top of page

Il chirurgo endoscopista deve valutare l'adeguatezza dell'esame rispetto alle patologie sospettate.

Responsabilità medica penale

Con la sentenza n. 30051/22, la Quarta Sezione della Suprema Corte ha affermato che in tema di colpa medica, lo specialista chiamato ad effettuare un esame diagnostico invasivo, prescritto dal medico di medicina generale, che comporti un ineliminabile quoziente di rischio per il paziente, deve preliminarmente procedere all'inquadramento anamnestico e clinico del paziente ed alla valutazione dell'adeguatezza dell'esame richiesto rispetto alle patologie sospettate, alle condizioni fisiche ed alla sintomatologia lamentata, nonché agli esiti di eventuali esami già svolti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure l'affermazione di responsabilità del chirurgo endoscopista, per la morte della paziente, conseguente ad intervento di endoscopia intestinale, eseguito, su prescrizione del medico curante, su soggetto ultranovantenne con sintomatologia aspecifica di dolore continuo all'emiaddome destro, senza valutare la possibilità di un alternativo approfondimento diagnostico con metodiche meno invasive, più proporzionate al caso specifico e prive di rischi, quali ecografia addominale, tomografia computerizzata, risonanza magnetica, colon-tomografia, ricerca del sangue occulto nelle feci).

Di seguito si riporta il testo integrale della sentenza sopra richiamata.


Cassazione penale , sez. IV , 07/07/2022 , n. 30051

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Venezia, pronunciando sul gravame nel merito proposto dall'odierno ricorrente M.V., con sentenza del 12/10/2020 confermava la sentenza emessa dal GUP del Tribunale di Rovigo che, in data 6/2/2019, all'esito di giudizio abbreviato, lo aveva condannato, operata la riduzione per il rito prescelto, alla pena -condizionalmente sospesa e con la non menzione - di otto mesi di reclusione in quanto riconosciutolo colpevole del reato p. e p. dall'art. 589 c.p. perché, in qualità di medico in servizio presso il Reparto di Chirurgia della Casa di Cura "(OMISSIS) di (OMISSIS), che in data 28/3/2017 eseguiva nei confronti della signora N.M., l'esame di colon-scopia con finalità diagnostica, a seguito della manifestazione di "dolore continuo emiaddome destro" per colpa generica consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché per colpa specifica consistita nell'eseguire una colonscopia diagnostica non indicata secondo le linee guida, né proporzionata alla specificità del caso, tenuto conto della sintomatologia aspecifica lamentata (una persistente emiaddo-minalgia destra), dell'età avanzata della paziente (90 anni), delle comorbilità e dell'assenza di significative alterazioni cliniche (quali calo ponderale, anemia fer-ropriva, modificazioni dell'alvo, sanguinamenti gastroenterici, ecc.), omettendo di effettuare un preliminare approfondimento diagnostico mediante metodiche meno invasive, più proporzionate e prive di rischi (ricerca del sangue occulto nelle feci, ecografia, tomografia, computerizzata, risonanza magnetica, colontomografia), omettendo altresì di eseguire una adeguata preparazione intestinale al fine di non inficiare l'esame diagnostico, fondato sull'attenta visualizzazione della parete intestinale di cui si devono cogliere le eventuali micro e macro lesioni, e proseguendo l'indagine endoscopica anche dopo avere rilevato la presenza - immediatamente apprezzabile nella fase iniziale di introduzione dello strumento - di "scadentissima toilette intestinale" (per la presenza di materiale fecale), quale circostanza che rendeva prevedibile e concreta la difficoltà nella progressione dello strumento endoscopica e che rendeva necessario re-inviare l'indagine (qualora ritenuta opportuna) solo alì esito di adeguata "toilette", omettendo infine di adottare, dopo aver scelto di proseguire l'indagine, le maggiori cautele che si rendevano necessarie nelle fasi di manovra dell'endoscopio flessibile, determinando una lacerazione della parete-colica - in una sede priva di alterazioni anatomo-patologiche, di condizioni di fragilità ovvero di aree di minor resistenza parietale - per trauma provocato dall'errata manovra dell'endoscopio, cagionava la morte della predetta per "insufficienza multi organo, quale evento terminale di una rapida evoluzione di shock settico conseguente a "perforazione sigmoidea iatrogena" e conseguente "peritonite stercoracea diffusa" in soggetto "grande anziano", affetto da quadro di co-morbilità pluripatologica (corretto, invece, risulta essere stato l'approccio terapeutico - fondato sul posizionamento di sondino nasogastrico, terapia infusionale e somministrazione di ossigeno - dei Curanti dell'O.C. di (OMISSIS), dove alle ore 14.10 del 28.3.2017 la signora N. veniva trasferita d'urgenza e dove decedeva alle ore 22.35 dello stesso giorno). In (OMISSIS).


2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, M.V., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.


Con un primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, quanto alla ritenuta sussistenza del nesso causale, alla carenza del giudizio esplicativo, alla mancata effettuazione del giudizio di probabilità logico, al travisamento delle prove concernenti la potenzialità salvifica del concreto atto terapeutico.


Si lamenta, in particolare, la violazione dell'art. 40 c.p. l'erronea applicazione dei criteri di valutazione della prova di cui all'art. 192 c.p.p. e del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio di cui all'art. 533 c.p.p., la violazione del principio in dubio pro reo, la mancata valutazione della carenza/insufficienza/contraddittorietà della prova.


In premessa il ricorrente afferma che la sentenza impugnata sarebbe ingiusta ed errata, sotto molteplici profili, perché: a. sarebbe macroscopicamente appiattita sulla relazione dei consulente tecnico del PM, al pari della sentenza di primo grado, avendo inoltre omesso qualsiasi valida valutazionejconfutazione su quanto emerso in occasione dell'esame dell'imputato all'udienza del 6/2/2019, nonché sulle difese tecnico-scientifiche - oltre che su quelle giuridiche, conseguenti svolte nell'interesse del M., di segno radicalmente opposto; b. sarebbe vistosamente viziata da un inammissibile approccio ex post e basata su criteri interpretativi sostanzialmente civilistici, nell'ottica del "più probabile che non", violando le regole vigenti in materia di accertamento della responsabilità penale, come precisate dalla giurisprudenza, in particolare sul punto del nesso di causa; c. per giungere a siffatte conclusioni, la Corte del merito avrebbe travisato completamente il contenuto del referto operatorio redatto dal M. il 28 marzo 2017.


Per il ricorrente sarebbe inficiata l'intera motivazione, ictu oculi carente, illogica e contraddittoria, sul punto - decisivo - della (in)sussistenza del pur necessario nesso causale, oltre che della condotta omissiva colposa.


La sentenza impugnata risulterebbe solo apparentemente motivata, essendo inammissibilmente appiattita sulla consulenza tecnica operata per conto del Pubblico Ministero - al pari della sentenza di primo grado, che aveva ignorato ogni deduzione tecnica difensiva, laddove ci si duole che quella d'appello le abbia analizzate, solo per rigettarle contro ogni logica, scientifica e/o giuridica, limitandosi a negarne la fondatezza.


Per il ricorrente la consulenza della pubblica accusa e, quindi, le sentenze impugnate, a quella totalmente adesiva, sconterebbero un vistoso pregiudizio, derivante dal fatto che i consulenti provengono dalla sanità pubblica, ove il fenomeno - deteriore - della "medicina difensiva" è notoriamente endemico. E queste "radici culturali" avrebbero pesantemente condizionato anche la "scelta di campo" operata dai giudici.


Si legge in ricorso che della medicina difensiva - fenomeno censurato dalla letteratura scientifica - si rinviene nella letteratura statunitense la migliore e più diffusa definizione: "La medicina difensiva si verifica quando i medici ordinano test, procedure e visite, oppure evitano pazienti o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non necessariamente) per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono extra test o procedure per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice, essi praticano una medicina difensiva positiva. Quando essi evitano certi pazienti o procedure, essi praticano una medicina difensiva negativa" (OTA, Office of Technology assessment, USA Congress).


Per il ricorrente, dalla sentenza impugnata trasparirebbe un pregiudizio nei confronti del medico endoscopista, la cui prima colpa sarebbe stata individuata nell'avere accettato il rischio di effettuare una colonscopia su di una paziente novantenne, con intervento sostanzialmente ambulatoriale, all'interno di una clinica privata: come se quest'intervento, eseguito in una struttura ospedaliera pubblica, non avesse le stesse criticità potenziali e non generasse il medesimo codice intervento, ai fini del rimborso da parte del servizio sanitario nazionale, avendo quindi il medesimo costo per la collettività,..


