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Bancarotta fraudolenta: lo stato emotivo/psicologico non può assumere il ruolo di esimente o di scriminante, né escludere il dolo (Corte Appello Napoli n. 13164/24)


Bancarotta fraudolenta

1. La massima

In tema di bancarotta per distrazione, lo stato emotivo/psicologico non può assumere il ruolo di esimente o di scriminante rispetto ai fatti contestati né sostenere una asserita assenza del dolo del reato contestato. Le norme che vengono in rilievo pongono in capo all'imprenditore una serie di imperativi in ordine alla gestione patrimoniale e alla rendicontazione della società amministrata, dai quali non va certo esente colui che meramente si disinteressi o abbandoni, o assuma un atteggiamento inerte verso l'attività imprenditoriale.

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2. La sentenza integrale

Corte appello Napoli sez. VI, 17/01/2024, (ud. 25/10/2023, dep. 17/01/2024), n.13164

Svolgimento del processo

Con sentenza emessa in data 29.11.2016 il Tribunale di Avellino in composizione collegiale, all'esito del rito ordinario, ha ritenuto l'imputato D.GI. responsabile dei reati in epigrafe e lo ha condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali; dichiarato inabilitato all'esercizio di un'impresa commerciale ed incapace ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per anni dieci; dichiarato interdetto dai pubblici uffici per anni cinque. Avverso tale sentenza ha proposto appello la difesa dell'imputato per i seguenti motivi di appello, chiedendo:

- in via principale: ammettere l'appellante alla possibilità di poter definire il presente giudizio attraverso il rito abbreviato, come già richiesto in primo grado e rigetta la seconda la crisi difensiva immotivatamente dal giudice;

- assolvere l'imputato ai sensi dell'art. 530 co. 1 c.p.p. oppure quantomeno ai sensi dell'art. 530 c.p.p. perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto; il difensore appellante ha evidenziato come trattasi di un'azienda di famiglia di cui l'imputato non si era occupato più a partire dal 2008, atteso il sopraggiungere di problemi di salute, cosa che lo avevano portato a disinteressarsi della società, confidando nell'opera dei coadiutori. Si è, ancora, sottolineato come la sentenza di fallimento derivi dai crediti insoluti dovuti alla crisi del settore e come non vi fosse alcuna volontà del D.Gi. di alterare la par condicio creditorum, né di occultare le documentazioni, evidenziando, altresì, la scarsa attività di indagine posta in essere dalla curatela, la quale si sarebbe limitata ad un telegramma di convocazione la cui mancata risposta da parte dell'imputato non poteva opinione della difesa essere di per sé indice di volontà di occultamento o distrazione delle documentazioni contabili.

- in via subordinata mitigare la condanna, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e comuni, escludendo le aggravanti di cui all'art. 219 della legge fallimentare.

Si duole il difensore del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e soprattutto del riconoscimento dell'aggravante del danno di rilevante gravità.

L'udienza del 18/10/2022 è stata rinviata per carico di ruolo al (...), udienza in cui a seguito di trattazione scritta ai sensi dell'art. 23 D.L. 149/2020 conv. in L. 176/2020, esaminate le conclusioni scritte della Procura Generale e della difesa, la Corte ha deciso a seguito della camera di consiglio come da dispositivo che viene adesso motivato.


Motivi della decisione

Le doglianze difensive oggetto dell'impugnazione attengono a profili sia procedurali sia di merito della decisione gravata ed appare corretto, oltreché conforme a principi di logica progressione espositiva, principiare l'esame dai primi.

Sotto il primo profilo, la difesa rinnova la richiesta di definizione del giudizio attraverso il rito abbreviato, già avanzata in primo grado.

La doglianza è priva di fondamento e pertanto va rigettata.

La sentenza gravata ripercorre dettagliatamente le fasi preliminari del procedimento, dando atto di come la difesa, in sede di udienza preliminare, avesse formulato richiesta di rito abbreviato condizionato all'assunzione di due testimoni a difesa.

