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Non pagare le imposte non basta a configurare la bancarotta impropria senza un nesso causale con il fallimento (Tribunale di Nola n.942/25)

Aggiornamento: 20 set


Non pagare le imposte non basta a configurare la bancarotta impropria senza un nesso causale con il fallimento (Tribunale di Nola n.942/25)


Introduzione

La decisione del Tribunale in commento esclude l’applicazione dell’art. 223, co. 2, n. 2, L. Fall. e riqualifica i fatti in art. 217, co. 1, n. 4, valorizzando la preesistenza integrale del debito erariale (già nel 2010) e la mancanza di incidenza causale autonoma delle condotte successive: non “cagionamento” del fallimento, ma aggravamento di un dissesto in atto.

Il caso consente di riordinare i criteri di distinzione tra “operazioni dolose” e bancarotta semplice alla luce del diritto vivente:

(i) oggetto del dolo è l’operazione, non l’evento;

(ii) occorre prevedibilità del dissesto come effetto delle operazioni;

(iii) è decisivo un nesso eziologico qualificato con il fallimento, non bastando una mera gestione in perdita;

(iv) la preesistenza di cause di dissesto non spezza il nesso ex art. 41 c.p., ma impone di accertare se le nuove operazioni abbiano efficacia concausale concreta verso la crisi irreversibile.


1. Struttura della fattispecie e doppio paradigma del dolo

L’art. 223, co. 2, n. 2, contempla due ipotesi alternative:

a) “cagiona con dolo il fallimento” (dolo diretto sull’evento: il dissesto/fallimento è voluto);

b) “per effetto di operazioni dolose” (dolo generico/anche eventuale sulla condotta: l’evento non è scopo dell’agente, ma esito prevedibile di operazioni consapevolmente antidoverose o intrinsecamente pericolose). La giurisprudenza ribadisce che non è richiesto il dolo specifico di provocare il fallimento; basta la coscienza e volontà di operazioni che rendano prevedibile il dissesto che conduce alla dichiarazione formale.

Sul piano oggettivo, rientrano nelle “operazioni dolose” anche condotte omissive (p. es. scelte reiterate di inadempimento) e operazioni antieconomiche intrinsecamente rischiose (leve finanziarie insostenibili, frodi carosello, leasing “capestro”, affitti di ramo a canoni incongrui ecc.), anche se non producono immediato depauperamento algebrico ma innescano o aggravano un dissesto prevedibilmente destinato al fallimento.


2. Nesso causale con l’evento fallimentare

L’evento penalmente rilevante rimane la dichiarazione di fallimento (evento “formale”), mentre il “dissesto” attiene alla catena causale. La preesistenza di una causa efficiente non interrompe il nesso, operando il concorso causale ex art. 41 c.p.; tuttavia il giudice deve verificare se le operazioni sopravvenute abbiano apportato un apporto eziologico non marginale (incremento di esposizione, alterazione degli equilibri finanziari, aggravamento non reversibile).

La giurisprudenza più recente e consolidata:

  • ammette le operazioni dolose omissive (p. es. sistematico mancato versamento fiscale/previdenziale) quando la scelta gestionale è consapevole e idonea a condurre al dissesto;

  • chiarisce che l’operazione dolosa può consistere in schemi intrinsecamente pericolosi, in cui il fallimento è esito prevedibile (anche a titolo di dolo eventuale) dell’azzardo gestionale.


3. La decisione

La decisione del Tribunale nolano si concentra sull’interpretazione dell’art. 223, co. 2, n. 2, L. Fall., disposizione che estende la bancarotta fraudolenta impropria a chi abbia cagionato il fallimento “per effetto di operazioni dolose”.

La difficoltà applicativa risiede nel distinguere le condotte che incidono causalmente sull’insorgere del dissesto da quelle che, invece, ne determinano soltanto un aggravamento o un prolungamento.

Il Collegio ha posto in evidenza alcuni elementi determinanti:

  • l’intera esposizione verso l’Erario e gli enti previdenziali – pari a circa 593.000 euro – risultava già maturata nel 2010, prima dell’assunzione delle cariche da parte degli imputati.

  • gli amministratori subentrati hanno sì proseguito l’attività omettendo ulteriori adempimenti, ma senza introdurre un autonomo fattore di dissesto; le omissioni non hanno inciso sull’eziologia originaria della crisi.

