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Art. 416 bis del codice penale: quando si configura il reato di associazione mafiosa

Approfondimenti

L'associazione mafiosa, come l'associazione semplice delineata nell'art. 416 c.p., integra, dal punto vista strutturale, un reato di pericolo, giacché la sola sua esistenza compromette il bene giuridico tutelato dalla norma (l'ordine e la sicurezza pubblica, nonchè la libertà individuale).


L'esistenza di un'associazione mafiosa - rapportabile alla fattispecie delineata dall'art. 416 bis c.p. - va accertata secondo criteri "legali" e non secondo l'articolazione che assume il fenomeno mafioso nelle regioni interessate, L'articolazione interna delle "mafie" può costituire, e spesso costituisce, un formidabile strumento di identificazione di un determinato gruppo malavitoso costituente "associazione mafiosa" ai sensi dell'art. 416 bis c.p., ma non vincola gli operatori del diritto, giacché i criteri legali di accertamento della societas sceleris (pactum e affectio) trascendono l'organizzazione interna del crimine e la stessa strutturazione del fenomeno per derivare direttamente dalla legge.


L'esistenza di un'associazione mafiosa - rapportabile alla fattispecie delineata dall'art. 416 bis c.p. - va accertata secondo criteri "legali" e non secondo l'articolazione che assume il fenomeno mafioso nelle regioni interessate, L'articolazione interna delle "mafie" può costituire, e spesso costituisce, un formidabile strumento di identificazione di un determinato gruppo malavitoso costituente "associazione mafiosa" ai sensi dell'art. 416 bis c.p., ma non vincola gli operatori del diritto, giacché i criteri legali di accertamento della societas sceleris (pactum e affectio) trascendono l'organizzazione interna del crimine e la stessa strutturazione del fenomeno per derivare direttamente dalla legge.


Invero, come è stato messo in evidenza - sia in dottrina che in giurisprudenza - già in relazione al delitto di associazione per delinquere comune e come a fortiori deve valere in relazione all'associazione mafiosa (la quale è intrisa di illiceità penale fin nel metodo operativo utilizzato), la costituzione di un ente siffatto sviluppa - già per il solo fatto di esistere - una carica di pericolosità espressiva di un danno attuale ed effettivo rispetto a beni fondamentali.


Così come va ricordato che le associazioni mafiose, soprattutto nei luoghi di storico radicamento, non hanno bisogno di esercitare con continuità la forza intimidatrice di cui sono portatrici, giacché la fama criminale di cui si sono circondate - grazie al patrimonio criminale pregresso - consente loro di beneficiare, senza esibizioni muscolari, della sottomissione "spontanea" del corpo sociale in cui allignano. Inoltre, va tenuto conto del fatto che lo scopo delle associazioni mafiose - a differenza di quanto si riscontra nelle associazioni "semplici" - non è dato solo dalla commissione di reati-fine, ma, molto più genericamente, dall'acquisizione di posizioni di vantaggio in ogni campo dell'attività economica e della vita sociale. Per tale motivo l'associazione mafiosa esercita, sul corpo sociale, un'attrattiva enormemente maggiore delle associazioni classiche, convogliando verso di essa una pluralità di soggetti, dal più diverso profilo, disposti ad avvalersi della forza di intimidazione che da essa promana.


Secondo l'indirizzo interpretativo maggioritario e più consolidato, ai fini della consumazione del reato di cui all'art. 416 bis c.p., occorre che l'associazione abbia conseguito in concreto, nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione, quale forma di condotta positiva (tra le altre, Cass., sez. VI, 16 settembre 2015, n. 50064, Barba, Rv. 265656; Cass., sez. VI, 12 maggio 2016, n. 44667, Camarda, Rv. 268676; Cass., sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359, Pesce, 269043; Cass., sez. II, 30 aprile 2015, n. 34147, Agostino, Rv. 264623).


Tale impostazione è condivida da autorevole dottrina secondo cui tra i requisiti strutturali della fattispecie di cui all'art. 416 bis c.p. vi è quello della concreta estrinsecazione della capacità intimidatoria; per integrare il delitto di associazione mafiosa è necessaria, oltre alla sussistenza del vincolo associativo, un'attività esterna obiettivamente riscontrabile e concretamente percepibile.


Deve infatti essere rivisitato criticamente l'assunto secondo cui anche l'associazione mafiosa sarebbe un reato associativo "puro", che si perfeziona sin dal momento della costituzione di una organizzazione illecita che si limiti a programmare di utilizzare la propria forza di intimidazione e di sfruttare le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà per la realizzazione degli obiettivi indicati dalla norma, anche nel caso in cui l'effetto intimidatorio non sia in concreto prodotto.