Ci si duole che la sentenza d'appello sia caratterizzata da un'impostazione "antagonistica", nel senso che sono state analizzate le singole censure dei motivi d'appello, per negarne la fondatezza, ribadendo integralmente quanto dedotto dai consulenti del Pubblico Ministero e recepito acriticamente dal primo giudice, ovvero che il M. aveva proceduto ad eseguire la colonscopia senza seguire le norme di prudenza, che avrebbero consigliato di ricorrere, previamente, ad esami meno invasivi e comunque di astenersi dall'eseguire l'esame e rinviarlo, una volta accertata una inadeguata preparazione intestinale. Questa, in sostanza, si ritiene essere la sintesi della motivazione di condanna, che per il ricorrente risponderebbe esattamente ai dettami della cd. medicina difensiva, tanto nella sua connotazione positiva (effettuazione di altri esami, ecc.), quanto in quella negativa (astensione dal procedere).


Il difensore ricorrente premette che il proprio assistito è un chirurgo specialista, ultrasessantenne, che dal 1981 ha eseguito migliaia di endoscopie digestive e di colonscopie, senza complicanze, e, in particolare, senza provocare perforazioni intestinali. Essendo noto - anche fuori dalla Regione Veneto - per le sue competenze specialistiche e affidabilità, egli - prosegue il ricorso- svolge attività libero professionale in strutture private convenzionate e molti medici di medicina generale, o specialisti gastroenterologi, indirizzano con fiducia i propri pazienti alle strutture in cui il M. opera.


Questo avvenne -prosegue il ricorso- anche nel caso di N.M., una novantenne polesana, alla quale il medico "di famiglia" prescrisse una colonscopia, lamentando la stessa "dolore continuo all'emiaddome destro", le cui cause non erano identificate. L'esame diagnostico in questione venne quindi prenotato presso la (OMISSIS) di (OMISSIS) (RO), alla quale la paziente si presentò la mattina del (OMISSIS).


Prima di effettuare l'esame, il M. sottopose la paziente, che non aveva mai visto in precedenza, a un colloquio anamnestico, informandosi sulle sue patologie e sui farmaci che assumeva, quindi la sottopose a monitoraggio dei parametri vitali (polso, pressione, saturazione di ossigeno, ecc.), ritenendo in definitiva, secondo scienza e coscienza, che non vi fossero controindicazioni assolute all'effettuazione della colonscopia, in base a una serie di ragionate valutazioni cliniche, di cui daremo conto.


Durante l'effettuazione dell'esame diagnostico invasivo, si produsse una lacerazione della parete intestinale, in corrispondenza dell'ansa situata tra il colon-retto e il sigma, alla distanza di circa 11 centimetri dall'orifizio anale. Ma pacificamente, secondo quanto si legge in ricorso, non si sarebbe trattato di una lacerazione traumatica provocata dalla punta dello strumento, bensì di una lesione "da sfregamento", causata dal passaggio della sonda. Per il ricorrente si deve infatti tener presente che il colonscopio è una sonda di lunghezza adeguata e del diametro di 12 millimetri, munita di microcamera nella parte iniziale e di altri ugelli, attraverso i quali si possono insufflare aria e acqua, oltre che intervenire chirurgicamente.


Riconosciuta tempestivamente la complicanza, la paziente venne ricoverata immediatamente presso la Chirurgia dell'Ospedale di (OMISSIS), ove morì poco dopo le 22 della stessa giornata.


Il difensore ricorrente evidenzia che non fu neppure tentato un altrettanto tempestivo reintervento, finalizzato a suturare la perforazione e manifesta stupore per il fatto che per consulenti del P.M. l'attesa dei medici dell'Ospedale di (OMISSIS) sia rimasta esente da censure.


Il ricorrente contesta le conclusioni cui sono pervenuti i consulenti del PM e si duole che, nonostante le conclusioni di segno esattamente contrario dei consulenti della difesa del M. ( T. e P.), il Pubblico Ministero abbia esercitato l'azione penale nei confronti del medico, ignorando l'omessa acquisizione da parte dei propri consulenti del diario clinico della paziente presso il medico di medicina generale che aveva prescritto la colonscopia, come richiesto dalla difesa dell'inda-gato e dal consulente di parte di questi.


Per il ricorrente va dato per acquisito che la Corte d'appello di Venezia era chiamata ad accertare un nesso di causalità di carattere omissivo - giacché si contesterebbero esclusivamente condotte omissive- dal che risulterebbe agevole comprendere i punti di divergenza dell'accertamento eziologico prospettato dalla sentenza oggetto del presente ricorso rispetto ai principi costantemente enunciati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, una volta esaminata la fattispecie concreta.


Sull'indicazione alla colonscopia, per il ricorrente non era possibile escludere che il medico di medicina generai che prescrisse l'esame avesse preventivamente effettuato approfondimenti chimici, che lo indussero ad optare per tale


procedura. Ci si duole che in fase d'indagini preliminari, nessuno abbia voluto conoscere le ragioni per le quali il medico di medicina generale avesse prescritto l'esame in questione. Dunque, un accertamento potenzialmente rilevante non solo sarebbe stato trascurato dai consulenti del P.M., ma addirittura da costoro "sub-delegato" proprio alla parte che aveva tutto l'interesse a non approfondire la fase precedente la colonscopia, per concentrare la sua iniziativa risarcitoria esclusivamente sull'endoscopista.


La tesi ribadita è che il M. non avrebbe potuto, né dovuto, fare nulla di più o di diverso, rispetto a quel che ha fatto, in quanto la paziente gli venne inviata dal medico curante e la valutazione circa l'indicazione o meno di una procedura diagnostica spettava al medico, che quella procedura aveva prescritto e che aveva il quadro completo delle condizioni di salute della paziente. L'imputato, in altri termini, poteva e doveva ritenere che la colonscopia fosse indicata, nel caso di specie, siccome prescritta dal medico di medicina generale.


Come sempre accade -prosegue il ricorso- l'endoscopista vide la paziente per la prima volta in sede d'indagine, essendogli stata segnalata una sintomatologia algica presente da qualche tempo, che avrebbe potuto sottendere una neoplasia. E in questo caso, la competenza a prescrivere la colonscopia spettava al medico curante (o a diverso specialista), in assenza di controindicazioni note, e non vi era alcun motivo per il quale il M. - il quale, peraltro, visitò comunque la paziente, prima di sottoporla a colonscopia - avrebbe dovuto astenersi dall'effettuare l'esame.


Si tratta per il ricorrente di una questione dirimente, del tutto trascurata dai consulenti del P.M. e dalle sentenze di merito, non essendo neppure comprensibile come possa farsi carico a un esperto endoscopista di scelte che non spettano certamente a lui, su base - per così dire - etica: la divisione dei ruoli, anche in medicina, non ammette che si oneri lo specialista di rivedere decisioni non sue, in ottica sostanzialmente "difensiva".


In assenza di linee-guida, protocolli, e buone pratiche che affermino questo, la pretesa che l'endoscopista rivaluti la prescrizione del curante sarebbe priva di fondamento normativo/deontologico.


Secondo la tesi proposta in ricorso, contrariamente a quanto opinato dai consulenti del P.M. e dai giudici di merito, non è seriamente contestabile che, nel caso di specie, non vi fossero controindicazioni all'effettuazione della colonscopia ad opera del M.. Ciò in quanto la letteratura scientifica individua controindicazioni generiche (rapporto sbilanciato tra rischi e benefici, inadeguata collaborazione del paziente, sospetto di perforazione) e specifiche (colite fulminante, diverticolite acuta severa, peritonite, megacolon tossico, aneurisma delle arterie iliache e dell'aorta clinicamente significativi, diatesi emorragica grave non correggibile, scompenso cardiaco grave, insufficienza respiratoria grave), nessuna delle quali sussisteva.


Viene evidenziato che la complicazione insorta prescinderebbe da qualsiasi controindicazione astrattamente ipotizzabile. Non solo, ma la valutazione di simili controindicazioni non spettava comunque all'endoscopista - che pure ha correttamente eseguito visita anamnestica e misurazione dei parametri vitali -, bensì al medico che aveva prescritto l'esame; e il M. poteva ragionevolmente presumere che tale valutazione fosse stata compiuta da quest'ultimo.