Rigettata dal GUP - vedasi verbale dell'udienza preliminare del 16/12/15; la stessa veniva reiterata innanzi al Tribunale pronunciate la sentenza appellata il quale, in data 29/11/16, rigettava la stessa non ritenendo l'escussione, a cui il rito era stato subordinato, necessaria ai fini del decidere. Alla medesima udienza il Tribunale dichiarava inammissibile per tardività l'istanza di giudizio abbreviato ed "secco" avanzata in quella sede dalla difesa dell'imputato.

Il procedimento seguito dal Tribunale appare immune da censure; la difesa è stata infatti messa in condizione di reiterare, prima dell'apertura del dibattimento, la richiesta già formulata in sede di udienza preliminare ai sensi dell'articolo 438 codice di procedura penale, come riformulato a seguito dell'intervento correttivo della Corte costituzionale, rigettando la stessa non essendo necessaria la prova a cui il rito era stato subordinato, e, soprattutto, rigettando l'ulteriore istanza di giudizio abbreviato semplice formulata per la prima volta in dibattimento e, pertanto, da considerarsi, come correttamente statuito dal Tribunale, tardiva. La Corte, pertanto, evidenzia, contestualmente rigettando il primo dei motivi d'appello spiegati, la correttezza procedurale dell'operato del Giudice di primo grado e la presenza, nella deliberazione dello stesso di congrua - e giuridicamente corretta-motivazione - vedasi verbale dell'udienza del 29/11/2016 del Tribunale di Avellino.

Passando all'esame dei motivi di merito spiegati, la difesa chiede l'assoluzione per l'odierno imputato, lamentando l'insussistenza del dolo necessario ai fini dell'integrazione dei reati contestati, contestando anche presunte lacune investigative. La difesa non nega che la carica di amministratore della fallita società (...) sia stata unicamente in capo all'imputato per tutta la durata dell'attività imprenditoriale; tuttavia, viene eccepito come a partire dal 2008 l'imputato "ha smesso qualsiasi carica sociale a causa di ripetute patologie che ad onor del vero lo hanno pregiudicato nel poter validamente compiere le attività imprenditoriali".

La difesa chiede altresì di considerare la grave crisi economica che ha colpito il settore edile sempre a partire dal 2008, sicché "si è aggiunto il grave disagio derivante dalla sopravvenuta cagionevolezza della salute dell'appellante, il quale anche psicologicamente e moralmente ha di fatto abbandonato ogni interesse personale, familiare e a maggior ragione imprenditoriale".

La tesi è infondata. In atti, vi è documentazione medica che attesta una serie di patologie a carico dell'imputato, che tuttavia in alcun modo rappresentano condizioni totalmente invalidanti o ostative al corretto svolgimento dell'attività imprenditoriale, né per quantità né per qualità dell'affezione in questione, dovendosi, ad ogni modo, evidenziare come ove ci si trovasse - e non è questo il caso - dinanzi ad ipotesi di patologie invalidanti ed totalmente inibenti la esplicazione dei doveri connessi alla carica di legale rappresentante di una società, ben potrebbe, la stessa, essere ceduta ad altro soggetto ove si voglia evitare un irreversibile stato di insolvenza.

Parimenti, il riferito stato emotivo/psicologico non può assumere il ruolo di esimente o di scriminante rispetto ai fatti contestati nè sostenere una asserita assenza del dolo del reato contestato. Le norme che vengono in rilievo pongono in capo all'imprenditore una serie di imperativi in ordine alla gestione patrimoniale e alla rendicontazione della società amministrata, dai quali non va certo esente colui che meramente si disinteressi o abbandoni, o assuma un atteggiamento inerte verso l'attività imprenditoriale. Né l'amministratore può invocare una generica responsabilità dei propri coadiutori, laddove gli obblighi di legge restano comunque in capo al primo, che ha anzi ha l'obbligo di vigilare sull'operato dei collaboratori. Infine l'assenza di qualsiasi spiegazione anche nel giudizio di primo grado in relazione alle sorti del non trascurabile compendio societario distratto diviene indice disvelatore di forte portata in relazione alla sussistenza del dolo del reato di cui all'articolo 216 L.F. sia nell'ipotesi distrattiva che di quella documentale, quest'ultima posta in essere verosimilmente al fine di impedire la ricostruzione dei beni sottratti alla par condicio creditorum.

