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Il concetto di amministratore di fatto nella bancarotta: la rilevanza della continua attività gestoria e cogestoria. (Cassazione penale n. 2514/23)


Bancarotta fraudolenta

1. La massima

In tema di bancarotta, la qualifica di amministratore di fatto di una società non richiede l'esercizio di tutti i poteri tipici dell'organo di gestione, essendo necessaria e sufficiente una significativa e continua attività gestoria o cogestoria, svolta in modo non episodico o occasionale, anche solo in specifici settori, pur se non interessati dalle condotte illecite, tale da fornire indici sintomatici dell'organico inserimento del soggetto, quale intraneus , nell'assetto societario.

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2. La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. V , 04/12/2023 , n. 2514

FATTI DI CAUSA

1. Con la sentenza del 24 aprile 2023, la Corte di appello di Bologna ha confermato la pronuncia di primo grado emessa, in data 29 marzo 2019, dal G.U.P. presso il Tribunale di Piacenza nei confronti di Co.El., che lo aveva condannato alla pena di anni tre di reclusione, oltre che al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile costituita, per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 216 comma 1 n. 2 e 223 Legge fall., (capi A e B).

All'imputato è contestato di avere, in qualità di amministratore di fatto della società Esdra costruzioni s.r.l., dichiarata fallita con sentenza dal Tribunale di Piacenza in data 29 marzo 2013, in concorso con la moglie Ri.Ro., tenuto le scritture contabili in maniera tale da non consentire la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio, anche mediante l'utilizzo di fatture false, nonché di avere distratto:

- Euro 77.000 a mezzo prelievi effettuati anche presso ATM, qualificati dall'imputato come spese vive sostenute dall'amministratore e contabilizzate nei bilanci 2011 e 2012 pur in assenza di alcun verbale assembleare autorizzativo dei compensi e di alcuna riconciliazione con la contabilità societaria;

- Euro 88.350 a mezzo prelevamenti indicati nel mastrino cassa, dì cui è risultata ignota la destinazione finale ed il loro utilizzo;

- Euro 18.350 indicati quali prestiti erogati ai dipendenti nel corso del 2010 ma nella realtà mai corrisposti.

- Euro 202.000, pagati in contati, alla società Citev S.a.s., alla Elettro Termo impianti di Bu. ed alla CM 10 manutenzioni stabili s.r.l., per presunti lavori effettuati dalle stesse presso la fallita ma in realtà mai eseguiti.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato, a mezzo del difensore d'ufficio, articolando le proprie censure in sei motivi.

2.1. Con il primo motivo, si deduce vizio di motivazione in relazione all'art. 533 cod. proc. pen., non essendo stata valutata la colpevolezza dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, con riferimento al presunto ruolo di amministratore di fatto in ordine all'accertamento del reato di cui all'art. 2 D.lvo. 74/2000 - contestato ed accertato fino al 2009 - posto a base del delitto di bancarotta fraudolenta documentale.

Si evidenzia la contraddittorietà della sentenza impugnata in quanto la sentenza di dichiarazione dì fallimento della Esdra Costruzioni s.r.l. è stata emessa in data 29 marzo 2013, mentre la pronuncia del G.I.P. presso il Tribunale di Lodi è del 20 novembre 2012 ed è divenuta definitiva a seguito della conferma della Corte di appello di Milano in data 7 aprile 2016 e dunque, non è antecedente al fallimento predetto.

Si ribadisce come peraltro la sentenza per emissione di fatture false è stata emessa solo nei confronti di Ri.Ro., quale amministratore della fallita. Pertanto, almeno fino al 2009, si esclude, per accertamento giudiziale di cui alla predetta sentenza, che il ricorrente fosse amministratore di fatto della società.

2.2. Con il secondo motivo, si contesta vizio di motivazione in relazione all'art. 533 cod. proc. pen., non essendo stata valutata la colpevolezza dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, in ordine al presunto ruolo di amministratore di fatto, con riferimento al fatto che la Ri.Ro. aveva sempre l'ultima parola, nonché la mancanza di motivazione in ordine alla "sfera gestionale".