Per il ricorrente, ex post, alla luce di quel che è poi accaduto, è facile sostenere che il gioco non valeva la candela. E, invece, si sostiene che la scelta operata, in quel momento, dal M. nei confronti di una paziente 90enne, che si era (almeno, per quel che era dato sapere) preparata alla colonscopia per due giorni, seguendo dieta liquida e assumendo lassativi, poiché lamentava da qualche tempo dolori addominali a destra, le cui cause il suo medico curante non era riuscito ad identificare, che avrebbe quindi potuto essere affetta da una sub-occlusione intestinale, provocata da una massa tumorale, fu del tutto corretta, in un'ottica ex ante.


Si lamenta che la sentenza d'appello, ancora con motivazione erronea e meramente adesiva alle affermazioni dei consulenti tecnici del pubblico ministero, quindi a quelle del primo giudice, abbia ribadito il terna dei cosiddetti "accertamenti meno invasivi", che sarebbero stati da privilegiare. E ci si duole anche che, se è vero, come è vero, che i consulenti tecnici del pubblico ministero hanno rifiutato di acquisire il diario clinico della paziente, e che il PM non ha mai voluto sentire, nemmeno a sommarie informazioni, il medico di medicina generale Dott. R.G., nonostante i suoi consulenti avessero messo in dubbio l'indicazione alla colonscopia, la valenza probatoria di tale mancato accertamento non può essere valorizzata a discapito dell'imputato, valendo il principio in dubio pro reo. Sicché la frase andrebbe letta, semmai, nel senso che "non è possibile escludere significative alterazioni cliniche", non in senso negativo per l'imputato.


La grande esperienza clinico/chirurgica dello specialista endoscopista, riferita al caso concreto, da nessuno smentita - tantomeno dalla sentenza impugnata avrebbe, dunque, confermato come sussistessero e quali fossero le "indicazioni", generiche e specifiche, ad effettuare l'endoscopia:


Per il ricorrente le astrazioni contrarie, su base puramente congetturale, non avrebbero dovuto essere in alcun modo valorizzate dalla Corte del merito, che ne avrebbe tratto, invece, erroneamente, argomenti contro l'imputato.


Sulle concrete modalità di effettuazione della colonscopia, per il ricorrente la Corte territoriale opererebbe una lettura errata del referto del M. del 28/3/2017 a proposito della "scadentissima toilette intestinale" e delle conseguenze in termini di esecuzione dell'esame. Si aggiunge in ricorso che ciò che per chiunque dovrebbe essere evidente, è che il M. aveva interesse a "stressare" il dato della non perfetta pulizia dell'organo esaminato, non già per documentare difficoltà particolari, incontrate durante la progressione dello strumento endoscopico (l'esame durò invero solo 20 minuti), bensì per giustificare l'eventuale mancata osservazione di polipi/neoformazioni di piccole dimensioni, difficilmente visibili per la necessità di detergere progressivamente le pareti intestinali, insufflando acqua, poi aspirandola. In tale ottica, allora, si spiegherebbe chiaramente il senso delle frasi "rende disagevole risalire a destra" e "in qualche modo si raggiunge il colon", che tanto allarme hanno provocato.


Come il M. sostiene di avere spiegato in modo esaustivo, infatti, la difficoltà era quella di vedere bene la parete interna dell'intestino; il che, non ha comportato alcuna manovra di spinta insolitamente brusca, come impropriamente dedotto dai consulenti del PM. e - ancora adesivamente - dai giudicanti.


Per il ricorrente, pertanto, in questo processo non vi è prova alcuna dell'effettuazione di manovre intra-operatorie incongrue, da parte del M., che possano essere messe in rapporto di causa-effetto con il prodursi della lesione verificatasi.


Sul punto della perforazione il ricorrente evidenzia che la lesione si è verificata pacificamente alla distanza di 11 centimetri dallo sfintere anale, in corrispondenza dell'ansa situata tra il colon-retto e il sigma.


L'endoscopista -prosegue il ricorso- introduce la punta (rigida) dello strumento nel retto e non è in grado da subito di valutare, se la toilette intestinale sia o meno adeguata, almeno finché non compie interamente, con la parte flessibile del colonscopio, la traiettoria curvilinea necessaria per raggiungere il sigma, e da lì iniziare la risalita verso il discendente: solo mentre percorre il sigma, dunque, egli è in grado di apprezzare esattamente le condizioni di pulizia dell'intestino.


Ebbene, sottolinea il ricorrente che in quel momento, non essendosi verificata nel caso di specie una lesione da perforazione "di punta", bensì da "sfregamento", conseguente alla progressione della parte rigida iniziale e di quella flessibile del colonscopio, la lesione già poteva essersi prodotta. E non solo non vi sarebbe prova del contrario (ovvero, che la perforazione si possa essere verificata in altro momento, successivo al superamento dell'ansa in questione e all'ingresso dello strumento nel sigma), ma nessuno, nemmeno i consulenti del P.M., hanno affermato questo. D'altro canto, che il momento del superamento dell'ansa in questione, sia uno dei più delicati, nell'ottica del rischio di perforazione meccanica della parete intestinale, è fatto notorio, generalmente risaputo.


Per il difensore ricorrente, perciò, a tutto voler concedere, il proprio assistito non avrebbe potuto rendersi conto dell'opportunità di sospendere l'esame, prima che lo strumento fosse progredito di almeno una ventina di centimetri: e che la lesione, con ragionevole certezza, avrebbe potuto prodursi ben prima che egli decidesse di recedere/astenersi.


Di conseguenza, l'invocata interruzione della colonscopia non avrebbe avuto alcuna efficacia salvifica, nel caso di specie. E perciò il nesso di causa tra la decisione del M. di proseguire la colonscopia, nonostante la "scadentissima toilette intestinale", e la lesione ritenuta letale, sarebbe dunque del tutto carente.


La lunga dissertazione circa la pretesa necessità di interrompere la procedura precocemente e di non proseguire fino al colon di destra sarebbe, dunque, sostanzialmente inutile, in quanto la stessa avrebbe avuto significato se la perforazione si fosse verificata nel colon destro, ma nel nostro caso la perforazione è avvenuta pacificamente nel tratto iniziale.


Peraltro, viene anche evidenziato che nel referto in questione si legge anche "all'anoscopia nulla di rilevante", il che significa che nei primi 6/8 centimetri dell'intestino retto non si era evidenziata alcuna criticità, nemmeno nella progressione dello strumento. Il che costituirebbe l'ennesima conferma di quanto dichiarato dal M. in ordine all'impossibilità, nel caso di specie, di percepire la "scadentissima toilette intestinale", prima di inoltrarsi con la testa del colonscopio a destra nel sigma, quindi oltre la giunzione retto-sigmoidea.


La tesi che si sostiene in ricorso, conseguentemente, è quella della complicanza incolpevole.


Ricorda il ricorrente che, al pari di qualsiasi procedura endoscopica, anche la colonscopia è gravata dai rischio del verificarsi di possibili complicanze, tra le quali si annovera la perforazione. E che tale evento può verificarsi anche in condizioni di adeguata toilette intestinale - migliore, rispetto al caso di specie - così come anche nei casi in cui tali procedure siano eseguite secondo opportuna tecnica e da personale esperto. Le più frequenti sedi di perforazione -si legge ancora in ricorso-sono la giunzione retto-sigmoidea, il sigma e il cieco


La conclusione del ricorrente è che, sotto un profilo penale, non appare sostenibile in termini di certezza o di elevata probabilità che il quadro lesivo di natura iatrogena insorto sia conseguente a un inadeguato trattamento del M., evidenziandosi che le linee guida in merito all'esecuzione della colonscopia sono state rispettate, e fermo restando che l'indicazione, nel caso in questione, è stata posta dal medico di medicina generale, che ovviamente conosce la storia clinica meglio di chiunque altro.


Il ricorso si sofferma, in diritto, sulla colpa e sulla causalità, assumendo che la condotta del M. è stata frettolosamente tacciata di imprudenza, essendogli stato rimproverato: a. di avere eseguito una colonscopia diagnostica non indicata, omettendo un preliminare approfondimento diagnostico mediante metodiche meno invasive; b. di avere omesso di eseguire un'adeguata preparazione intestinale; c. di avere proseguito l'indagine endoscopica anche dopo aver rilevato la scarsa pulizia dell'intestino; d. di aver lacerato la parete colica mediante un'errata manovra dell'endoscopio.