In senso opposto alla impostazione indicata depone invece la locuzione "si avvalgono" contenuta nella norma, che rende esplicita, ai fini della consumazione del reato, la necessità che il gruppo faccia un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso.


Il metodo mafioso costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l'associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria la manifestazione esterna della capacità di intimidazione in quanto ciò rende esplicito il suddetto nesso di strumentalità.


Tale opzione interpretativa è coerente con lo sviluppo dei lavori parlamentari - che, partendo da una originaria proposta che prevedeva un reato meramente associativo, sono giunti alla attuale stesura della norma incentrata sull'uso dell'indicativo "si avvalgono"- e con i principi costituzionali di materialità e tassatività di cui all'art. 25 Cost.: la necessità di una esteriorizzazione della capacità di intimidazione contribuisce a rendere empiricamente percepibile il metodo mafioso.


Il profilo relativo alla necessità che la capacità intimidatrice sia formata, esternata, obiettivamente percepita ed attuale si distingue da quello relativo alle modalità con cui tale capacità si esteriorizza, potendo essa tradursi "in atti specifici, riferibili ad uno o più soggetti, suscettibili di valutazione, al fine dell'affermazione, anche in unione con altri elementi che li corroborino, dell'esistenza della prova del metodo mafioso" (Così, sez. III, 24 aprile 2012, n. 31512, Barbaro).


La esteriorizzazione della capacità di intimidazione non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell'associazione o dei singoli partecipi; la violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono un accessorio eventuale, sotteso, diffuso, percepibile di quella forza di intimidazione, ben potendo quest'ultima esplicitarsi, tuttavia, anche con il compimento di atti che siano non violenti, ma espressione della esistenza attuale, della fama criminale e della notorietà del vincolo associativo.


In tal senso si afferma che il ricorso alla violenza o alla minaccia non costituisce una modalità con cui puntualmente debba manifestarsi all'esterno la condotta degli agenti, dal momento che la condizione di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi, indotti nella popolazione e negli associati stessi, costituiscono, più che l'effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale dell'associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici ed indiretti, si accredita come temibile, effettivo e autorevole centro di potere (Cass., sez. V, 16 marzo 2000, n. 4893, Frasca, Rv. 215965; Cass., sez. VI, 7 giugno 2004, n. 31461, Rv. 230019; Cass., sez. I, 10 luglio 2007, n. 34974, Rv. 237619; Cass., sez. VI, 15 luglio 2015, n. 34874, Rv. 264647).


In mancanza della prova di specifici atti di intimidazione e di violenza, la forza intimidatrice può essere desunta anche da circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacità attuale dell'associazione di incutere timore ovvero dalla generale percezione che la collettività abbia della efficienza del gruppo criminale nell'esercizio della coercizione fisica (Cass., sez. I, 16 maggio 2011, n. 25242, Baratto, Rv. 250704; Cass., sez. I, 12 dicembre 2003, n. 9604, Marinaro, Rv. 228479; nell'enunciare questo principio la S.C. ha precisato che le condizioni di assoggettamento della popolazione e gli atteggiamenti omertosi conseguono, più che a singoli atti di sopraffazione, al cd. prestigio criminale dell'associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici ed indiretti, si è accreditata come un centro di potere malavitoso temibile ed effettivo).


Si intende riaffermare, dunque che la capacità intimidatrice del metodo mafioso è momento imprescindibile della figura criminosa oggetto di scrutinio, essa deve essere attuale, effettiva, deve avere necessariamente un riscontro esterno. Non può essere limitata ad una mera potenzialità astratta; deve, piuttosto, trovare conforto in elementi oggettivi che possano consentire all'interprete di affermare che l'azione riferibile ad un determinato gruppo organizzato di persone, strutturato secondo le connotazioni tipiche degli organismi di matrice mafiosa, sia anche effettivamente in grado di permeare - per l'assoggettamento e l'omertà provocate e correlate alle concrete iniziative illecite poste in essere - l'ambiente territoriale economico, sociale, politico di riferimento, deviandone le dinamiche e piegandone ai propri scopi l'ordinario assetto. Deve, quindi, ribadirsi che il c.d. "metodo mafioso" deve necessariamente avere una sua "esteriorizzazione" quale forma di condotta positiva richiesta dalla norma con il termine "avvalersi"; esteriorizzazione che può avere le più diverse manifestazioni purchè si concreti in atti specifici, riferibili ad uno o più soggetti, suscettibili di valutazione, al fine dell'affermazione, anche in unione con altri elementi che li corroborino, dell'esistenza della prova del metodo mafioso.