  • la dichiarazione giudiziale è arrivata sei anni dopo, quando la situazione debitoria era già irreversibile.

Da questa ricostruzione il Tribunale ha tratto la conclusione che non ricorre il nesso causale qualificato richiesto dall’art. 223, co. 2, n. 2, tra condotta dolosa e fallimento.

Constatata l’assenza di un rapporto di causalità tra condotte successive e dissesto, i giudici hanno ricondotto le omissioni fiscali e gestionali nell’alveo dell’art. 217, co. 1, n. 4, L. Fall. (bancarotta semplice per aggravamento del dissesto).Si tratta, come noto, di una fattispecie colposa che punisce l’amministratore che, pur consapevole dell’insolvenza, non chiede il fallimento o persevera nella gestione aggravando il pregiudizio.

Le conseguenze sono state rilevanti:

  • per uno degli imputati è stata dichiarata la prescrizione (essendo decorso il termine massimo previsto dal combinato disposto artt. 157–161 c.p.);

  • per l’altra imputata è seguita condanna, ma a titolo di bancarotta semplice e non fraudolenta, con un trattamento sanzionatorio più mite.


4. Osservazioni conclusive

La pronuncia chiarisce che la responsabilità penale per bancarotta da operazioni dolose non può fondarsi su una generica prosecuzione della gestione in perdita.Occorre verificare:

  • se l’operazione o l’omissione abbia rappresentato una scelta gestionale autonoma e consapevole;

  • se abbia prodotto un incremento significativo del dissesto con efficacia causale propria;

  • se, ex ante, fosse prevedibile che da quella condotta sarebbe scaturito il fallimento.

In mancanza di tali elementi, il comportamento dell’amministratore, pur censurabile, si colloca nell’area della colpa grave e viene assorbito dall’art. 217 L. Fall.


5. La sentenza integrale

Tribunale di Nola n.942/25

Intestazione

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Collegio B, così composto

dott.ssa Clelia Cesarano Presidente estensore

dott.ssa Gemma Sicoli Giudice

dott.ssa Marina Russo Giudice

all’udienza del 4 giugno 2025, ha pronunciato e pubblicato mediante

lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

nei confronti di:

T. – libera, assente

difesa di fiducia dall’avv. G.

C. – libero, assente

difeso di fiducia dagli avv. Federica Ferraro e Fabrizio D’Urso – presente il

secondo anche in sostituzione del primo

IMPUTATI

(come da foglio allegato)

Conclusioni delle parti

Il pubblico ministero chiede la condanna di T. alla pena di anni sei di reclusione e la condanna di C. alla pena di anni quattro di reclusione.

Il difensore di T. chiede l’assoluzione ex art. 530 co. 2 c.p.p. per

entrambi i reati ascritti all’imputata; in subordine, chiede il riconoscimento delle

circostanze attenuanti generiche prevalenti o equivalenti alla contestata recidiva, il minimo della pena e i benefici di legge.

Il difensore di C. chiede l’assoluzione; in subordine, chiede il minimo della

pena e i benefici di legge.

IMPUTATI

C., T,

1) del delitto di cui agli artt. 223 co. 2 nr. 2, 219 L.F. /R.D. nr. 267 del 1942 e succ mod., perché, C., nella qualità di amministratore unico dal 13.12.2010 al 24.08.2012, T., nella qualità di amministratore unico dal 24.08.2012 e fino alla data del fallimento della società "M." dichiarato con sentenza del Tribunale di Nola n. 103/16 del 04.10.2016, attraverso operazioni

dolose - concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o comunque nel compimento di atti intrinsecamente pericolosi per l'andamento economico finanziario dell'impresa

- cagionavano il dissesto societario.

Le operazioni dolose sono consistite:

- a partire dall'anno di esercizio 2010 in ripetute attività di autofinanziamento, attraverso un sistematico

inadempimento delle obbligazioni fiscali e il mancato accantonamento del trattamento di fine di rapporto

(TFR), cui è conseguita una forte esposizione debitoria sia nei confronti dell'Erario che dei lavoratori,

con la maturazione di un debito complessivo pari ad euro 593.678,00.

In Nola, il 04.10.2016 (data di dichiarazione del fallimento)

T.