La Corte territoriale non si confronta con lo specifico motivo di appello avanzato dalla difesa con riguardo all'attribuzione del ruolo di amministratore di fatto all'imputato. Invero, la prova di tale qualità implica l'accertamento di una serie di indici sintomatici tipizzati dalla prassi giurisprudenziale, dei quali i giudici di merito non hanno tenuto conto, pur riconoscendo che Ri.Ro. "aveva sempre i'ultima parola" in materia amministrativa, aggiungendo come tale circostanza non sia incompatibile con l'attribuzione all'imputato di un ruolo di primo piano nella sfera gestionale dell'impresa. Sul punto, si contesta la mancata motivazione sulla precisazione di quali sarebbero stati i compiti asseritamente svolti dal ricorrente con riferimento alla sfera gestionale che, ai fini della bancarotta contestata, non attiene, tanto, alla gestione del personale, quanto ad un potere di spesa (rilevante ai fini di una condotta di distrazione).

2.3. Con il terzo motivo, si contesta violazione di legge in relazione all'art. 533 cod. proc. pen., per mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine al presunto ruolo di amministratore di fatto per presunta assenza di disaccordi in ambito familiare.

Si evidenzia come la circostanza per cui non vi fosse disaccordo tra i membri della famiglia dell'imputato non è di per sé sufficiente ad affermare, come ha fatto la Corte territoriale, che il ricorrente fosse l'amministratore di fatto della società.

Quanto all'estensione della punibilità dei fatti di bancarotta fraudolenta agli amministratori di fatto, si ribadisce nuovamente che la circostanza per cui la Ri.Ro. avesse l'ultima parola, esclude un ruolo di preminenza assoluta nella gestione della società da parte dell'imputato.

Né è emerso che fosse lui l'unico responsabile della contabilità, e che fosse dotato di autonomia decisionale, non essendo questa a lui attribuibile neppure pensando alla figura dell'institore, in considerazione del potere decisionale che aveva invece la Ri.Ro..

2.4. Con il quarto motivo, si contesta vizio di motivazione in relazione all'elemento soggettivo.

Si lamenta come la Corte d'appello, a fronte dì uno specifico motivo d'appello relativamente alla mancanza di prove certe per affermare la sussistenza del coefficiente psicologico atto ad integrare la fattispecie contestata, si sia limitata ad affermare - senza dimostrare la volontarietà e la consapevolezza volta a determinare un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori - che la condotta dell'imputato è idonea a recare pregiudizio ai creditori, rifacendosi genericamente alla definizione stessa del dolo specifico richiesto per la bancarotta contestata.

2.5. Con il quinto motivo, si lamenta violazione di legge in relazione all'art. 539 cod. proc. pen., con riferimento al risarcimento del danno.

Secondo il ricorrente è illegittima la condanna generica al risarcimento del danno, non avendo la Corte indicato in base a quali elementi si è ritenuta raggiunta la prova dei pretesi danni e dell'entità degli stessi, non dandosi prova nemmeno, come invece previsto dalia norma, della potenzialità del danno.

2.6. Con il sesto ed ultimo motivo, si contesta violazione di legge in relazione al trattamento sanzionatorio inflitto, specie con riferimento alla riduzione per le attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis cod. pen., in percentuale non uguale rispetto alla pronuncia di primo grado.

In particolare, il ricorrente rileva come la Corte territoriale abbia confermato la pena comminata dal giudice di primo grado, operando però un sistema di calcolo differente: a differenza del Tribunale, i giudici di secondo grado, partendo dalla pena base di anni quattro di reclusione, aumentano subito per la continuazione ad anni cinque di reclusione e riducono poi per le attenuanti generiche ad anni quattro e mesi sei, operando così una reformatio in peius, ove non applicano la riduzione in percentuale pari ad 1/8, così come operata dal giudice di primo grado.

