a conoscenza nel dettaglio delle vicende societarie, fornendo notizie precise su tutti gli aspetti delle attività sociali (dalle sedi, ai rapporti bancari, all'esistenza di un fondo cassa o titoli di credito, all'esistenza di proprietà immobiliari, ovvero di contratti di assicurazione in corso, all'esistenza di protesti di assegni bancari e effetti cambiari, ai dipendenti).

Una tale conoscenza di tutti gli aspetti della gestione societaria non può che trovare la sua fonte nella diretta gestione della società fallita da parte del Ra.Se.

Invero, la conferma del suo ruolo gestorio di fatto non è legata alla circostanza che presentava parte della documentazione economico/contabile della fallita, ma al fatto che sì prestava a rendere dettagliate informazioni sulla vita societaria sostituendosi di fatto all'amministratore formale, tanto che quest'ultimo non veniva mai più escusso dal curatore fallimentare. L'audizione dell'appellante era stata talmente esaustiva da rendere del tutto superflua quella del formale amministratore.

Questa audizione non fa che confermare definitivamente quanto emerso dalle prove testimoniali, e cioè che Ra.Se. quantomeno coadiuvava, con eguali poteri, nella gestione della società fallita il figlio, formale amministratore (circa l'affermazione di penale responsabilità, quale amministrato di fatto, di soggetto in ordine al quale siano stati accertati elementi sintomatici di gestione o cogestione della società fallita si veda Cass. pen. sez. V, 22.4.1998, n. 9222 e Cass. pen. sez. 1, 12.5.2006, n. 18464).

L'appello va, pertanto, rigettato e l'appellante va condannato alla rifusione delle spese processuali di questo grado di giudizio.

Il numero di processi definiti nella medesima udienza ha reso opportuno indicare il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.

P.Q.M.
La Corte di Appello di Lecce

letti gli artt. 605 e 592 c.p.p.

CONFERMA

la sentenza del Tribunale di Lecce in data 1.7.2020 appellata da Ra.Se., che condanna al pagamento delle spese processuali di questo grado di giudizio.

Dispone la correzione dell'intestazione e del dispositivo della sentenza di primo grado nella parte in cui il nome dell'imputato è indicato come "Se." e non in quello corretto "Se.An.", mandando alla cancelleria per l'apposizione della relativa annotazione sull'originale.

Termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.

Così deciso in Lecce il 24 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 6 agosto 2024.

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