Deraglia quindi il rilievo relativo alla poca consistenza delle indagini della curatela - che non si comprende come altro avrebbero potuto dipanarsi, non essendo neanche individuati nei motivi di appello ulteriori potenziali attività - e medesima sorte ha la doglianza relativa alla individuazione di una missiva inviata dal curatore come unica attività per contattare il D.Gi., la cui mancata risposta non sarebbe, secondo la difesa, indice della volontà in cui si sostanzia il dolo della bancarotta; la circostanza da ultimo individuata non appare, al contrario di quanto sostenuto nel libello introduttivo dell'appello, di portata neutra, bensì correttamente da porsi alla base del ragionamento disvelante il dolo e ciò in aggiunta al fatto che il D.Gi. avrebbe ben potuto, in sede processuale, o successivamente durante il procedimento penale pendere giustificazioni in merito alle sorti dei beni distratti.

E' pertanto valido il ragionamento di tipo inferenziale che ha permesso al Tribunale impugnato di risalire alla volontà dolosa dell'imputato in merito ai reati contestati, tenuto altresì conto dell'assenza di elementi concreti di segno contrario, eventualmente indicativi di un diverso atteggiamento volitivo. Appaiono, come prima anticipato, del tutto prive di fondamento le doglianze relative a presunte lacune investigative, posto che il compendio probatorio si compone della relazione del curatore fallimentare e degli accertamenti della Guardia di Finanza che evidenziano gravi irregolarità ed omissioni relative alla rendicontazione economica della società fallita.

Ed invero, dalla relazione del curatore, redatta ex art. 33 L.F., emergono peraltro elementi attivi nel patrimonio sociale, per un ammontare complessivo di oltre due milioni di euro, alla data dell'ultimo bilancio depositato il 31.12.2008. Nulla di ciò è stato mai rinvenuto, pur trattandosi di beni di varia tipologia, tra cui immobilizzazioni materiali, rimanenze, disponibilità liquide, crediti, ratei e riscontri meglio precisati nel capo di imputazione. La destinazione di detti beni non è stata in alcun modo chiarite dall'odierno imputato, che ben avrebbe potuto indicarne le sorti senza demandare il rinvenimento di tali beni ha non meglio identificate indagini, con l'unica conseguenza della consapevole e volontaria distrazione e sottrazione degli stessi ai creditori sociali. Lo stesso discorso è da farsi in ordine alla sottrazione delle scritture contabili, posto che l'accertamento della Guardia di Finanza ha messo in luce l'omesso deposito di libri e scritture relativi agli anni di operatività della società fallita (dal 2008 al 2010) tale da impedire la ricostruzione dei movimenti patrimoniali della società, integrandosi gli estremi oggettivi e soggettivi della bancarotta fraudolenta documentale essendo la stessa finalizzata ad impedire la ricostruzione della gestione sociale.

La Corte ritiene pertanto di aderire alla ricostruzione dei fatti operata in primo grado, sorretta da ampia e lineare motivazione, assolutamente condivisibile ed in linea con le risultanze istruttorie, a loro volta sufficienti ai fini del decidere.

Non trovano approdo nell'odierna decisione le motivazioni spiegate dal difensore nell'ulteriore memoria conclusiva, in addenda a quella già depositata per l'udienza del 19 ottobre 2022. In tale ultimo scritto la difesa spiega invero, in conclusione, le medesime richieste rassegnate nell'atto d'appello e con le prime memorie conclusive depositate, ma articola, nella parte motiva dello scritto sottoposto alla Corte, valutazioni inerenti l'avvenuto della novella legislativa in materia di legge fallimentare, ovvero il ed Codice della crisi di impresa ed insolvenza.