3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d. l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n.176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 17 d.l. 22 giugno 2023 n. 75, per le impugnazioni proposte sino al quindicesimo giorno successivo al 31.12.2023 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto:

il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso;

il difensore dell'imputato ha insistito nell'accoglimento del ricorso, contro-deducendo ai rilievi del P.G.


RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è inammissibile.

1.1 primi tre motivi, che contestano la sussistenza della qualifica di amministratore di fatto in capo al ricorrente, attraverso la deduzione dei vizi motivazionali e di violazione di legge enunciati nel ritenuto in fatto, sono affetti da genericità estrinseca e sotto diversi aspetti anche da genericità intrinseca.

Ed invero, leggendo il ricorso balza evidente che la contestazione principale in esso contenuta passa attraverso la circostanza che dall'istruttoria dibattimentale sarebbe emerso che la moglie del ricorrente, Ri.Ro., alla quale i fatti sono contestati nella qualità di amministratrice formale della società fallita, avrebbe invece avuto "l'ultima parola", ossia un potere decisionale assorbente che avrebbe escluso la riconducibilità dell'amministrazione - di fatto - all'imputato, laddove secondo quanto si legge negli stessi motivi di ricorso tale "ultima parola" era relativa alla gestione amministrativa e non afferiva quindi a tutti gli ambiti gestionali rispetto ai quali può dispiegarsi la gestione societaria, ambiti a cui la sentenza impugnata non aveva mancato di fare riferimento.

Ed invero, i giudici di merito, nel ricostruire la qualifica attribuita al ricorrente, hanno fatto espresso riferimento al ruolo centrale - come descritto dagli stessi dipendenti - che egli rivestiva nella società, curando, lui, i rapporti con la clientela, coi dipendenti, ed essendo a lui riconducile, ad esempio, anche la decisione in merito al licenziamento di alcuni dipendenti e la scelta degli approvvigionamenti.

Evidente rimane quindi la genericità dei motivi che si aggrappano alla circostanza secondo cui l'amministratrice di diritto avrebbe avuto "l'ultima parola" nel settore amministrativo, tralasciando tutti i molteplici aspetti decisionali che hanno connotato la gestione del ricorrente, come indicati congruamente nella sentenza impugnata, la cui motivazione risulta assolutamente conforme ai principi elaborati in materia da questa Corte.

La posizione dell'amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, va invero determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l'attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, oltre che quella di amministratore di fatto mediante l'estensione delle qualifiche soggettive disciplinata dall'art. 2639 cod. civ., costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell'accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall'organico inserimento del soggetto, quale "intraneus" che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell'"iter" di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi -rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti - in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare (cfr. tra tante, Sez. 1, n. 18464 del 12/05/2006, Rv. 234254 - 01).

La ricostruzione del profilo di amministratore di fatto deve condursi, in ambito penalistico, alla stregua di specifici indicatori, individuati non soltanto rapportandosi alle qualifiche formali ovvero alla mera rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (ex multis Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Ottobrini, Rv. 268273) bensì sulla base delle concrete attività dispiegate in riferimento alla società oggetto d'analisi, riconducibili - secondo validate massime di esperienza - ad indici sintomatici, quali la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria, la generalizzata identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi, l'intervento nella declinazione delle strategie d'impresa e nelle fasi nevralgiche dell'ente economico. Non si pone pertanto l'accento unicamente sulla formale assegnazione della qualifica di amministratore, ma anche sulla sostanziale allocazione interna all'organizzazione societaria delle competenze proprie di tale figura. Lo svolgimento di fatto di funzioni gestorie può derivare non solo dal caso in cui il soggetto eserciti, pur in assenza di una formale investitura, le funzioni ed i poteri tipici delle corrispondenti figure di diritto - tra le quali vi è anche quella dell'institore cui pure il ricorso fa genericamente ed inutilmente riferimento da! momento che ai sensi dell'art. 227 l.f. all'institore si applicano comunque le disposizioni di cui all'art. 216 l.f. - ma anche dalle ipotesi in cui l'atto di nomina sia per qualsiasi ragione invalido (ad esempio perché adottato in presenza di cause di ineleggibilità) oppure revocato.

Ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore "di fatto" è dunque sufficiente la presenza di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare, ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta - come nel caso di specie - da congrua e logica motivazione (ex multis, Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, Rv. 277540 - 01).

Sicché - ed è ciò che maggiormente rileva ai fini del ragionamento nel caso di specie - ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica di amministratore "di fatto" non occorre -così come per i casi di amministrazione formale - l'esercizio di "tutti" i poteri tipici dell'organo di gestione potendosi verificare ipotesi di cogestione, anche di fatto, ma è necessaria, e sufficiente, una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale, tale da fornire elementi sintomatici dell'organico inserimento del soggetto, quale intraneus, nell'assetto societario.

Vengono riconosciuti come indici dimostrativi di tale posizione di fatto, tra gli altri, l'intervento nella declinazione delle strategie d'impresa e nelle fasi nevralgiche dell'ente economico, e tali sono da ritenere certamente proprio quelle attività - accertate nel caso di specie in capo al ricorrente con una valutazione di fatto sostenuta da congrua e logica motivazione, in quanto tale insindacabile nella presente sede di legittimità - involgenti la gestione, con potere decisionale, dei dipendenti e delle commesse cui è conseguita la identificazione nelle funzioni amministrative da parte dei dipendenti e dei terzi.

Né, più in generale, può ritenersi estraneo a tale accertamento il contesto illecito in cui si inseriscono i comportamenti di fatto assunti dall'agente, potendo assumere valenza corroborativa, unitamente agli altri elementi, le stesse condotte criminose poste in essere dal soggetto agente che, per l'incidenza che esse possono avere sull'assetto e sulla stessa vita della società, sono diretta esplicazione di un potere decisionale assoluto, proprio di chi svolge attività quale dominus indiscusso delle stesse sorti della società.

In altri termini, l'apprezzamento in argomento, diversamente da quanto dedotto in ricorso, non può ritenersi limitato alla fisionomia delineata dal codice civile, che declina lo status di amministratore, anche di fatto, nella dimensione fisiologica dell'attività d'impresa, ma va riguardato nel più ampio contesto delle ingerenze e degli interessi antigiuridici che possono contaminare il ruolo svolto e che finiscono con il colorarlo ulteriormente attraverso la sua devianza illecita.

Né d'altronde ai fini della esclusione della qualifica di amministratore di fatto potrebbe assumere, di per sé, rilievo decisivo la circostanza che i poteri di fatto esercitati dal soggetto agente - nel caso di specie il Co.El. - non involgano direttamente le condotte criminose fallimentari, nel caso di specie quelle distrattive implicanti poteri di spesa che secondo la difesa non sarebbero stati accertati in capo al ricorrente, dal momento che, una volta riconosciuta la qualifica di amministratore di fatto - come nel caso di specie - in base a plurimi elementi convergenti in tal senso, va da sé: 1) che delle condotte distrattive - oltre che di quelle documentali - ne debba rispondere l'amministratore di fatto, se del caso in concorso con quello formale, a prescindere dal fatto che esse siano direttamente collegabili o meno ai settori in cui si è esplicata l'attività gestoria dell'amministratore di fatto; 2) e che questi potrebbe andare esente da responsabilità solo nel caso in cui dovesse risultare che la sottrazione dei beni sia avvenuta per evento del tutto imprevedibile a lui non imputabile; con la conseguenza che il profilo della settorializzazione dell'amministrazione, circoscritta, cioè, solo a determinati ambiti, potrebbe al più rilevare sul piano dell'integrazione, in concreto, della fattispecie criminosa, ma giammai di per sé ai fini della configurazione della qualifica di amministratore, che, come detto, si acquisisce anche nel caso in cui l'amministrazione si esplica solo in determinati settori e prescinde dal fatto che le condotte illecite interessino proprio quei settori o altri.

Tutto ciò, peraltro, senza considerare che le attività gestorie del ricorrente sono state individuate anche proprio in relazione ad aspetti involgenti il "potere di spesa" e la tenuta della contabilità (come ricostruito dai giudici di merito nelle conformi pronunce di primo e secondo grado).