La contestazione sub b. -si legge in ricorso- è chiaramente un refuso della Procura, ormai superato, in quanto non si poteva certo addebitare "oggettivamente" all'endoscopista, che vide per la prima volta la paziente la mattina dell'intervento, l'inadeguata preparazione intestinale, che la stessa paziente avrebbe dovuto eseguire al proprio domicilio, nei giorni precedenti, sulla base di raccomandazioni e prescrizioni impartitele da altri.


Quanto alle altre contestazioni, ci si muove per il ricorrente pur sempre nell'ambito della figura del reato omissivo improprio, o commissivo mediante omissione.


Il ricorrente opera alle pagg. 17 e ss. un'analisi della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, attraverso i dieta delle Sezioni Unite Franzese del 2002 e Thyssenkrupp del 2014 in materia di accertamento del reato omissivo improprio e sui vari passaggi della causalità per pervenire ad una certezza processuale.


Lamenta, in particolare, che, proprio a fronte della complessità, sul piano pratico, di pervenire a un giudizio di certezza si assisterebbe dunque al fiorire di soluzioni che si distaccano, in modo più o meno esplicito, dal dictum della Suprema Corte, cui si presterebbe un mero ossequio formale.


Per il ricorrente il vero punctum dolens della sentenza impugnata è rappresentato dalla distinzione fra causalità e colpa.


In particolare, ci si duole che la decisione del G.U.P. di (OMISSIS) abbia valorizzato una serie di condotte asseritamente imprudenti poste in essere dall'endosco-pista -che il ricorrente contesta - così però limitandosi ad approfondire l'ambito dell'accertamento della colpa in capo a costui, ma nulla evidenziando efficacemente circa la sussistenza del nesso eziologico fra omissione ed evento, sicché resterebbe del tutto indimostrata l'eventuale efficacia impeditiva del comportamento doveroso omesso.


Per il ricorrente la colonscopia era indicata, essendo stata prescritta dal medico di medicina generale. E comunque non era controindicata, né vi erano ragioni che imponessero un approfondimento diagnostico, ovvero l'interruzione dell'esame diagnostico.


In relazione a quest'ultimo punto, peraltro, si afferma in ricorso che non può sostenersi con ragionevole certezza (giudizio controfattuale) che l'interruzione della colonscopia avrebbe evitato la lesione; quindi, difetterebbe il necessario nesso di causalità. Del pari, difetterebbe la prova dell'effettuazione di manovre errate compiute dall'endoscopista, che possano aver causato la lesione, che si dovrebbe addebitare esclusivamente ad una complicanza, addebitabile ad alcuno.


Il difensore ricorrente, poi, sui criteri di valutazione della prova, contesta che la colpevolezza del proprio assistito sia stata provata oltre ogni ragionevole dubbio ed evidenzia che in un processo tutto incentrato sulle contrapposte visioni dei consulenti le prospettazioni difensive paiono non essere state ritenute dotate di dignità almeno equivalente a quelle della parte pubblica e non di comodo.


Per il ricorrente l'acritica adesione da parte del G.U.P. alle tesi d'accusa, come illustrate nella ridondante consulenza del P.M., in assenza di qualsiasi passaggio motivazionale che consentirebbe di comprendere quali siano le ragioni che abbiano indotto la giudicante a non ritenere credibili le alternative argomentazioni mediche, alla luce della giurisprudenza di questa Corte (vengono richiamate le sentenze 1240/2012, 16715/2017, 24554/2015 e 20545/2016), vizierebbe irrimediabilmente la sentenza impugnata, in quanto grava sulla parte che intende avvalersene l'onere processuale di fornire la prova che la tesi scientifica propugnata costituisca quella maggiormente accreditata nella comunità degli studiosi, ove esistano orientamenti scientifici contrastanti, indipendentemente dall'opinione espressa dall'esperto chiamato a dare il suo parere nel processo.


In conclusione, viene evidenziato che il chirurgo endoscopista ultrasessan-tenne odierno imputato, incensurato, neppure è stato ritenuto degno della concessione delle circostanze attenuanti generiche, oltretutto in un processo privo della parte civile, risarcita dalla compagnia assicuratrice.


Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.


3. Nei termini di legge ha rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 conv. dalla L. n. 176 del 2020, come prorogato ex D.L. n. 228 del 2021, art. 16 conv. con modif. dalla L. n. 15 del 2022), il P.G., che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.


Le censure del ricorrente, invero, si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito.


L'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.


2. Per quello che rileva in questa sede i fatti che hanno portato a questo processo, come ricostruiti nelle sentenze di merito a(la luce anche della documentazione in atti, e soprattutto dal referto a firma del medico odierno imputato M.V., sono da porre in relazione ad un esame di colonscopia cui N.M. si sottopose il (OMISSIS) alle ore 10:05 presso la Casa di cura "(OMISSIS)" di (OMISSIS), esame prescrittole dal medico curante Dott. R., con finalità diagnostica in ragione di lamentate algie all'emiaddome destro.


Il referto, dopo aver proceduto alla descrizione dell'atto medico, conclude che, pur dovendosi tener conto di una scadentissima toilette intestinale, che limitava la definizione della mucosa colica, con i limiti citati, la colonscopia era risultata negativa.


Successivamente all'esame, la paziente aveva cominciato ad avvertire dei dolori addominali persistenti e, attraverso una radiografia all'addome, venne accertata una perforazione intestinale, rivelata da abbondante aria endoperitoneale


Trasferita d'urgenza al pronto soccorso dell'ospedale di (OMISSIS), vi giungeva alle 14:10 e veniva ricoverata nel reparto di chirurgia per un intervento chirurgico di urgenza, ma prima dell'intervento, alle 22:35, moriva a causa di uno shock emodinamico e arresto cardiaco.


Le cause della morte non sono in discussione.


Veniva svolta nell'immediatezza del decesso una consulenza tecnica ai sensi dell'art. 360 c.p.p. dal dottor M.L., medico-legale e dal dottor D'.Ni., specialista in gastroenterologia.


L'accertamento svolto a seguito di indagine autoptica consentiva in via primaria di constatare a carico della parete del sigma in prossimità del segmento rettale una soluzione di continuo della parete intestinale della lunghezza pari a circa 3,5 centimetri, collocata a circa 11 centimetri rispetto allo sfintere anale esterno.


Il quadro patologico acuto riscontrato all'apertura della cavità addominale era caratterizzato da un marcato versamento peritoneale e da visceri laccati da materia fecaloide, coinvolgente le sierose peritoneali.


Tali osservazioni -come ricorda la sentenza impugnata- venivano confermate da ulteriori accertamenti svolti dal gastroenterologo, che confermava che le perforazioni di visceri cavi ad alto contenuto batterico possono provocare una peritonite gravissima per la rapida diffusione dello spandimento del contenuto viscerale settico; tali evenienze sono originate o da perforazioni iatrogena o spontanee del colon. L'evoluzione della peritonite può essere acuta e, come avvenuto, tale da condurre rapidamente alla morte.


I consulenti concludevano che le cause della morte di N.M. dovevano individuarsi in un'insufficienza multiorgano, quale evento terminale di uno shock settico, conseguente ad una perforazione sigmoidea iatrogena e cioè occorsa nelle fasi della colonscopia svolta il (OMISSIS), responsabile della genesi di peritonite stercoracea diffusa in soggetto grande anziano (la paziente era novantenne) affetto da quadro di comorbilità pluripatologica (cardiomiopatia, osteoporosi, diatesi autoimmune epatopatia).


3. Il primo profilo di colpa, che si è ab initio addebitato all'odierno ricorrente e che è stato ritenuto sussistente da entrambi i giudici di merito, è quello di non avere valutato che, rispetto alle ragioni della prescrizione dell'esame (un dolore addominale cronico), le linee guida in materia ritengono la colonscopia non indicata. Ciò perché la colonscopia è un esame invasivo che presenta un rischio di perforazione della parete intestinale e tale rischio aumenta in caso di sesso femminile, età avanzata e comorbilità.


Lo specialista, perciò, prima di eseguire tale indagine deve procedere ad un inquadramento anamnestico e clinico e alla valutazione della indicazione dell'esame prescritto dal medico di medicina generale o da altro specialista.


Ciò perché l'endoscopista non è un mero esecutore, ma mantiene un'autonomia decisionale e può scegliere anche altri esami meno invasivi.