2) del delitto di cui agli art. 216 comma 1 n. 2 e 223 comma 1 RD 267/42, perché, in qualità di

amministratore della società "M. S.r.l., dichiarata fallita dal Tribunale di Nola con sentenza

nr. 103/16 Reg. Sent. del 04.10.2016, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, sottraeva i libri sociali

e le scritture contabili obbligatorie per non consentire la ricostruzione del patrimonio della fallita società.

In Nola (NA) il 04.10.2016 (data di dichiarazione di fallimento).

Recidiva specifica per T.

Recidiva per C.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Con decreto che dispone il giudizio del 13 aprile 2023, gli imputati T. e C.

  sono stati tratti a giudizio innanzi a questo Tribunale in composizione collegiale per rispondere

dei reati di bancarotta fraudolenta fallimentare suindicati.

All’udienza del 7 luglio 2023, in sede di verifica della regolare costituzione delle parti, si è disposto

procedersi in assenza dell’imputata T. ed è stata disposta la rinnovazione della notifica

dell’atto introduttivo, oltre che del verbale di udienza, per l’imputato C..

All’udienza del 22 novembre 2023, è stata confermata la dichiarazione di assenza dell’imputato C., già pronunciata in udienza preliminare; è stata rigettata l’istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire dell’imputata T.; non essendo presenti testi, l’udienza è stata rinviata.

All’udienza del 23 febbraio 2024, è stato dichiarato aperto il dibattimento e sono state ammesse le prove richieste dalle parti; le parti hanno concordato l’acquisizione della relazione del curatore fallimentare al fascicolo dibattimentale, rinunciando all’esame testimoniale del curatore dott.   Celeste, e il

Collegio ha disposto in conformità, revocando l’ordinanza ammissiva del teste; la difesa dell’imputata

T. ha anticipato la richiesta ex art. 507 c.p.p. di esame dei testi dott. Mauro D.  e De Marco

Vincenzo; l’udienza è stata rinviata per l’esame degli imputati e per la decisione su eventuali richieste di

integrazione probatoria ex art. 507 c.p.p.

All’udienza dell’8 maggio 2024, gli imputati non comparendo hanno tacitamente rinunciato all’esame;

esaurita l’istruttoria dibattimentale e confermata la richiesta ex art. 507 c.p.p. anticipata alla precedente udienza dalla difesa dell’imputata T., il Collegio ha ammesso i testi dott. Mauro D. 

(commercialista, addetto alla contabilità della società fallita) e De Marco Vincenzo (dipendente della medesima società).

All’udienza del 14 giugno 2024, è stato sentito il teste dott. Mauro D.  ed è stato disposto rinvio

per sentire l’altro teste.

Dopo l’udienza del 18 ottobre 2024, rinviata per assenza del teste De Marco, all’udienza del 13 dicembre 2024, essendo mutata la composizione del Collegio, sono state rinnovate le formalità di apertura del dibattimento e, non avendo le parti richiesto la ripetizione delle prove orali già assunte, si è disposto procedersi oltre; è stata revocata l’ordinanza ammissiva del teste De Marco, non rintracciato per la citazione, poiché si è ritenuto che la sua testimonianza non fosse più necessaria ai fini della decisione.

Dopo l’udienza del 26 marzo 2025, rinviata per l’anomala composizione del Collegio, all’udienza del 4 giugno 2025, si è esaurita l’istruttoria dibattimentale con l’acquisizione di documentazione prodotta dal p.m.; il Presidente ha dichiarato utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti acquisiti al fascicolo dibattimentale e ha invitato le parti a concludere; dopo la discussione delle parti, il Collegio si è ritirato incamera di consiglio per la deliberazione, pronunciando all’esito sentenza pubblicata in udienza mediante lettura del dispositivo.

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Secondo l’ipotesi accusatoria, gli imputati nelle rispettive qualità avrebbero tenuto condotte di bancarotta fraudolenta impropria in relazione al fallimento della società M. SUD s.r.l., dichiarato con

sentenza n. 103/2016 pronunciata dal Tribunale di Nola il 4 ottobre 2016.

Precisamente, l’imputato C., in qualità di amministratore unico dal 13 dicembre 2010 al 24

agosto 2012, e l’imputata T.  , in qualità di amministratore unico dal 24 agosto 2012 fino alla dichiarazione di fallimento, avrebbero cagionato il fallimento della società attraverso operazioni dolose, consistite nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, che generava un debito nei confronti dell’Erario pari a 593.678,00 euro.