1.1. Va, invero, ribadito che una volta appurato il ruolo di amministratore di fatto in capo ad un soggetto, sul versante della responsabilità penale, discende che questi, gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore di diritto, assume, ricorrendo le altre condizioni di ordine oggettivo o soggettivo, la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a quest'ultimo addebitabili anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall'art. 40, comma secondo, cod. pen. (sez. 5, sentenza n. 15065 del 02/03/2011, Guadagnoli e altri, Rv. 250094; sez. 5, sentenza n. 39593 del 20/05/2011, Assello, Rv. 250844; sez. 5, sentenza n. 7203 del 11/01/2008, Salamida, Rv. 239040); con la conseguenza che ove pure si dovesse ritenere riferibile all'amministratore di diritto la condotta illecita, quello di fatto, ricorrendo le altre condizioni di ordine oggettivo o soggettivo, non andrebbe essente da responsabilità ai sensi dell'art. 40 citato; a lui una corresponsabilità può essere imputata in base alla posizione di garanzia di cui agli artt. 2392 e 2394 cod. civ., in forza dei quali l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.

Il soggetto il quale abbia assunto, in base all'art. 2639 c.c., la qualifica di amministratore di fatto, essendo tenuto ad impedire ai sensi art. 40, comma 2, c.p. le condotte illecite riguardanti la gestione della società o a pretendere l'esecuzione degli adempimenti previsti dalla legge, è responsabile di tutti i comportamenti, sia omissivi che commissivi, posti in essere dall'amministratore di diritto, al quale è sostanzialmente equiparato ai sensi della citata disposizione del codice civile, come sostituita ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs 11 aprile 2002 n. 61, che peraltro ha prevalentemente natura interpretativa di precedenti, consolidati, approdi giurisprudenziali (Sez. 3, 5 luglio 2012, n. 33385); d'altronde, a parti invertite vale la medesima regola (fermo restando che si tratta poi in concreto di stabilire le effettive responsabilità in base ai parametri oggettivi e soggettivi che governano l'accertamento del reato).

1.2. Nel caso in esame, come preannunciato, la sentenza impugnata descrive gli indicatori dell'effettiva riconducibilità al ricorrente delle scelte gestionali ed operative relative alla società fallita, alla stregua delle prove acquisite, segnatamente, delle dichiarazioni dei dipendenti e dei fornitori delle società e della stessa figlia del ricorrente, oltre che della ricostruzione svolta dal curatore nelle relazioni ex art. 33 l.f.; in particolare, individuando nel predetto il reale dominus dell'impresa all'epoca dei fatti, avendo tra l'altro il curatore evidenziato che le scelte gestionali, operative e finanziarie della società erano state assunte, dal 2007 al 2012, dal ricorrente, ivi comprese quelle sfociate nelle condotte illecite ascritte esclusivamente alla Ri.Ro. nell'ambito del procedimento penale per reati tributari per false fatturazioni (risoltesi, nell'ambito del presente procedimento, in condotte penalmente rilevanti sul versante della tenuta delle scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio, in aggiunta a tutte le altre parimenti individuate dai giudici di merito, come descritte nell'imputazione); a nulla rilevando che nell'ambito del procedimento penale tributario, svoltosi contro la Ri.Ro., non si fosse accertata l'amministrazione di fatto del ricorrente - circostanza che parimenti il ricorso pone a fondamento della critica involgente la ricostruzione della qualifica di amministratore di fatto - essendo stati i reati tributari evidentemente accertati dalla G.d.F. nei confronti dell'amministratore formale che all'epoca era la Ri.Ro..

l.3. In tale contesto, e alla luce di tutto quanto sopra argomentato anche in diritto, s'appalesano inconducenti i rilievi difensivi volti a screditare l'accertamento della qualifica di amministratore di fatto in capo al ricorrente a cagione del ruolo che avrebbe anche di fatto assunto l'amministratrice formale - che non esclude a rigore, come detto, il concorso nel reato di chi si è ingerito nell'amministrazione societaria - giungendo a circoscriverlo ad aspetti irrilevanti, laddove esso non si è affatto esaurito - a differenza di quanto vorrebbe in particolare il terzo motivo di ricorso - nella constatazione del rapporto di coniugio tra il ricorrente e l'amministratrice di diritto Ri.Ro. e dell'assenza di disaccordi in ambito familiare; e ciò di là del fatto che le censure difensive finiscono, per altro verso, con il richiedere una complessiva rivalutazione dei fatti e delle prove, preclusa nella presente sede di legittimità.