E' questo il punto nodale dell'odierno decidere.


Il difensore ricorrente fa presente in ricorso che il M. sottopose la paziente, che non aveva mai visto in precedenza, a un colloquio anamnestico, informandosi sulle sue patologie e sui farmaci che assumeva, quindi ne verificò i parametri vitali (polso, pressione, saturazione di ossigeno, ecc.), ritenendo "in definitiva, secondo scienza e coscienza, che non vi fossero controindicazioni assolute all'effettuazione della colonscopia, in base a una serie di ragionate valutazioni cliniche, di cui daremo conto".


Orbene, appare chiara la differente prospettiva di tale visita preliminare tra l'imputato e quanto ritenuto dai giudici di merito.


L'imputato premette in ricorso che il medico di medicina generale che aveva in cura la novantenne N.M. gliel'aveva inviata con la prescrizione di una colonscopia che lo stesso aveva ritenuto necessaria in ragione di un "dolore continuo all'emiaddome destro" che la stessa lamentava. E da quello che si legge in ricorso, e dalla linea difensiva adottata per tutto l'arco del processo, si desume che egli, a fronte di quella prescrizione, abbia ritenuto che la sua visita preliminare all'esame diagnostico, notoriamente invasivo, dovesse limitarsi a verificare se vi fossero terapie farmacologiche in atto o emergenze derivanti da distonia dei parametri vitali (polso, circolazione, saturazione, pressione o esami ematici) che potessero costituire fattori di rischio tali da sconsigliare l'esame.


In altri termini, la linea difensiva dell'endoscopista oggi imputato è che, a fronte di una valutazione già operata da un collega, non fosse suo compito valutare l'adeguatezza e il rapporto tra i rischi che per quella tipologia di paziente comportava l'esame che andava ad effettuare rispetto alla sintomatologia che lamentava. E, conseguentemente, che non fosse neanche suo compito valutare eventuali diverse e meno invasive opzioni diagnostiche. A meno che non avesse verificato ma questo non è in discussione che il M. l'abbia fatto, con esito negativo- che vi fossero terapie farmacologiche in atto o anomalie nei parametri vitali che sconsigliassero di praticare la colonscopia.


Diversa è stata la prospettazione accusatoria, quanto introdotto nel processo attraverso i consulenti e quanto ritenuto, con una doppia conforme affermazione di responsabilità, dai giudici di merito.


Lo chiarisce la sentenza impugnata alle pagg. 9-10, dando conto di quello che deve essere il corretto rapporto tra medico specialista che esegue un esame quale quello di cui all'imputazione e medico proponente.


Il M. - si ricorda in sentenza- è uno specialista in Chirurgia Generale e Endoscopia digestiva, come si evince dalla intestazione del referto a sua firma di data 28/3/2017, e lo stesso, in occasione del suo esame ha riconosciuto a sé oltre alla competenza specifica, anche una vasta esperienza professionale, qualificata dalla esecuzione di circa 4000 colonscopie dall'inizio dei 2017.


Ebbene, con motivazione corretta e che, come vedremo, opera un corretto governo dei principi più volte affermati da questa giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito, nella loro doppia conforme affermazione di responsabilità, hanno ritenuto che uno specialista, qual è pacificamente l'odierno ricorrente, deve necessariamente procedere prima di eseguire l'indagine endoscopica sia all'inquadramento anamnestico e clinico per la corretta esecuzione della indagine (che è pacifico essere stato effettuato), sia alla valutazione dell'adeguatezza dell'esame richiesto rispetto alle patologie sospettate, alla sintomatologia lamentata e agli esiti di eventuali esami che hanno preceduto quello richiesto (valutazione che è mancata e che il M. ritiene non gli competesse).


Ciò perché, secondo la concorde valutazione dei giudici di merito, non si può ritenere che lo specialista endoscopista sia il "mero esecutore" di indagini richieste da altri, non foss'altro perché tale valutazione è necessariamente richiesta al fine di procedere ad un'informazione adeguata necessaria al fine di "raccogliere una valida disposizione di volontà del paziente (il c.d. "consenso informato" (così pag. 10 della sentenza impugnata che richiama pag. 31 della consulenza del dottor M.).


La correttezza di tale impostazione metodologica, che richiede l'autonoma valutazione dell'adeguatezza dell'esame da parte dello specialista, è attestata per la Corte lagunare anche dal documento di "Dichiarazione di avvenuta informazione ed espressione del consenso alla procedura diagnostica terapeutica" del 28/3/2017, firmato dalla paziente e dal M..


Per i giudici del gravame del merito la lettura del documento in questione consente di ritenere che la sua stessa conformazione richieda espressamente una diagnosi clinica da parte dello specialista, a cui segue l'indicazione della "procedura diagnostica proposta", di cui devono essere indicati alla paziente, come si evince dalla lettura del documento "i benefici attesi dalla procedura, possibili inconvenienti e complicanze, tipo di anestesia praticata, possibili alternative alla procedura proposta, possibili conseguenze della mancata esecuzione proposta".


La logica conclusione dei giudici di merito è che, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore per tutto il processo, l'anamnesi e la valutazione dell'esame, anche sotto il profilo clinico, spettava allo specialista, sia per una corretta esecuzione dello stesso, sia per la necessità di informare la paziente e di raccogliere un valido consenso e questo a prescindere dalle eventuali richieste di sanitari, che avessero indirizzato all'esame.


Del resto, come si ricorda in sentenza, il M., in sede di esame, ha riferito di avere eseguito un'anamnesi diretta ad accertare non solo i farmaci di cui la paziente faceva uso e le patologie importanti da cui era affetta, ma anche il motivo per cui l'esame doveva essere effettuato, indicato quale " dolore continuo emiaddome destro " e, da ultimo, la circostanza che non aveva mai effettuato accertamenti né recenti, né in passato in relazione a tale disturbo (così la sentenza impugnata a pag. 10 che richiama l'esame del M. del 6/2/2029, pag. 6, e la "dichiarazione di avvenuta informazione ed espressione del consenso alla procedura diagnostica terapeutica" del 28/3/2017).


Sul punto va rilevato che l'odierno ricorso, che pure si spende anche in argomentazioni extragiuridiche quale, ad esempio, quella sul ruolo della c.d. medicina difensiva nel nostro sistema sanitario, non si confronta criticamente in alcun modo con i contenuti del c.d. consenso informato, che pure il M. ha firmato, evidentemente svalutandolo a mero atto burocratico.


Ed invece, come correttamente rilevano i giudici del merito, nel momento in cui si dà conto che devono essere indicati alla paziente i benefici attesi dalla pro-. cedura diagnostica invasiva che si va a porre in essere, è palese che lo specialista è chiamato a fare propria, convalidandola all'esito di una propria valutazione autonoma, l'eventuale valutazione del medico proponente.


Ritenuto che spettasse al M. un'autonoma valutazione sull'adeguatezza dell'esame e considerato che lo stesso imputato ha riferito di avere tenuto una condotta diretta ad accertare le condizioni soggettive della paziente, per i giudici del gravame del merito egli era sicuramente in grado di conoscere e di valutare l'età avanzata della signora e le patologie di cui la stessa era sofferente (cardiopatia ischemico ipertensiva, patologia che la sentenza impugnata ricorda essere richiamata nell'esame dell'odierno ricorrente a pag. 8 del suo esame, portatrice di pacemaker, epatopatia cronica HCV correlata) che dovevano indurlo ad optare, più prudentemente, per esami meno invasivi. Ciò in quanto, per contro, il disturbo lamentato in anamnesi era rappresentato esclusivamente da un "dolore continuo all'emiaddome destro", con assenza di significative alterazioni cliniche (calo di peso, anemia ferropriva, modificazioni dell'alvo, sanguinamenti gastroenterici in-spiegati).


In sentenza si ricorda che molto si è discusso nel corso del processo sul sintomo riferito come dolore cronico o persistente e come gli stessi consulenti della difesa a pag. 3 dell'elaborato abbiano parlato di "sintomatologia algica persistente da alcuni mesi " (circostanza, tuttavia, che per la Corte territoriale non è risultata provata per tale tempo).


Ebbene, i giudici veneziani rilevano che, a prescindere da tale qualificazione, una riferita algia, seppure persistente, in assenza di altri sintomi non avrebbe in alcun caso consigliato l'esame per la valutazione dell'esistenza di neoplasia, come sostenuto dall'imputato, che ha riconosciuto che l'accertamento diagnostico, nel caso specifico serviva solo a fugare il grosso dubbio sulla "presenza di tumore".