Inoltre, l’imputata T., nella medesima qualità, avrebbe sottratto i libri e le scritture contabili della fallita per non consentire la ricostruzione del patrimonio, al fine di recare pregiudizio ai creditori.

Ebbene, la prospettazione della pubblica accusa ha trovato conferma nelle prove assunte in dibattimento e, in partiC.re, nella relazione del curatore fallimentare dott.   Celeste, che è stata acquisita con l’accordo delle parti e, quindi, è pienamente utilizzabile ai fini della decisione.

Non vi è dubbio che la ricostruzione fattuale fornita dal curatore sia attendibile e veritiera, trattandosi di

un soggetto qualificato e terzo rispetto alla vicenda processuale, le cui dichiarazioni appaiono chiare,

precise e coerenti.

D’altra parte, quanto riferito dal curatore ha trovato riscontro nelle altre prove presenti in atti.

Su richiesta del p.m., sono state acquisite al fascicolo dibattimentale le seguenti prove documentali:

- la sentenza n. 103/2016, con cui in data 5 ottobre 2016 il Tribunale di Nola-Seconda Sezione

Civile ha dichiarato il fallimento della M. SUD s.r.l.;

- la visura camerale storica della società fallita, contenente informazioni dettagliate sulla storia della

società, con precisa indicazione di tutte le modifiche e variazioni avvenute nel corso degli anni;

- la lista delle cartelle esattoriali e degli avvisi dell’Agenzia delle Entrate-Riscossioni, che al 22

giugno 2020 risultavano non pagati o pagati parzialmente dalla società fallita.

Inoltre, è stato sentito il teste dott. Mauro D. , commercialista che, insieme al collega di studio

dott. Pasquale Barra, si era occupato della contabilità della società fallita fino al 2010-2011. In mancanza

di evidenze di segno contrario, non si può dubitare dell’attendibilità anche di questo teste, trattandosi di un teste terzo e qualificato, che ha reso dichiarazioni chiare, precise e coerenti.

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Dalle fonti di prova indicate sono emerse le seguenti vicende relative alla società fallita. La società M. SUD s.r.l., avente sede legale in San Gennaro Vesuviano alla via Napoli n. 174

(Rione Gescal), veniva costituita nel 2005 sotto forma di società a responsabilità limitata con la denominazione O. s.r.l.

Originariamente, la società aveva come oggetto sociale diverse attività, dall’edilizia alla costruzione di impianti, e aveva sede legale in Napoli (prima a Corso Umberto n. 154 e poi a via Toledo n. 156), oltre che un’unità operativa in Napoli alla via Crispi n. 36/A.

Dalla costituzione della società fino al 2010, la carica di amministratore unico era ricoperta da tale C.

Maria Cristina. Dall’8 marzo 2010, la medesima carica era assunta da tale C.Gaetano fino al 6

dicembre 2010, quando diveniva amministratore unico l’imputato C. (con atto iscritto il 13

dicembre 2010).

Il 20 marzo 2012, con atto iscritto il 19 aprile 2012, tutte le quote della società erano trasferite all’imputata

T.  , che così diveniva socio unico, e, con atto iscritto il 24 agosto 2012, la

denominazione sociale cambiava in M. SUD s.r.l., mutava l’oggetto sociale e diventavano

attività prevalente “lavori di carpenteria metallica presso terzi”), l’imputata T. assumeva la carica

di amministratore unico.

Il 5 ottobre 2016, il Tribunale di Nola-Seconda Sezione Civile dichiarava il fallimento della società con

sentenza n. 103/2016, su ricorso di alcuni lavoratori dipendenti che lamentavano il mancato pagamento

del trattamento di fine rapporto (T.F.R.).

Il curatore fallimentare, dott.   Celeste, non rinveniva i libri e le scritture contabili, che non solo

non erano stati depositati ma non gli venivano neppure consegnati successivamente dall’amministratore

unico, l’imputata T..

Il curatore contattava il depositario delle scritture contabili, che dagli archivi dell’anagrafe tributaria

risultava essere il dott. Pasquale Barra. Costui trasmetteva alla curatrice un verbale datato 30 marzo 2012,

dal quale risultava che la documentazione contabile della società era stata consegnata all’imputata

T., in qualità di amministratore unico.

