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Calunnia: fa sporgere una falsa denuncia ad un terzo e conferma i fatti davanti dal PM, condannato


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

Integra il delitto di calunnia la condotta di colui che, dopo aver indotto una terza persona a sporgere denuncia, renda false dichiarazioni al pubblico ministero, confermando il contenuto della denuncia e fornendo falsi elementi di riscontro (Cassazione penale , sez. VI , 06/10/2017 , n. 51688).

Fonte: Ced Cassazione Penale

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 06/10/2017 , n. 51688

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza, indicata in epigrafe, la Corte di appello di Lecce ha riformato la sentenza di condanna emessa nei confronti di N.G. per i reati di cui agli artt. 368 e 371-bis c.p., dichiarandolo il primo reato estinto per prescrizione e il secondo reato non punibile ai sensi dell'art. 384 c.p., confermando le statuizioni civili.


All'imputato era stato contestato di aver reso, quale persona informata sui fatti ascoltata prima nell'aprile 2008 dai Carabinieri e poi nel luglio 2008 dal P.M., false dichiarazioni, con le quali aveva accusato le titolari di un asilo nido, S.J.M. e B.G. dei reati di cui agli artt. 582 e 613 c.p., riferendo falsamente di aver ricevuto una telefonata da un dipendente della ASL che lo aveva avvisato che presso la quella struttura infantile erano somministrati tranquillanti ai bambini per farli stare tranquilli.


2. Ricorre per cassazione l'imputato, chiedendo l'annullamento della suddetta sentenza, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, disp. att. c.p.p.:


- violazione di legge in ordine alla imputazione di calunnia, difettando sia l'elemento oggettivo della condotta (il pericolo dell'avvio di indagini penali), posto che al momento in cui la stessa venne realizzata già era pendente un procedimento a carico delle persone offese, per il quale i carabinieri stavano svolgendo indagini a loro carico, sia l'elemento soggettivo, in quanto l'unico dato risultato falso sarebbe stato il dettaglio dell'aver ricevuto l'informazione per telefono, avendo per il resto l'imputato riferito quanto appresso dalle voci di paese, non potendosi configurare un dolo di tipo eventuale;


- violazione di legge in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, dovendo lo stesso essere inquadrato nel paradigma dell'art. 372 c.p., essendo state rese le dichiarazioni oggetto del reato di calunnia all'interno di un procedimento penale già pendente, con conseguente annullamento delle statuizioni civili, essendo persona offesa in tal caso solo lo Stato-collettività;


- violazione degli artt. 129 e 530 c.p.p., avendo la Corte di appello escluso una pronuncia assolutoria nel merito per il reato di calunnia per la mancanza della prova evidente della innocenza dell'imputato, mentre avrebbe dovuto valutare la mancanza della prova della sua colpevolezza, anche per insufficienza o contraddittorietà del quadro probatorio.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può essere accolto, per l'infondatezza delle ragioni che lo sostengono, che in alcuni punti lambiscono l'inammissibilità.


2. Quanto alla corretta qualificazione giuridica del fatto, la prospettiva avanzata dal ricorrente non ha fondamento.


Va al riguardo rammentato che questa Corte ha affermato che, per la configurabilità del reato di calunnia, è necessario che la falsa accusa possa dare adito ad un procedimento penale per un reato che non sia stato in precedenza portato a conoscenza della autorità (Sez. 6, n. 29579 del 20/07/2011, Nania, Rv. 250746; Sez. 6, n. 3533 del 24/01/1983, dep. 1984, Pedrotti, Rv. 163749; Sez. 3, n. 412 del 13/03/1967, Girardiní, Rv. 104239).


Nel caso in esame, tuttavia, va tenuto presente che la originaria denuncia presentata da G.M. era stata basata sulla informazione riferita a quest'ultima dalla moglie dell'imputato che aveva a sua volta acquisito da altra fonte non indicata della somministrazione ai bambini dei tranquillanti nell'asilo in questione; e che l'imputato, sentito dai carabinieri in ordine alla fonte di questa informazione riferita dalla G., aveva rivelato di averla appresa da un dipendente dell'ASL che telefonicamente lo aveva avvisato della vicenda.


Già questa Corte ha ritenuto sussistere il reato in esame nell'ipotesi di cui all'art. 48 c.p., quando l'agente, con il suo comportamento, provochi la falsa denunzia da parte di colui che ha l'obbligo di riferire all'autorità (Sez. 6, n. 16161 del 07/04/2011, De Fanís Basso, Rv. 249896). Nel caso in esame, in cui non sussisteva l'obbligo di denuncia, la responsabilità dell'imputato è da rinvenirsi proprio nell'aver confermato ai carabinieri le false informazioni, così in definitiva dimostrando di aver inteso incolpare le due persone offese servendosi dell'effettivo denunciante.


Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: integra il delitto di calunnia colui che, prima predisponga maliziosamente quanto occorre perchè taluno possa essere incriminato di un determinato reato, e poi, qualora a seguito di tale comportamento venga sporta denunzia da un altro soggetto, confermi in sede dì indagini le circostanze calunniose contenute nella denuncia stessa.


Sulla base di quanto osservato, devono ritenersi infondate anche le altre censure che trovano quale presupposto la diversa qualificazione giuridica del fatto.


3. Non ha fondamento alcuno la censura con cui si deduce l'assenza del dolo.


La sentenza impugnata sul punto bel lumeggia, evidenziando che era stata dimostrata la falsità della circostanza della telefonata ricevuta dall'imputato da uno sconosciuto qualificatosi come dipendente della ASL, posto che di tale telefonata non era stata trovata traccia sui tabulati telefonici acquisiti dagli investigatori; e che era irrilevante stabilire da chi avesse appreso effettivamente la notizia, posto che l'imputato aveva voluto artatamente creare l'apparenza ingannevole della fondatezza della notizia stessa, attribuendola falsamente ad un soggetto al quale attribuire fede.


4. Eguale sorte va attribuita all'ultimo motivo, con cui si denuncia il mancato proscioglimento nel merito.


Costituisce invero principio consolidato, dal quale non vi è motivo alcun per discostarsi, quello secondo cui la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (tra tante, Sez. 6, Sentenza n. 10284 del 22/01/2014, Culicchia, Rv. 259445; Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274).


Nel caso in esame, la Corte di appello ha dato atto viepiù della sussistenza di un solido quadro probatorio dal quale si evinceva con certezza la responsabilità dell'imputato nella vicenda.


5. Da quanto premesso, ne discende il rigetto del ricorso, al quale consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili costituite, liquidate come indicato in dispositivo.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili S.J.M. e B.G., che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre spese generali nella misura del 15%, IVA E CPA.


Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2017.


Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2017

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