Si rileva in sentenza che già la consulenza del Dottor M. ha escluso, secondo le linee guida riportate a pag. 26 e 27 dell'elaborato, che la colonscopia fosse un esame idoneo ad investigare un dolore "continuo all'emiaddome destro", e che fosse indicazione diagnostica adeguata, in presenza delle condizioni soggettive della paziente sopra descritte e in assenza di significative alterazioni cliniche, che portassero a dover investigare la possibile sussistenza di una neoplasia


L'autonoma valutazione dell'endoscopista e, in ragione delle informazioni assunte con riferimento alla sintomatologia accertata, come si è correttamente ritenuto, doveva portare per i giudici del merito non già a non effettuare l'esame endoscopico richiesto, ma a procrastinarlo, facendolo precedere da un approfondimento diagnostico mediante metodiche meno invasive, più proporzionate al caso specifico e prive di rischi (ecografia addominale, tomografia computerizzata, risonanza magnetica, colon- tomografia, ricerca del sangue occulto nelle feci).


Solo successivamente e solo qualora effettivamente indicato, si sarebbe dovuto procedere alla colonscopia.


4. La materia è delicata e coinvolge il delicato rapporto tra medici specialisti che effettuano esami diagnostici invasivi, con un ineliminabile quoziente di pericolo per il soggetto che vi si sottopone (e' il caso della colonscopia, come della gastroscopia, ma ad esempio, anche delle procedure diagnostiche con mezzo di contrasto o, ad esempio, della coronografia).


Il tema, tuttavia, a ben guardare, è quello ampiamente "arato" da questa Corte di legittimità in tema di affidamento in ambito medico, nello specifico sulla diagnosi o sull'operato altrui.


E' vero che, a scorrere i precedenti di questa Corte, gli stessi si riferiscono nella quasi totalità ai rapporti tra i partecipi all'intervento operatorio o ai medici che si avvicendano nelle cure di un paziente ricoverato in ospedale, ma i principi affermati possono valere anche in casi come quello in esame.


Questa Corte di legittimità, infatti, ha da tempo chiarito che, in tema di colpa professionale, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario - compreso il personale paramedico è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità (così ex multis questa Sez. 4, n. 30991 del 6/2/2015, Pioppo Rv. 264315).


Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Sez. 4, n. 18548 del 24/01/2005, Miranda ed altri, Rv. 231535).


L'obbligo di diligenza che grava su ciascun sanitario, infatti, concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull'operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l'ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio (Sez. 4, n. 53315 del 18/10/2016, Paita, Rv. 269678).


Ebbene, la Corte territoriale fa buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità laddove evidenzia che, nel caso in esame, il rapporto era tra un medico di medicina generale (il c.d. "medico di base" o, come si diceva una volta "il medico di famiglia") ed uno specialista, qual è l'endoscopista.


Il rimprovero che si muove al M. è che competeva anche e soprattutto a lui valutare se, a fronte di un paziente che per età e patologie aveva un quoziente di rischio alto, il tipo di sintomi lamentati (i persistenti dolori addominali) fosse tale da giustificare il ricorso alla colonscopia. O, se invece, non fosse più prudente "ripiegare" su indagini meno invasive quali l'ecografia il clisma opaco, la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica (particolarmente precisa nella visualizzazione del lume e della parete intestinale, del movimento intestinale, della vascolarizzazione e di patologie infiammatorie e neoplastiche) o anche, per quanto riferito dallo stesso imputato, su un esame del sangue occulto nelle feci, che avrebbe potuto fornire quantomeno una prima indicazione circa la presenza di un tumore.


Va evidenziato che, in ricorso, si afferma che non vi sarebbero nella letteratura scientifica indicazioni in tal senso.


Ebbene, ancora una volta l'atto di impugnazione pare non confrontarsi con l'affermazione operata già dal primo giudice che ha rilevato come le linee guida ASGE in materia di appropriatezza dell'esecuzione di colonscopia evidenziano come essa non sia considerata indicata in presenza di dolore addominale cronico (cfr. pag. 4 della sentenza di primo grado che richiama pag. 28 della consulenza tecnica del PM).


Generica appare l'affermazione contenuta a pag. 10 del ricorso, secondo la quale una non meglio precisata "letteratura scientifica" escluderebbe nel caso in esame l'esistenza di controindicazioni all'endoscopia. Ed invero, non risultano richiamate nel ricorso stesso eventuali linee guida, diverse rispetto a quelle citate dai consulenti del PM, da porre a fondamento di tale affermazione; laddove il sapere scientifico secondo la giurisprudenza consolidata può avere ingresso nel processo mediante asserzioni scientifiche, da documentarsi in ipotesi a cura del consulente di parte; per poi, come tali, criticamente essere indicate e richiamate nel ricorso. Il che nel caso di specie non appare essere avvenuto.


La sentenza impugnata opera un buon governo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità sul tema in punto di rapporti tra il giudice e il sapere scientifico e tecnologico, laddove si è precisato che il primo non è giudice del sapere scientifico, giacché non detiene proprie conoscenze privilegiate, ma è chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine alla affidabilità delle informazioni che vengono utilizzate ai fini della spiegazione del fatto (cfr. ex multis Sez. 4, n. 43786 del 17/9/2010, Cozzini, Rv. 248944; Sez. 4, n. 24573 del 13/5/2011, Di Palma ed altri, non mass e Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105).


5. Dunque, il primo profilo di colpa, che tanto il Tribunale di (OMISSIS) che la Corte veneziana ritengono motivatamente sussistente a carico dell'imputato, presenta dei profili omissivi (il non aver valutato che, a fronte dei sintomi lamentati, l'esame richiesto era sproporzionato e sottoponeva la paziente ad un rischio non necessario) e un profilo commissivo (l'avere effettuato un esame che non andava effettuato o, quanto meno, andava procrastinato all'esito di altre indagini diagnostiche meno invasive).


Per l'imputato scegliere di non effettuare la colonscopia alla N. sarebbe stata una scelta di medicina difensiva "negativa", quella per cui si scartano determinati pazienti e determinate procedure per non incorrere in responsabilità.


L'affermazione, tuttavia, non pare tener conto che, nella ponderazione delle scelte terapeutiche o diagnostiche affidate allo specialista (e qui non paiono esservi differenze, contrariamente a quello che ritiene il ricorrente, tra sanità pubblica e privata), viene in gioco anche una prudenza che deve essere, necessariamente, inversamente proporzionale rispetto alla sintomatologia manifestata e al quesito diagnostico da indagare.


Nel caso che ci occupa entrambi i giudici di merito offrono una motivazione logica e congrua, supportata dal sapere scientifico introdotto nel processo, evidenziando come non vi fossero elementi per poter ritenere che la persona offesa avesse un sospetto problema oncologico da indagare. Non essendo sufficiente all'uopo il semplice dolore addominale, quand'anche prolungato nel tempo. E rispetto a tale valutazione -e' la condivisibile opzione dei giudici di merito- lo specialista non può lavarsene le mani, soprattutto quando la prescrizione dell'esame proviene da un collega che specialista non e'.


Occorre, dunque affermare il principio per cui, in tema di colpa professionale medica, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, allorquando venga prescritto un esame diagnostico invasivo (nel caso esaminato una colonscopia), il medico specialista chiamato ad effettuare l'esame non può esimersi dal valutare, oltre che la presenza di fattori che possano condizionare negativamente l'esame stesso (assunzione di farmaci, parametri vitali, esito esami ematochimici), anche la bontà della scelta diagnostica operata dal medico richiedente in relazione alla sintomatologia lamentata dal paziente ed all'esistenza o meno di precedenti indagini diagnostiche che avva(orino il sospetto della malattia ipotizzata, soprattutto allorquando l'esame in questione sia stato prescritto da un medico non specialista (nel caso in esame il medico di medicina generale che seguiva la paziente).


6. Occorra a questo punto soffermarsi sulle doglianze che il difensore ricorrente propone in punto di sussistenza del necessario nesso di causalità tra l'operato del proprio assistito e l'evento morte della persona offesa.


Ebbene, quanto al c.d. nesso di causalità materiale, è fuori discussione, come si legge conformemente nelle due sentenze di merito che la morte della N. sia stata determinata dalla peritonite diffusa scatenata dalla perforazione intestinale.


