La critica politica su Facebook anche se manifestata in forma grezza non è diffamazione se rientra nei limiti della continenza espressiva (Cass. pen. n. 22341/25)
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La critica politica su Facebook anche se manifestata in forma grezza non è diffamazione se rientra nei limiti della continenza espressiva (Cass. pen. n. 22341/25)

Facebook

Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione torna a interrogarsi sul delicato bilanciamento tra tutela della reputazione e libertà di manifestazione del pensiero, specie quando il diritto di critica si esercita tramite i social network con toni aspri e lessico colorito. La Quinta Sezione penale ha annullato senza rinvio la condanna per diffamazione a carico di una donna, affermando che l’espressione utilizzata – per quanto volgare – rientrava nei limiti della critica, non configurando reato.


Fatto

La Corte d’Appello di Ancona aveva confermato la condanna pronunciata dal Tribunale di Gela nei confronti di Gr.Si. per diffamazione aggravata ai danni dei coniugi Fr.Sa. e Ma.An., ai sensi dell’art. 595, commi 1 e 3, c.p., ritenendo lesive alcune espressioni contenute in post pubblicati su Facebook, tra cui la frase: «Fr.Sa. non riuscirebbe a riempire il cesso di casa sua».

L’imputata aveva sostenuto che la frase – benché sgradevole – non fosse diretta ad umiliare la persona offesa, ma costituiva una valutazione, sia pure ruvida, della sua (presunta) scarsa capacità di attrarre pubblico rispetto a quella dell’imputata, in ambito teatrale.


Motivi di ricorso

Tra i numerosi motivi di doglianza, la difesa ha censurato in particolare:

  • l’assenza della condizione di procedibilità per le condotte successive alla data della querela;

  • il mancato accoglimento dell’istanza istruttoria volta a chiarire la data del post;

  • l’erronea esclusione della scriminante del diritto di critica, ex art. 51 c.p.;

  • la contraddittorietà della motivazione in punto di liquidazione del danno anche a favore della seconda parte civile.


Decisione

La Cassazione ha accolto il quarto motivo, assorbendo i restanti, e ha annullato la sentenza senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

La Corte ha ritenuto che l’espressione incriminata – per quanto connotata da un linguaggio grezzo – non avesse valenza gravemente infamante né fosse rivolta a una gratuita aggressione della sfera morale della persona offesa. Piuttosto, si trattava di una critica soggettiva, aspra e sarcastica, indirizzata a una figura pubblica, espressa nel contesto di uno scontro dialettico già avviato su un social network.


Principio di diritto

«Non costituisce diffamazione la critica, per quanto aspra o espressa con toni volgari, se essa è funzionalmente collegata all’oggetto della polemica e non eccede i limiti della continenza, da valutarsi anche alla luce del contesto digitale in cui la critica è formulata (Facebook), salvo che non si traduca in un'aggressione gratuita e umiliante della persona offesa».


Contesto giurisprudenziale

La Corte ha richiamato l’orientamento consolidato in tema di continenza espressiva (Cass., sez. V, n. 37397/2016; n. 17243/2020; n. 8898/2021), secondo cui la valutazione dell’offensività delle espressioni critiche deve tener conto non solo del linguaggio utilizzato ma anche della cornice dialogica e del medium impiegato.

Si è inoltre sottolineato che, nella comunicazione tramite social media, la forma espressiva tende per sua natura all’eccesso e alla spettacolarizzazione, il che impone un’interpretazione più elastica del requisito della “continenza”, purché restino salvi i valori fondamentali di dignità della persona e proporzione dell’attacco.


Conclusioni

La sentenza in esame privilegia la sostanza della libertà critica rispetto al formalismo linguistico, soprattutto nei contesti – come quello dei social network – in cui il registro comunicativo può assumere toni volutamente provocatori.

Il diritto di critica politica e culturale, anche se manifestato in forma rozza, resta penalmente lecito se non degrada in un attacco personale gratuito.


La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V, 29/05/2025, (ud. 29/05/2025, dep. 13/06/2025), n.22341

RITENUTO IN FATTO


1. Con sentenza del 2 luglio 2024, la Corte d'Appello di Ancona ha confermato la decisione del Tribunale di Gela, che ha ritenuto Gr.Si. responsabile del delitto di cui all'art. 595, primo e terzo comma, cod. pen., per avere offeso la reputazione dei coniugi Fr.Sa. e Ma.An. mediante pubblicazione di diversi "post" sul social network "Facebook", condannandola alla pena di Euro 1000 di multa e al risarcimento dei danni.


2. Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l'imputata, per il tramite del proprio difensore, Avv. CARMELO FABRIZIO FERRARA, affidando le proprie censure ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.


2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge, in relazione all'art. 336 cod. proc. pen., data la mancanza di condizione di procedibilità, per avere i giudici di merito pronunciato condanna dell'imputata sulla base di una querela ed. implicita. Sebbene, infatti, le persone offese avessero fatto riferimento, nell'atto di querela, a quanto espresso dall'imputata nel post del 2 febbraio 2017, il pubblico ministero e poi i giudici di merito, in entrambi i gradi di giudizio, hanno illegittimamente esteso i contenuti della querela ad affermazioni rese pubbliche soltanto dopo il 2 febbraio 2017 (con post del 3 febbraio).


2.2 Col secondo e terzo motivo - strettamente connessi e quindi congiuntamente illustrabili - si deduce la mancata assunzione di prova decisiva. Pur dopo aver dichiarato la riapertura dell'istruttoria dibattimentale su istanza della difesa dell'imputato, acquisendo in tal modo due prove documentali necessarie per collocare temporalmente (al 3 febbraio) un post privo di data, la Corte territoriale ha poi illogicamente denegato l'istanza di audizione del consulente di parte, il quale avrebbe potuto far luce sulla corretta collocazione temporale del post incriminato in data 3 febbraio e, dunque, sulla mancanza di condizione di procedibilità.


2.4 Col quarto motivo, si lamenta violazione degli artt. 595 e 51 cod. pen. In disparte quanto eccepito nei primi tre motivi circa il difetto di procedibilità, la frase incriminata (di cui al post del 3 febbraio: "sono convinta che Fr.Sa. non riuscirebbe a riempire il cesso di casa sua") altro non voleva significare che la scarsa capacità della persona offesa Fr.Sa. di attirare il pubblico, soprattutto a confronto dell'opposta capacità dell'imputata di riempire di pubblico le sale dei teatri. La Corte d'Appello ha mancato di contestualizzare la frase incriminata, trascurando di comparare la frase incriminata con il post della persona offesa, con conseguente lesione dell'art. 51 cod. pen.


2.5 Col quinto motivo, si eccepisce vizio di motivazione, non avendo la Corte d'Appello replicato in alcun modo alle doglianze difensive relative al significato dell'ultima parte del post incriminato (del 3 febbraio). In appello, si era dedotto che le "lezioni di stile... di sintassi... e i goffi tentativi di depistaggio" da parte del Fr.Sa. erano tutte affermazioni non lesive della reputazione altrui, in quanto volte unicamente a chiarire come la persona offesa mirasse a distogliere gli utenti del social da quanto effettivamente avvenuto.


2.6 Con sesto motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all'art. 599 cod. pen. L'erronea affermazione circa l'insussistenza del fatto ingiusto deriva da un totale fraintendimento delle espressioni utilizzate dalla persona offesa Fr.Sa., pubblicate da quest'ultimo il 3 febbraio. E, infatti, la Corte d'Appello, con motivazione illogica, ha minimizzato la portata gravemente offensiva delle esternazioni della persona offesa (che attribuiva alla Gr.Si. una certa sindrome psichiatrica, che porta a una sopravvalutazione delle proprie capacità; ricollegava, inoltre, la "smodata gelosia" della Gr.Si. a detta sindrome e, per converso, la reazione legittima dell'imputata a quelle offese).


2.7 Col settimo motivo, si deduce violazione degli artt. 538 e 541 del codice di rito. Sebbene l'unica condotta penalmente rilevante sia stata considerata quella relativa al post del 3 febbraio, rivolta, nella prospettazione dei giudici di merito, al solo Fr.Sa., i medesimi giudici hanno poi illogicamente esteso la condanna al risarcimento del danno a favore anche della Ma.An. Pertanto, la difesa chiede l'annullamento con rinvio della gravata sentenza anche nella parte relativa alle statuizioni civili.


3. All'udienza si è svolta trattazione orale del ricorso. Riportandosi alle conclusioni già depositate, il Sostituto Procuratore generale, Francesca Ceroni, ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile. È pervenuta memoria difensiva nell'interesse delle parti civili Fr.Sa. e Ma.An..


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. Il quarto motivo è fondato e assorbe le doglianze indicate nei restanti motivi.