Quest’ultima circostanza è stata confermata in dibattimento dal teste dott. Mauro D. , il quale

ha riferito di essere un collega di studio del dott. Barra e di essersi occupato, insieme a quest’ultimo, della

contabilità della società fallita fino al 2010-2011.

L’ultimo bilancio depositato presso l’ufficio del registro delle imprese risaliva al 2010 e riportava i seguenti

dati: immobilizzazioni per un totale di 205.796,00 euro; attivo cirC.nte (rimanenze, crediti, disponibilità)

pari a 700.659,00 euro; perdita di esercizio di 17.897,00 euro; residuo patrimonio netto pari a 31.801,00

euro; debiti per un totale di 864.907,00 euro.

Dagli archivi dell’Anagrafe Tributaria, invece, emergeva che l’ultima dichiarazione presentata era relativaall’anno 2011 (Comunicazione Annuale Dati IVA).

Il curatore non riusciva a rintracciare né la sede legale della società, né eventuali sedi operative e, pertanto,

non poteva procedere alle operazioni di inventario dei beni. Nel dettaglio, si recava presso l’indirizzo della sede legale e rinveniva solo abitazioni; mentre, presso l’indirizzo della sede operativa risultante dagli “archivi camerali” (in Napoli alla via Crispi n. 36/A), apprendeva dal portiere dello stabile che la società si era allontanata diversi anni prima.

Il curatore accertava, altresì, che la società non era proprietaria di beni immobili, ma risultava intestatari di un furgone immatriC.to nel 1988 e mai consegnato alla curatela. Ad eccezione di quest’ultimo bene, che probabilmente era un “mezzo oramai in disuso”, non si accertava attivo patrimoniale realizzabile.

Quanto all’esposizione debitoria della società fallita, nell’ambito della procedura concorsuale venivano ammessi al passivo crediti per l’importo di 540.985,75 euro e il principale creditore risultava essere Equitalia Sud s.p.a. In partiC.re, dall’estratto di ruolo (presente in atti) emergeva che tra gli enti creditori vi era l’INPS e l’Amministrazione Finanziaria e si accertava che i debiti erariali erano tutti relativi al “periodo 2010”.

In mancanza della documentazione contabile, di bilanci e dichiarazioni fiscali recenti, per il curatore risultava impossibile la ricostruzione del patrimonio della società fallita, che probabilmente aveva smesso di operare dal 2010, come si evinceva anche dal ricorso fallimentare presentato dai lavoratori dipendenti della società.

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Alla luce delle risultanze probatorie analizzate, il Collegio ritiene che i fatti di cui all’imputazione siano stati provati oltre ogni ragionevole.

In primo luogo, è stato dimostrato che l’imputato C. ricopriva la carica di amministratore unico della società M. SUD s.r.l. dal 13 dicembre 2010 al 24 agosto 2012 e l’imputata T.   ricopriva la medesima carica dal 24 agosto 2012 fino alla dichiarazione di fallimento della società.

Ancora, è stato accertato che la società, costituita nel 2005, subiva diverse variazioni nel corso degli anni in relazione alla compagine societaria, all’oggetto sociale e alla sede legale. Dal 2012, l’imputata T., oltre ad assumere la carica di amministratore, diveniva unico socio; l’oggetto sociale era individuato nello svolgimento di varie attività e quella prevalente era rappresentata da “lavori di carpenteria metallica presso terzi”; la sede legale era spostata da Napoli a San Gennaro Vesuviano.

Su ricorso di alcuni dipendenti della società, il 5 ottobre 2016 il Tribunale di Nola – Seconda Sezione Civile dichiarava il fallimento della società con sentenza n. 103/2016.

È emerso che, dopo la dichiarazione di fallimento, per il curatore era impossibile ricostruire il patrimonio e il movimento degli affari della società fallita: il curatore non rinveniva i libri e le scritture contabili della società, che non erano stati depositati né venivano consegnati successivamente dall’imputata T., in qualità di amministratore unico; l’ultimo bilancio depositato presso l’ufficio del registro delle imprese risaliva all’esercizio 2010 e l’ultima dichiarazione fiscale presentata riguardava l’anno 2011; non era possibile rintracciare la sede legale della società né beni mobili o immobili riconducili alla fallita.