Il tema successivo è quello del c.d. giudizio controfattuale.


Nel caso che ci occupa, tuttavia, rispetto a questo primo profilo di colpa il comportamento alternativo lecito che si rimprovera all'odierno ricorrente è stato quello di non avere valutato di non fare la colonscopia in quel momento e di non avere optato, anche al fine di valutare se poi farla successivamente, per uno degli esami meno invasivi sopra ricordato. E non pare davvero in discussione che, se non fosse stata effettuata la colonscopia, l'evento morte della N. non si sarebbe verificato.


Basterebbe già la sussistenza di questo primo profilo di colpa per radicare la responsabilità dell'imputato. Tuttavia, come si dirà di qui a poco, i giudici di merito danno anche conto della sussistenza del secondo: il non aver interrotto l'esame allorquando ci si è resi conto che, alla luce della scarsa toilette intestinale, i rischi aumentavano.


Occorre, tuttavia, valutare prima un altro profilo di doglianza, più generale, che il ricorrente propone a questa Corte di legittimità.


20


Si tratta del rilievo secondo cui il provvedimento impugnato non avrebbe tenuto conto degli esiti della consulenza di parte con riferimento alla necessità di acquisizione (e, quindi, di valutazione) del "diario clinico della paziente", dal quale si sarebbe dovuta desumere la ragione posta a fondamento della prescrizione della colonscopia, dall'imputato poi pertanto eseguita.


Il rilievo non è fondato in quanto depongono in senso contrario i punti della motivazione del provvedimento impugnato in cui si evidenzia, in ogni caso. la do-verosità dell'autonoma valutazione dell'adeguatezza dell'esame, nel caso di specie spettante all'imputato in considerazione della sua veste di specialista in chirurgia generale ed endoscopia digestiva, a fronte di prescrizione proveniente da un medico generico (così le pagg. 4 e 9-12 in particolare, ove il riferimento al doveroso inquadramento diagnostico per lo specialista, prima di procedere ad una procedura rischiosa, a maggior ragione per la paziente in esame alla luce dell'età della stessa e della situazione di comorbilità che la caratterizzava, alla luce di conoscenze della scienza medica a maggior ragione esigibili dallo specialista).


In argomento in sentenza si dà motivatamente conto del ritenuto convincimento della superfluità dell'acquisizione del detto diario clinico, risultando peraltro -dal referto dell'esame endoscopico- che l'imputato aveva proceduto all'anamnesi: e, in tal modo, era stato in condizione di acquisire tutti gli elementi da porre a fondamento del doveroso bilanciamento costi-benefici in vista della decisione sul se effettuare la colonscopia sulla paziente.


Generica appare anche la doglianza in punto di omessa indicazione della sintomatologia dolorosa, che avrebbe reso doverosa l'endoscopia.


Tale doglianza rappresenta il tentativo di superare il rilievo nei confronti dell'imputato di avere imprudentemente deciso di intraprendere comunque la procedura in assenza di un corteo sintomatologico idoneo a porre l'indicazione dell'esame invasivo, prospettabile secondo i consulenti del pubblico ministero solo in caso di sospetta patologia tumorale (di cui però non vi sarebbero stati gli elementi nel caso in esame).


Sul punto il ricorso, in particolare, non appare confrontarsi adeguatamente con l'argomentato convincimento in sentenza (nell'ambito di un caso di c.d. doppia conforme) nel senso che difettavano nel caso di specie, comunque, in aggiunta all'algia anche in ipotesi persistente, gli altri elementi idonei ad escludere la possibilità di percorrere preliminarmente la via di meno invasivi approfondimenti diagnostici (cfr. in particolare, pag. 9 del provvedimento impugnato).


7. Il secondo comportamento alternativo lecito che si rimprovera al M. è quello, una volta resosi conto, ad esame iniziato, che non c'era stata un'adeguata toilette intestinale, di avere proseguito l'esame e di non essersi fermato.


Sul punto, in premessa, va evidenziato che, nel descrivere le doglianze in merito all'iter logico giuridico del provvedimento impugnato in punto di ricostruzione del nesso di causalità e delle condotte colpose, il ricorso muove da presupposti erronei alla luce degli atti, quali quello che nel caso di specie si sarebbe trattato "pacificamente non di lacerazione traumatica provocata dalla punta dello strumento, bensì di lesione da sfregamento causata dal passaggio della sonda" (cfr. pag. 5 del ricorso; cfr., in senso contrario pag. 5 e 17 della sentenza impugnata, ove si individua la "natura meccanica della lacerazione" e l'assenza di patologie o di locus minoris resistentiae della parete del colon, a conferma dell'assenza di alternativa rispetto alla natura traumatica della lesione); ovvero che le condotte colpose configurabili sarebbero solo omissive (pag. 7 del ricorso; mentre a p. 18 della sentenza, al termine di serrate argomentazioni in replica agli articolati motivi di appello e ad integrazione della motivazione della sentenza di primo grado, si perviene a ritenere accertati comportamenti di natura commissiva).


Quanto all'asserito travisamento del referto dell'esecuzione della colonscopia, la censura è inammissibile poiché non emerge dal ricorso la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, che si vorrebbe trarre dal referto in alternativa dirimente rispetto al significato probatorio attribuito allo stesso in sentenza; e ciò, in base a motivazione puntuale, esente da illogicità manifesta e da contraddittorietà (cfr., tra i vari punti in cui il ricorso si sofferma su tale profilo, pag. 12 ss.; nonché in particolare pag. 14 ss. della sentenza impugnata per le repliche alle medesime doglianze, in risposta alle criticità prospettate dalla difesa, fondate anche sull'attenta comparazione tra il referto e l'esame dell'imputato).


In proposito, va ricordato che il vizio di "travisamento" di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) deve riguardare una prova che non sia stata affatto valutata ovvero che sia stata considerata dal giudice di merito in termini incontrovertibilmente difformi dal suo ‘significante' e che sia idonea a rendere oggettivamente illogico il ragionamento posto alla base della decisione (cfr. ex multis, la recente Sez. 6, n. 10795 del 16/2/2021)


Non va trascurato che, questa Corte, con orientamento che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636 secondo cui, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta da/la L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, La Gumina ed altro, Rv. 269217).


Nel caso di specie, al contrario, la Corte lagunare ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese in appello e a riproporre la propria diversa lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.


8. Dunque, come si ricorda in sentenza, fin dal momento dell'introduzione dello strumento endoscopico, secondo quanto si legge dal referto, emergeva "una scadentissima toilette intestinale" e, quindi, una inadeguata preparazione intestinale, preliminare all'esame da parte del paziente, in grado di inficiare l'esecuzione dell'esame fondato sulla visualizzazione della parete intestinale al fine di cogliere non solo macro-lesioni, ma soprattutto microlesioni.


A fronte di tale emergenza i consulenti prima, e i giudici di merito poi, hanno ritenuto non corretta la scelta dell'operatore di proseguire l'indagine, essendo per questa ragione compromessa la finalità diagnostica ed essendo immediatamente preordinabile l'esecuzione di una nuova endoscopia ad esito di adeguata toilette.


E invece, come si evince dal referto, l'esplorazione era stata condotta "in qualche modo" sino alle sezioni destre.


Lo stesso referto - si evidenzia in sentenza - ha dato della difficoltà di progressione dello strumento nella risalita del colon discendente. Ciò in quanto la presenza di materiale fecale costituiva un fattore di resistenza nella spinta dell'endoscopio che rendeva prevedibile un'azione meccanica di compressione trazione dell'endoscopio stesso sulla superficie della parete. L'esame autoptico, peraltro, ha escluso la presenza di patologie che avessero potuto opporre una minor resistenza ambientale, né la natura dell'accertamento di carattere diagnostico prevedeva manovre bioptiche o invasive della mucosa.


La linea difensiva sul punto è che la scarsa pulizia dell'intestino creava problemi di visione delle pareti dello stesso, e quindi soprattutto il pericolo di non vedere polipi o neoformazioni di piccola entità -il che, però, vista l'età della persona offesa ed i tempi di evoluzione di tali formazioni non avrebbe costituito un problema- ma non al prosieguo della penetrazione dell'endoscopio nel percorso intestinale, al fine di verificare la presenza di neoformazioni più grosse.