2. Il quarto motivo sull'elemento soggettivo ancora una volta fa erroneamente riferimento al dolo specifico laddove nessuna delle due ipotesi criminose contestate al ricorrente di bancarotta distrattiva e bancarotta documentale ed. generica richiede la sussistenza del dolo specifico. In ogni caso la sentenza impugnata ha dato conto delle ragioni che militano per la configurazione anche dell'elemento soggettivo.

Ampiamente argomentata risulta, innanzitutto, l'ascrivibilità al Co.El. delle condotte distrattive contestate, della acclarata mancanza di giustificazione dei prelievi, della mera apparenza delle disposizioni a favore di terzi e della piena consapevolezza da parte del medesimo della gravità e irreversibilità della crisi dell'impresa.

La iniziale apparenza della regolarità della documentazione societaria è stata superata dalle emergenze investigative, soprattutto con riferimento alla emissione di fatture per operazioni inesistenti, funzionali anche alla copertura del consapevole drenaggio di liquidità dal patrimonio societario, e rispetto a tale evenienza non potrebbe assumere alcuna valenza decisiva, neppure ai fini della affermata sussistenza di vizi motivazionali, la circostanza che la sentenza che ebbe a condannare la Ri.Ro. per i reati di falsa fatturazione per operazioni inesistenti in fronde al fisco - per importi considerevoli - risulti passata in giudicato in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento e non antecedente ad esso come affermato nella sentenza impugnata, laddove appunto quella pronuncia di condanna riposa comunque su un accertamento della Guardia di finanza antecedente alla sentenza di fallimento, che ha costituito la base dell'affermazione di responsabilità.

In ogni caso quanto alla bancarotta documentale il riferimento non è solo alle fatture per operazioni inesistenti, perché a superare l'apparenza della regolarità contabile vi sono tutte quelle operazioni non registrate o che riportano diciture non corrispondenti al reale, quali i prelievi annotati effettuati in assenza di alcun verbale di assemblea autorizzativo dei compensi e di alcuna riconciliazione con la contabilità societaria, i diversi pagamenti che risultano apparentemente eseguiti nei confronti di alcuni dipendenti (che erano poi restituiti al datore di lavoro), i pagamenti in favore di società comunque inesistenti per il fisco riportati come costi pluriennali a fronte di lavori mai eseguiti e in un caso comunque non pagati.

3. Il quinto motivo è aspecifico perché la Corte di appello, a differenza di quanto si assume in ricorso, offre motivazione adeguata in ordine al profilo del danno per il quale vi è stata condanna generica in primo grado, dando, anzi, conto, attraverso la motivazione svolta, proprio della sussistenza di quel danno potenziale che la difesa ha ritenuto non oggetto di valutazione, avendo fatto riferimento - sia pure nel valutare la congruità della provvisionale - all'entità delle somme sottratte dalle casse sociali.

4. Del tutto privo di rilievo, e di interesse, è infine il sesto motivo tenuto conto che la Corte di appello si limita a riportare il calcolo effettuato dal Tribunale e che, di là di eventuali errori materiali nel descriverlo, non è giunta ad alcuna modifica del trattamento sanzionatorio in precedenza determinato dal primo giudice, tant'è che conferma in toto la sentenza di primo grado; sicché non può in alcun modo ritenersi intervenuta quella reformatio in peius argomentata col motivo in scrutinio che si appalesa in definitiva inammissibile, oltre che per manifesta infondatezza, anche perché non supportato da un effettivo interesse.

5. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 4 dicembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2024.


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