Tramite i professionisti addetti alla contabilità della società fino al 2012 (il dott. Barra, che è stato sentito dal curatore, e il dott. D. , che è stato esaminato in dibattimento come teste), è stato accertato che il 30 marzo 2012 la documentazione contabile della società, fino a quel momento custodita dai commercialisti, era stata consegnata all’imputata T..

Infine, è stata provata una grave situazione debitoria della società al momento della dichiarazione di fallimento: erano ammessi al passivo crediti per l’importo di 540.985,75 euro e il principale creditore risultava essere Equitalia Sud s.p.a. In partiC.re, si accertava in capo alla fallita una rilevante esposizione debitoria di carattere fiscale (nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria) o previdenziale (nei confronti dell’INPS), che risultava maturata già nel 2010, sicché appariva evidente che il fallimento era stato causato dal sistematico inadempimento dei debiti erariali.

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Ciò considerato in punto di fatto, il Collegio ritiene che gli imputati C.e T. non possano essere condannati per il reato previsto dall’art. 223 co. 2 n. 2 legge fall., poiché i fatti di cui al capo 1) loro

rispettivamente ascritti devono essere riqualificati nel reato previsto dal combinato disposto degli artt. 217 co. 1 n. 4 e 224 legge fall.

Com’è noto, l’art. 223 co. 2 n. 2 legge fall. punisce l’amministratore della società fallita che abbia cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.

Il legislatore prevede due fattispecie alternative, che si configurano rispettivamente nell’ipotesi di fallimento intenzionalmente causato dall’amministratore e in quella di fallimento che è conseguenza di una condotta cosciente e volontaria di quest’ultimo, ma non diretta alla produzione del dissesto.

La Suprema Corte ha precisato che nel concetto di operazioni dolose rientrano quelle operazioni che, sebbene omissive, abbiano dispiegato una qualche efficacia causale rispetto alla produzione dell’evento, anche se non costituiscono di per sé reato, e che possono consistere nella commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ovvero in atti intrinsecamente pericolosi per la salute economico-finanziaria della impresa (cfr. Cass. sez.

V, sentenza n. 47621 del 25/09/2014). Ad esempio, è stato ricondotto nel concetto di operazioni dolose il sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (cfr. Cass., sez. VI, sentenza n. 24752 del 19/02/2018).

Nel caso in esame, è stato accertato, tramite la relazione del curatore fallimentare, che il fallimento della società M. SUD s.r.l. era determinato dal sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali da parte degli amministratori succedutisi nel corso degli anni, che generava un consistente debito nei confronti dell’Erario pari a 593.678,00 euro. Tuttavia – come riferito dal curatore – la grave esposizione debitoria nei confronti dell’Erario risaliva all’anno 2010, sicché deve escludersi che l’imputato C., in qualità di amministratore unico dal 13 dicembre 2010, e l’imputata T., in qualità di amministratore unico dal 24 agosto 2012, possano aver cagionato il fallimento della società mediante operazioni dolose, essendo evidente che il sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali anche da parte di costoro determinava solo un aggravamento della situazione di dissesto già esistente nel 2010.

Non è configurabile, dunque, il reato di bancarotta fraudolenta in contestazione, ma ricorrono gli elementi costitutivi del reato di bancarotta semplice di cui agli artt. 217 co. 1 n. 4 – 224 legge fall., che punisce l’amministratore che ha aggravato il dissesto della società, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa.

Non vi è dubbio, infatti, che nel caso in esame gli imputati, nelle rispettive qualità, abbiano determinato un aggravamento dello stato di dissesto della società mediante una condotta gravemente colposa, poiché a fronte della situazione di obiettiva impossibilità, per la società, di far fronte agli ingenti debiti tributari – già maturati nel 2010 – continuavano l’esercizio dell’impresa, prolungando lo stato di perdita.

Passando al reato di cui al capo 2), risulta integrato il reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui agli artt. 216 co. 1 n. 2 – 223 legge fall. contestato all’imputata T. e, precisamente, le ipotesi di sottrazione e di omessa tenuta delle scritture contabili allo scopo di recare pregiudizio ai creditori.