2. La difesa coglie nel segno nel lamentare la violazione di legge in riferimento all'art. 51 cod. pen. A ben guardare, il profilo della motivazione della gravata sentenza maggiormente esposto a fondate censure non è tanto, come pure ritenuto dalla ricorrente, quello della mancata contestualizzazione, da parte della Corte d'Appello, dell'espressione incriminata, quanto l'aver escluso l'applicabilità


dell'art. 51 cod pen. perché la frase incriminata (già citata retro, sub 2.4) avrebbe esorbitato dai limiti della continenza.


Invero, la Corte territoriale ha bensì operato un raffronto tra l'espressione asseritamente diffamatoria e il contesto dialettico (conformemente a quanto indicato da questa Corte: v., ex multis, Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866 - 01) in cui essa ha trovato forma: il riferimento è alla parte motiva, nel punto in cui analizza la reazione/replica dell'imputata alle precedenti esternazioni della persona offesa (v. p. 6 dell'impugnato provvedimento).


Tuttavia, concludendo nel senso del palese superamento dei limiti della continenza, i giudici dell'appello hanno mancato di considerare più adeguatamente i principi giurisprudenziali sul tema. A tal proposito, deve ricordarsi che, se è vero che la continenza postula "una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione", è anche vero che detto limite non può, però, "ritenersi superato per il solo fatto dell'utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato" (Rv. 267866 - 01, cit.; Sez. 5, n. 17243 del 19/02/2020, Lunghini, Rv. 279133 - 01).


Quando poi la condotta sia realizzata, come nel caso di specie, attraverso "social network", nella valutazione del requisito della continenza, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi superati quando la persona offesa sia esposta al pubblico disprezzo, ad esempio con commenti "ad hominem" umilianti e ingiustificatamente aggressivi (Sez. 5, n. 8898 del 18/01/2021, Fanini, Rv. 280571 - 01).


Nel caso in esame, però, la frase offensiva, per quanto di cattivo gusto, non può propriamente dirsi diretta ad aggredire gratuitamente la sfera morale altrui o a esprimere un disprezzo personale (in tal senso, v. ad es., Sez. 5, n. 320 del 14/10/2021, dep. 2022, Mihai, Rv. 282871 - 01), essendo invece rivolta a rimarcare quel che, a giudizio dell'imputata, sarebbe un'incapacità della persona offesa di attirare il pubblico in occasione di eventi culturali. Né, a parere del Collegio, l'espressione incriminata può dirsi gravemente infamante, al punto da superare il limite della continenza verbale (cfr., in particolare, Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessi, Rv. 250174 - 01: "in tema di diffamazione, il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato").


Per quel che ha riguardo, infine, alla motivazione della gravata sentenza nel punto in cui esclude la sussistenza dell'esimente del diritto di critica, affermando che la frase incriminata collegava il comportamento della persona offesa Fr.Sa. al suo ruolo di assessore comunale (si cita, a tal proposito, un prosieguo di commento da parte dell'imputata, circa "il flop" dell'assessorato del Fr.Sa.), non può che ribadirsi il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui "la sussistenza dell'esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto di critica, a condizione che l'offesa non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo ma sia 'contenuta' (requisito della 'continenza) nell'ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto, fermo restando che, entro tali limiti, la critica, siccome espressione di valutazioni puramente soggettive dell'agente, può anche essere pretestuosa ed ingiustificata, oltre che caratterizzata da forte asprezza" (Sez. 5, n. 3047 del 13/12/2010, dep. 2011, Belotti, Rv. 249708 - 01).


Ebbene, nel caso in esame, potrà dirsi che, con la frase in questione, l'imputata abbia espresso una critica "caratterizzata da forte asprezza" (sul punto, v. anche Sez. 5, n. 25518 del 26/09/2016, dep. 2017, Volpe, Rv. 270284 - 01; già Sez. 5, n. 49570 del 23/09/2014, Natuzzi, Rv. 261340 - 01), con toni volgari (peraltro, non più volgari di talune espressioni, di cui alla prima parte dell'imputazione, che i giudici di merito hanno comunque reputato, in primo grado, "colorite" e, in secondo grado, "inappropriate", ma non diffamatorie), ma non anche tale da travalicare, a parere di questo Collegio, i limiti della continenza e da travolgere la sussistenza dell'invocata scriminante.


3. Per le ragioni fin qui esposte, il Collegio annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato e, per l'effetto, revoca le statuizioni civili.


P.Q.M.


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato e per l'effetto revoca le statuizioni civili.


Così deciso in Roma, il 29 maggio 2025


Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2025

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