La difesa ha, in sostanza, sostenuto la verificazione di una disparità di trattamento "provocata dalla legge extrapenale" atteso che, laddove il Di.Gi. avesse avuto l'opportunità di ottenere gli odierni rimedi prefallimentari non sarebbe incorso in fallimento, con conseguente non verificazione della condizione obiettiva di punibilità prevista dalla Legge Fallimentare perché potesse essere condannato. L'assunto, in disparte la tardività delle nuove argomentazioni, inserite per la prima volta nelle memorie conclusive, non pare avere alcun addentellato nè giuridico né fattuale in relazione alla vicenda che oggi occupa il Tribunale, attesa non soltanto l'epoca di commissione dei fatti, ma soprattutto la coniugazione dello stesso in termini evidentemente ipotetici; di certo non può essere assegnata alla eventualità descritta (ipotetico ricorso del D.GI. a stranienti "prefallimentari" e conseguente evitamento del fallimento ed impossibilità di essere imputato di reati fallimentari, non sussistendo la condizione di procedibilità) riveste caratteri astratti e soprattutto poco confacenti con il fatto storico ad oggetto dell'odierno giudizio, trattandosi per espressa ammissione della difesa, di un comportamento; quello del D.Gi., di imprenditore assolutamente inerte per diversi anni.

E questo senza voler rammentare come anche la previgente disciplina contemplasse strumenti di risoluzione della crisi ovvero procedure tese alla risoluzione di situazioni di crisi transeunte non ancora sfociate nella insolvenza - vedasi, ad esempio, la disciplina del concordato.

Infondata, e a dire il vero neanche dotata di particolare intelligibilità, è anche l'argomentazione che ha individuato il nuovo Codice Della Crisi e dell'Insolvenza di Impresa quale incisivo sulla struttura del reato fallimentare (la difesa ha sostenuto che la novella legislativa influiva sulla tipicità del reato in quanto la dichiarazione di fallimento diveniva un elemento marginale da inquadrarsi nella liquidazione giudiziale e non automatico e sulla antigiuridicità "atteso che la definizione di crisi e di insolvenza escludeva una diretta punibilità e prevedeva l'esimente derivante dall'effettivo accertamento su prospetti contabili circa lo stato di crisi".

In disparte la non chiara formulazione delle motivazioni poste all'attenzione della Corte, quest'ultima ad ogni modo evidenzia, e tanto basti a motivare l'infondatezza delle argomentazioni difensive, come la Suprema Corte sia stata chiara nell'evidenziare che "in tema di bancarotta fraudolenta, sussiste piena continuità normativa fra la previsione dell'art. 216 legge fall., e l'art. 322 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (ed. Codice della crisi e dell'insolvenza di impresa) stante l'identità della formulazione delle due norme incriminatrici, al netto di non rilevanti, in sede penale, aggiornamenti lessicali, sicché la disciplina antecedente, da applicarsi ai sensi delle disposizioni transitorie di cui all'art. 390, comma 3, Codice della crisi, in ordine a tutti i casi in cui vi sia stata dichiarazione di fallimento, non determina alcun trattamento deteriore, rilevante ai fini dell'art. 2 cod. pen." Cass. Sez. 5, Sentenza n. 33810 del 26/05/2023 Ud. (dep. 01/08/2023) Rv. 285107-01. Ancora più chiaramente si esprime la Corte in parte motiva nel medesimo arresto ora citato allorquando chiarisce che "la disciplina dell'art. 322prevista dal Codice della crisi di impresa, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, è in vigore dal 01 luglio 2022, per quanto previsto dall'art. 389, comma 1, del medesimo decreto, come modificato dall'art. 42, comma 1, lett. a) del di 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79. Tanto premesso, deve evidenziare questa Corte come la nuova disposizione incriminatrice, che reca la medesima rubrica "Bancarotta fraudolenta", replica le stesse condotte già previste nell'art. 216 legge fall., cosicché l'unico elemento innovativo è di natura lessicale e attiene all'uso dei termini "fallito" e "fallimento", che vengono sostituiti con il riferimento a "l'imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale" e "liquidazione giudiziale", nonché alla modifica della disciplina delle pene accessorie fallimentari, conseguente alla sentenza della Corte Costituzionale, n. 222/2018, che già aveva prodotto i suoi effetti sostanziali. D'altro canto, è stato correttamente osservato in dottrina come il principio di continuità fra le fattispecie criminose, prefissato dall'art. 2, comma 1, lett. a), I. 155 del 2017, è rifluito nella previsione dell'art. 349 del Codice della crisi che stabilisce con norma generale: "1. Nelle disposizioni normative vigenti i termini "fallimento", "procedura fallimentare", "fallito" nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni "liquidazione giudiziale", procedura di liquidazione giudiziale" e "debitore assoggettato a liquidazione giudiziale" e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie". Proprio il riferimento alla "salvezza della continuità delle fattispecie" viene anche declinato attraverso la disciplina dell'art. 390, comma 3, del Codice della crisi, che prevede che in relazione alle procedure a trattarsi con la disciplina della legge fallimentare, "quando sono commessi i fatti puniti dalle disposizioni penali del titolo sesto del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della sezione terza del capo II della legge 27 gennaio 2012, n. 3, ai medesimi fatti si applicano le predette disposizioni". In sostanza, il legislatore del Codice della crisi per sgombrare il campo da equivoci, pur a fronte, nel caso in esame relativo agli artt. 216 legge fall., e 322 Codice della crisi, di precetti e sanzioni assolutamente identici, comunque prevede che debba, per i fatti anteriori alla vigenza dell'art. 322, continuare ad applicarsi la disciplina dell'art. 216 legge fall.