La norma incriminatrice – che evidentemente tutela l’interesse dei creditori alla ostensibilità della situazione patrimoniale del debitore – prevede due fattispecie alternative: quella di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori; quella di tenuta della contabilità in modo da rendere

impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio del fallito, che richiede il dolo generico costituito dalla consapevolezza dell’agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione (cfr. Cass. pen., sez. V, sentenza n. 43966 del 28/06/2017).

Secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, l’ipotesi di omessa tenuta dei libri e delle scritture contabili, pur non essendo espressamente prevista, deve essere ricondotta nell’alveo di tipicità

dell’art. 216 co. 1 n. 2 legge fall., atteso che la norma incriminatrice, punendo la tenuta della contabilità in modo tale da rendere relativamente impossibile la ricostruzione dello stato patrimoniale e del volume d’affari del fallito, a fortiori ha inteso punire colui che non ha istituito la suddetta contabilità, anche solo per una parte della vita dell’impresa.

Ai fini dell’individuazione dell’elemento soggettivo, tuttavia, la condotta di omessa tenuta della contabilità non può essere ricondotta a quella appena descritta, di tenuta fraudolenta, dovendosi ritenere che l’omessa tenuta della contabilità integri gli estremi del reato di bancarotta fraudolenta documentale solo qualora si accerti che scopo dell’omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori, poiché altrimenti risulterebbe impossibile distinguere tale fattispecie da quella, analoga sotto il profilo materiale, prevista dall’art. 217 legge fall. e punita sotto il titolo di bancarotta semplice documentale. Dunque, il dolo richiesto per la sussistenza del reato non è quello generico sufficiente a supportare la condotta di tenuta fraudolenta, bensì quello specifico che caratterizza il falso contabile per soppressione descritto nella prima parte dell’incriminazione (Cass. sez. V, sentenza n. 11115 del 22/01/2015).

In altri termini, l’omessa tenuta della contabilità interna integra il reato di bancarotta documentale fraudolenta, e non di quello di bancarotta semplice, quando lo scopo dell’omissione è quello di recare pregiudizio ai creditori, impedendo la ricostruzione dei fatti gestionali (Cass. sez. V sent. n. 18320 del 07/11/2019).

Ebbene, nel caso in esame, è emerso che la curatrice non rinveniva i libri e le scritture contabili della M. SUD s.r.l., poiché gli stessi non risultavano depositati né venivano consegnati successivamente dall’imputata T. in qualità di amministratore unico.

È stato accertato, inoltre, che inizialmente la documentazione contabile fino all’anno 2011 era stata custodita dai commercialisti addetti alla contabilità della società e, poi, il 30 marzo 2012 era stata consegnata da costoro all’imputata T..

Si ritiene provato, pertanto, che l’imputata T., in qualità di amministratore unico della società

dal 24 agosto 2012, sottraeva la documentazione contabile ricevuta il 30 marzo 2012 e, successivamente, non provvedeva alla tenuta dei libri e delle scritture contabili fino alla dichiarazione di fallimento.

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, è evidente che l’imputata agiva allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, posti nell’impossibilità di individuare beni e crediti aziendali per soddisfare le proprie pretese:

da una parte, è stata accertata la grave esposizione debitoria della società fallita, che, in partiC.re, aveva un debito nei confronti dell’Erario dell’importo di 593.678,00 euro; dall’altra, è emerso che, in mancanza di libri e scritture contabili, la curatrice non poteva ricostruire il patrimonio e il movimento degli affari della società fallita, poiché non rinveniva beni mobili o immobili facenti capo alla società e poteva consultare solo i bilanci fino all’anno 2010, non essendo stati depositati bilanci negli anni successivi.

In definitiva, si ritiene provato che l’imputata T., in qualità di amministratore unico dal 24 agosto 2012 fino alla dichiarazione di fallimento, sottraeva o non teneva i libri e le scritture contabili della società fallita allo scopo di recare pregiudizio ai creditori attraverso l’occultamento delle vicende societarie e la finalità fraudolenta è agevolmente ricavabile dalla grave esposizione debitoria della società, dall’assenza di attivo patrimoniale realizzabile e dall’impossibilità denunciata dalla curatrice di ricostruire il patrimonio e il movimento degli affari sulla base dell’esigua documentazione acquisita.