Per i giudici del merito, tuttavia, tali obiezioni trovano un ostacolo insormontabile in quanto lo stesso M. ha scritto nella cartella clinica della paziente, la cui natura fidefaciente viene ricordata in più passaggi, dove si legge che una "scadentissima toilette intestinale (vedi foto) rende disagevole risalire a destra e contemporaneamente impedisce una insufficiente definizione della mucosa colica. In qualche modo si raggiunge il colon destro ingombro di feci anche semiformate che impediscono la definizione della mucosa".


Nel corso del processo, non potendo contestare tale emergenza, la Difesa ha costantemente prospettato la tesi che il M. aveva interesse a "stressare" il dato della non perfetta pulizia dell'organo esaminato, non tanto per documentare delle difficoltà particolari, ma per giustificare l'eventuale mancata osservazione di polipi/neoformazioni di piccole dimensioni. In sintesi, si sarebbe trattato di dare atto della difficoltà di vedere bene la parete interna dell'intestino e non di descrivere una situazione di necessità di una manovra di spinta insolitamente brusca.


Al di là che l'affermazione in questione pare inaccettabile perché pare prospettare un falso ideologico in atto pubblico fidefaciente, non può non evidenziarsi che il ricorrente, che pure nell'atto di impugnazione l'ha tanto censurata, sostenendo tale tesi sembra riconoscere di avere messo in pratica una scelta di medicina difensiva, prospettando difficoltà inesistenti nell'esecuzione dell'esame tali da giustificarlo in caso di errata diagnosi.


La tesi di avere "stressato" il referto, in ogni caso, è rimasta anche in questa sede allo stato di mera congettura, ed è stata già motivatamente confutata dalla Corte territoriale, sul rilievo che tali affermazioni contrastano con le stesse espressioni dell'operatore riportate nel referto, in cui si dice chiaramente che l'indagine era condotta sino al colon discendente, procedendo "in qualche modo".


Per la Corte territoriale l'utilizzo di tale espressione, collegata alla scadentissima toelettatura intestinale, fin da subito riscontrata, autorizza a ritenere che l'operatore non si sia solo trovato di fronte ad un esame più lento - come dallo stesso suggerito -, ma anche ad un esame in cui lo strumento aveva difficoltà a progredire. E che, perciò, andava prudentemente interrotto.


9. Ultimo fronte difensivo in ordine al secondo profilo di colpa imputato al M. è stato quello incentrato intorno al dato indiscusso del punto in cui è avvenuta la perforazione intestinale (11 centimetri dopo l'orifizio anale).


Ammesso che la perforazione abbia avuto natura meccanica, essendosi verificata per azione diretta della punta o del corpo dell'endoscopio sulla mucosa enterica -il che, come si è evidenziato in precedenza, è provato- per il ricorrente la stessa è avvenuta in un punto prossimale all'inserimento dell'endoscopio ed in una fase iniziale dell'esame, allorquando non era stato ancora possibile rendersi conto della scadente pulizia dell'intestino della paziente. E perciò, non essendo stati individuati profili di imperizia nell'esecuzione dell'esame, l'accaduto sarebbe da ricondurre all'incolpevole e fatale concretizzarsi di quello che è il rischio tipico della colonscopia.


Tuttavia, i giudici del gravame del merito hanno già argomentatamente confutato tale difesa, sul rilievo che la semplice lettura del referto, avendo presente la necessità di precisione nella descrizione di quanto percepito dall'operatore in relazione alla natura dell'atto, non consente di evidenziare in alcun passaggio che l'endoscopista si sia reso conto della scadente toilette intestinale solo una volta superato l'intestino retto e raggiunto il sigma, sede in cui, a 11 centimetri dallo sfintere anale, si è collocata la lesione iatrogena riscontrata in sede autoptica.


Al contrario, come si legge in sentenza, i consulenti segnalavano che immediatamente fin dall'inizio dell'esame si era palesata una insufficiente preparazione intestinale, che avrebbe reso difficoltosa la progressione dello strumento in relazione alle specifiche condizioni della paziente e che dunque consigliava il rinvio dell'esecuzione dell'esame alla luce di una migliore preparazione intestinale. E la stessa terminologia utilizzata -e' il logico rilievo dei giudici veneziani- non consente di distinguere in alcun modo che tale carente condizione fosse da collegare al passaggio successivo per raggiungere il colon discendente e non, come scritto nel referto, nella risalita che l'operatore doveva compiere per passare dall'intestino retto al sigma per poi procedere verso il tratto di colon ascendente che "in qualche modo" veniva raggiunto e si presentava ingombro di feci, anche semiformate.


Proprio il tenore letterale del referto ha consentito ai giudici del merito di ritenere che la scarsa condizione di toilettaura fosse evidente fin dall'inizio dell'esame durante la risalita verso il sigma e, successivamente, nel prosieguo dell'indagine, raggiungendo il colon destro.


A rafforzare queste conclusioni è stato fatto riferimento anche alle dichiarazioni dell'imputato che, come ricordano i giudici di appello, in occasione del suo esame non ha esplicitato in alcun passaggio, laddove ha descritto le condizioni in cui aveva trovato l'intestino che "solo mentre percorreva il sigma egli era stato in grado di verificare le condizioni di pulizia dell'intestino" (così com'era stato affermato dal suo difensore nell'atto di appello e come viene ribadito nel ricorso in esame).


Al contrario, si ricorda nella sentenza impugnata che in tutti i passaggi in cui il M. ha descritto le manovre compiute, ha fatto riferimento alla primaria e immediata necessità di dover pulire con acqua e aspirare per poter osservare, anche se in maniera insoddisfacente, la mucosa.


Peraltro, si osserva in sentenza che, conducendo l'indagine sino al colon discendente, procedendo "in qualche modo", è verosimile che la lacerazione già prodottasi nella prima fase della procedura si fosse ulteriormente allargata, sia per le pressioni esercitate dall'endoscopio sia e indirettamente per l'aumento di pressione all'interno delle viscere conseguente


Tutto ciò ha consentito ai giudici veneziani, con una motivazione che appare immune dai denunciati vizi di legittimità, di ribadire il nesso di causa tra gesto iatrogeno e lesione provocata, che una interruzione tempestiva dell'esame, prima di raggiungere il delicato passaggio dal retto al sigma, avrebbe evitato.


10. Conclusivamente, alla luce della puntuale ricostruzione effettuata dalla Corte territoriale, risulta provato il primo dei profili di colpa rimproverabili all'imputato, che risiede nel non aver omesso l'esecuzione dell'esame, rinviandolo all'esito di altri e meno invasivi approfondimenti strumentali. E provato è anche il successivo rimprovero di aver proseguito nello stesso esame, nonostante l'inadeguata preparazione intestinale -che ha poi determinato "la spinta" all'atto della risalita del colon discendente e, quindi, la lesione (cfr. pag. 16 della sentenza impugnata)- che rappresenta un ulteriore rimprovero, causalmente rilevante ai fini dell'evento morte, rispetto al primo e fondamentale rimprovero di aver iniziato la procedura, nel corso della quale si verificava la complicanza.


Donde il motivato convincimento in merito al nesso di causalità tra la colpa e il decesso, formulato dalla Corte di Appello in base ad iter logico congruo, non manifestamente illogico e corretto in diritto.


Per contro appare infondata la doglianza in termini di omessa considerazione delle alternative argomentazioni mediche svolte dal consulente di parte, in asserita violazione della regola del ragionevole dubbio. Ed invero, il giudice di appello ha compiutamente analizzato le ipotesi alternative prospettate, escludendole alla luce delle più persuasive argomentazioni tecnico-scientifiche fornite dai consulenti del pubblico ministero e dando atto delle ragioni per le quali il medesimo le riteneva tali. Il che porta ad escludere la manifesta illogicità della motivazione anche sotto tale profilo.


In proposito, va ricordato che in questa sede di legittimità, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) è necessario che la ricostruzione dei fatti prospettata dall'imputato che intenda far valere l'esistenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, contrastante con il procedimento argomentativo seguito dal giudice, sia inconfutabile e non rappresentativa soltanto di un'ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (cfr. ex multis Sez. 2, n. 3817 del 9/10/2019, dep. 2020, Mannile, Rv. 278237; conf. Sez. 6, n. 10093 del 5/12/2018, dep. 2019, Esposito, Rv. 275290).


11. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.


PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 7 luglio 2022.


Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2022

Hai bisogno di assistenza legale?

Prenota ora la tua consulenza personalizzata e mirata.

 

Grazie

oppure

PHOTO-2024-04-18-17-28-09.jpg
bottom of page