5.2. D'altro canto, a fronte di una chiara volontà normativa, nel caso in esame il ricorrente non evidenzia quale sia il trattamento deteriore, rilevante ai sensi dell'art. 2 cod. pen., che verrebbe a subire per l'applicazione della precedente disciplina e dunque su cosa fondi la dedotta violazione dell'art. 3 Cost., determinata dalla norma transitoria denunciata di illegittimità costituzionale, cosicché la relativa questione difetta certamente di rilevanza, oltre ad apparire manifestamente infondata per la sostanziale sovrapponibilità della disciplina penalistica come innovata rispetto a quella applicata nel caso in esame (nello stesso senso, in motivazione, Sez. 5, n. 4772 del 2020, Mattiazzo).

5.3. Va evidenziato come neanche il mutamento quanto al profilo civilistico delta disciplina ha rilievo, in quanto la sentenza dichiarativa di fallimento fa stato in sede penale e risulta immutata in assenza di esplicite previsioni normative in senso opposto, mentre che nel caso in esame esiste la richiamata norma transitoria che ne salvaguarda l'efficacia. Quanto alle ricadute penali delle modifiche in sede civile, va inoltre richiamato l'autorevole intervento che ha consolidato in modo definitivo il principio per cui il giudice penale, investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti R.D. 16 marzo 1942, n. 267, non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell'impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell'imprenditore. Il caso era proprio relativo a una modifica della disciplina dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, apportata all'art. 1 R.D. n. 267 del 1942 dal D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che le Sezioni Unite chiarirono non avere alcuna influenza ai sensi dell'art. 2 cod. pen. sui procedimenti penali in corso (Sez. U, n. 19601 del 8 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398 - 01; Sez. 5, n. 21920 del 15/03/2018, Sebastianutti, Rv. 273188 - 01; Sez. 5, n. 9279 del 08/01/2009, Carottini, Rv. 243160 - 01). Per altro, in relazione alla evocata sentenza delle Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243586, richiamata dal ricorrente, va osservato, in sintonia con quanto affermato da Sez. 5, n. 12056 del 20/1/2021, Profeta, n.m. che nel caso in esame si verte, pertanto, in ipotesi del tutto diversa da quella richiamata dal ricorrente, perché relativa all'esplicita abrogazione dell'istituto dell'amministrazione controllata ed alla soppressione di ogni riferimento ad esso contenuto nella legge fallimentare (art. 147 D.lgs. n. 5 del 2006), rispetto alla quale è stata, coerentemente, ritenuta l'abolitio criminis: l'abrogazione dell'istituto dell'amministrazione controllata e la soppressione di ogni riferimento ad esso contenuto nella legge fallimentare (art. 147 D.lgs. n. 5 del 2006) hanno determinato l'abolizione del reato di bancarotta societaria connessa alla suddetta procedura concorsuale (art. 236, comma secondo, R.D. n. 267 del 1942), mentre, nel nuovo codice, al "fallimento" è stata sostituita la procedura di "liquidazione", senza che siffatta modificazione abbia in alcun modo inciso sulla rilevanza penale dei fatti previsti dal R.D. 267/194, integralmente richiamati dall'art. 329 del "Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza". Le nuove norme si pongono, quindi, in perfetta continuità normativa con le precedenti disposizioni contenute del Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267. 5.4 Pertanto, in tema di bancarotta fraudolenta, sussiste piena continuità normativa fra la previsione dell'art. 216 legge fall., e l'art. 322 del Codice della crisi e dell'insolvenza di impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) in vigore dal 01 luglio 2022, per quanto previsto dall'art. 389, comma 1, del medesimo decreto, come modificato dall'art. 42, comma 1, lett. a) del d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79, per l'identità della formulazione delle due norme incriminatrici, al netto di non rilevanti, in sede penale, aggiornamenti lessicali. Pertanto la disciplina antecedente, da applicarsi ai sensi della disciplina transitoria dell'art. 390, comma 3, Codice della crisi, in ordine a tutti i casi in cui vi sia stata dichiarazione di fallimento, non determina alcun trattamento deteriore, rilevante ai fini dell'art. 2 cod. pen".