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Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, il Collegio ritiene che, riqualificati i fatti di cui al capo 1) nel

reato di cui agli artt. 217 co. 1 n. 4 – 224 legge fall., debba pronunciarsi nei confronti dell’imputato C. sentenza di non doversi procedere poiché il reato si è estinto per prescrizione e, come si è detto, non

ricorrono i presupposti per una pronuncia assolutoria nel merito.

Dalla dichiarazione di fallimento intervenuta il 4 ottobre 2016 – che rappresenta il momento consumativo

del reato e fissa il dies a quo da cui decorre la prescrizione – risulta ampiamente decorso il termine massimo

di prescrizione del reato in questione, che a norma degli artt. 157-161 c.p. è pari a sette anni e sei mesi.

In relazione allo stesso reato, per l’imputata T. non risulta decorso il termine massimo di

prescrizione, poiché nel calcolo deve tenersi conto, a norma dell’art. 157 co. 2 c.p., dell’aumento di pena

per la recidiva specifica (circostanza aggravante ad effetto speciale), che è stata correttamente contestata

e va applicata in quanto la reiterazione del reato appare sintomatica di una maggiore pericolosità del

soggetto.

In proposito, va precisato che, ai fini della prescrizione del reato, occorre tenere conto

delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, anche ove le stesse siano considerate equivalenti o

subvalenti nel giudizio di bilanciamento con le concorrenti circostanze attenuanti, perché l’art. 157 co. 3 c.p. esclude espressamente che il giudizio di cui all’art. 69 c.p. abbia incidenza sulla determinazione della pena massima del reato (cfr. Cass. sez. IV sentenza n. 38618 del 5 ottobre 2021).

Dunque, l’imputata T. deve essere dichiarata colpevole del reato di cui agli artt. 217 co. 1 n. 4 - 224 legge fall., così riqualificati i fatti di cui al capo 1), e del reato di cui al capo 2).

Passando alla determinazione del trattamento sanzionatorio, oltre alla recidiva, sussiste la circostanza aggravante di cui all’art. 219 legge fall. della cd. continuazione fallimentare, dal momento che l’imputata ha commesso più reati di bancarotta nell’ambito della medesima procedura concorsuale.

Tenuto conto dell’incidenza limitata della condotta dell’imputata sul dissesto della società, devono essere riconosciute le circostanze attuanti generiche in termini di equivalenza rispetto alle aggravanti suindicate.

Alla luce dei parametri di cui all’art. 133 c.p.p., si ritiene equa la pena di anni tre di reclusione, così determinata: riconosciuta la continuazione fallimentare tra i reati in contestazione e ritenuto più grave il reato di cui al capo 2), previo riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, pena di anni tre di reclusione (minimo edittale) per il reato più grave e nessun aumento per il reato satellite di cui agli artt. 217 co. 1 n. 4 - 224 legge fall. (così riqualificati i fatti di cui al capo 1), essendo assoggettata al giudizio di bilanciamento anche la circostanza aggravante di cui all’art. 219 legge fall.

Ai sensi dell’art. 535 c.p.p., segue la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.

La condanna importa, a norma dell’art. 216 co. 4 legge fall., l’applicazione della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali e dell’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, la cui durata è fissata in anni tre.

A norma dell’art. 29 c.p., segue l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

Il carico di lavoro che grava sul Collegio B e, di conseguenza, anche sulla scrivente impone la fissazione del termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.

P.Q.M

Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara T.   colpevole del reato di cui all'art. 217 co. 1 n. 4 legge fall., così riqualificati i fatti di cui al capo 1), e del reato di cui al capo 2) e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, la condanna alla pena di anni tre di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Letto l'art. 216 ult. co. legge fall., dichiara T.   inabilitata all'esercizio di imprese commerciali e incapace di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni tre.

Letto l'art. 29 c.p., dichiara T.   interdette dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

Letto l'art. 531 c.p.p., previa riqualificazione dei fatti di cui al capo 1) nell'ipotesi delittuosa prevista dall'art.

217 co. 1 n. 4 legge fall., dichiara non doversi procedere nei confronti di C. poiché il reato

a lui ascritto si è estinto per prescrizione.

Letto l'art. 544 co. 3 c.p.p., fissa il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.

Nola, 4 giugno 2025

Il Presidente estensore

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