Alla luce delle adamantine parole della Suprema Corte le argomentazioni spese dalla difesa con la memoria conclusiva da ultimo depositata risultano tutte prive di fondamento come infondate appaiono le sostenute violazioni degli artt. 2,3,27 e 97 della Costituzione - solamente citate ma non declinate in una effettiva eccezione di incostituzionalità che ad ogni modo sarebbe da respingersi appunto perché manifestamente infondata per la sostanziale sovrapponibilità della disciplina penalistica come innovata rispetto a quella applicata nel caso in esame.

Per ciò che attiene i motivi di appello inerenti il trattamento sanzionatorio, la difesa contesta (erroneamente) l'applicazione dell'aggravante del danno di rilevante entità (art. 219 comma 1 L.F.), laddove l'aggravante riconosciuta in sentenza dal giudice di prime cure è quella relativa al concorso tra più fatti di bancarotta (art. 219 comma 2 L.F.), pienamente sussistente nel caso di specie; il motivo spiegato è, pertanto, sul punto da rigettarsi in quanto evidentemente infondato. Medesimo arresto assume la Corte in relazione alla invocazione, da parte dell'appellante, delle circostanze attenuanti generiche.

In ordine all'ultimo punto bisogna evidenziare come l'entità del danno patrimoniale oggetto dell'imputazione, per quanto non tradottasi nella contestazione della specifica aggravante, vada, come condivisibilmente già fatto in sede di primo grado, comunque considerata come fattore ostativo alla concessione delle attenuanti generiche, connotando, invero, la condotta, di particolare disvalore. Non assume alcun rilievo la mancata costituzione di parti civili, poiché il danno in oggetto viene valutato alla luce della diminuzione nella massa attiva, che sarebbe stata altrimenti disponibile per il riparto tra i creditori.

Occorre invece procedere ad una riforma della sentenza impugnata per ciò che concerne la misura della pena accessoria, in ossequio alla sentenza della Corte Costituzionale n. 222/2018, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità della misura fissa delle pene accessorie di cui all'art. 216 L.F.

Alla luce della pronuncia in parola, la Corte ritiene di dover rimodulare la sanzione accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di imprese commerciali e di incapacità all'esercizio di uffici direttivi presso qualsiasi impresa nella misura ritenuta congrua, pari ad anni cinque, attesa comunque l'ingente entità del danno patrimoniale causato, con conferma nel resto dell'impugnata sentenza.

Tenuto conto del complessivo carico di lavoro della Corte e del Consigliere estensore, si fissa in giorni 90 il termine per il deposito dei motivi.


P.Q.M.

Visti gli artt. 605 c.p.p. e 23 D.L. 149/2020, in riforma della sentenza n. 3589 emessa in data 29/11/2016 dal Tribunale di Avellino appellata da D.GI., ridetermina la durata delle pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa in anni 5.

Conferma nel resto l'impugnata sentenza.

Indica il termine di giorni 90 per il deposito dei motivi.

Così deciso in Napoli il 25 ottobre 2023.

Depositata in Cancelleria il 17 gennaio 2024.

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