Se, dunque, la esteriorizzazione della forza di intimidazione ha valenza costitutiva del reato e può manifestarsi anche attraverso la percezione del prestigio criminale del sodalizio, cioè anche dal compimento di atti che, pur di per sè non violenti e non di minaccia, richiamino e, al tempo stesso, siano espressione della capacità attuale del gruppo di intimidire, è ragionevole affermare che i comportamenti diretti a costruire la capacità d'intimidazione al sodalizio, a strutturare il prestigio criminale, a far "intendere e percepire" alla comunità la esistenza della forza intimidatrice, si collochino, conformemente a quanto si afferma anche in dottrina, in una fase antecedente (e, quindi, esterna) rispetto al momento in cui si configura l'associazione criminale mafiosa.


E' possibile che una associazione per delinquere, per acquisire il carattere della mafiosità, ponga in essere atti di violenza e minaccia che servano a strutturare la sua capacità di intimidazione, a formare e far percepire all'esterno la sua fama e potenza criminale; tali atti sono precedenti e strumentali all'assoggettamento omertoso della popolazione, all'affermazione della mafiosità del gruppo e sono esterni, perchè precedenti, alla fattispecie.


Secondo la Corte di Cassazione, in linea di principio, non sarebbe neppure indispensabile la commissione effettiva di condotte di intimidazione per ritenere configurabile un reato associativo siffatto (anche in ambiti geografici diversi da quelli tradizionalmente ricollegabili alle varie tipologie storico-culturali delle organizzazioni criminali italiane), a condizione però che risulti aliunde dimostrata una tale diffusione della consapevolezza della capacità criminale dell'associazione da rendere inutile l'esigenza che di quella capacità si sia data prova conclamata.


La necessità di riscontrare sul piano probatorio la esteriorizzazione del metodo mafioso comporta l'adozione di atti materiali, per quanto non intimidatori, dei quali il tessuto sociale in cui l'organizzazione risulti inserita abbia avuto obiettiva contezza, tanto più significativa e necessaria laddove il tessuto in questione non sia (ancora) aduso a confrontarsi con realtà di tal fatta. Il quantum necessario e sufficiente di percezione da parte della comunità della capacità di intimidazione è inversamente proporzionale alla circostanza che siano già radicate condizioni di assoggettamento e di omertà di cui il sodalizio possa più immediatamente avvalersi senza nuove manifestazioni esteriori (Cass., sez. V, 20 dicembre 2013, n. 14582, D'Onofrio, non massimata).


In questo senso, vanno dunque lette ed apprezzate le statuizioni che reputano sufficiente la mera potenzialità del vincolo associativo, indipendentemente dal suo concreto esteriorizzarsi. D'altro canto, ai fini della sussistenza dei connotati dell'art. 416 bis c.p. non è, pacificamente, necessaria la consumazione dei reati fine che costituiscano l'obiettivo strategico dell'organizzazione, in considerazione dell'indiscussa natura di reato di pericolo dell'associazione per delinquere in questione.


Quello che conta è però la proiezione esterna dell'associazione, ciò perchè, in tema di reato di associazione di tipo mafioso, i poteri di coartazione a livello individuale propri di qualsiasi sodalizio nei confronti dei partecipanti, sono cosa ben diversa dalla "forza d'intimidazione" promanante dal "vincolo associativo" secondo la previsione dell'art. 416-bis c.p. capace di ridurre le persone investitene in "condizione di assoggettamento e di omertà", vale a dire in condizioni di menomata libertà di determinazione così incisive da renderli strumento indiretto o passivo o, quanto meno, testimoni muti dei delitti e degli illeciti commessi dal sodalizio criminale (Cass., sez. VI, 23 giugno 1999, n. 2402, D'Alessandro, Rv. 214923).


Non basta, pertanto, che il sodalizio criminale si fondi su precise regole interne tale da esporre a pericolo chi se ne voglia allontanare ma occorre un quid pluris costituito dal metodo mafioso, seguito dai componenti dell'associazione per la realizzazione del programma associativo: esso non è componente della condotta ma dato di qualificazione del sodalizio e si connota, dal lato attivo, per l'utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, per la situazione di assoggettamento e di omertà che da tale forza intimidatrice si sprigiona verso l'esterno dell'associazione, cioè nei confronti dei soggetti nei riguardi dei quali si dirige l'attività delittuosa (Cass., sez. VI, 11 gennaio 2000, n. 1612, Ferone, Rv. 216633). In sostanza, poichè l'associazione di tipo mafioso si connota rispetto all'associazione per delinquere per la sua tendenza a proiettarsi verso l'esterno, per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande, i caratteri suoi propri, dell'assoggettamento e dell'omertà, devono essere riferiti ai soggetti nei cui confronti si dirige l'azione delittuosa, in quanto essi vengono a trovarsi, per effetto della convinzione di essere esposti al pericolo senza alcuna possibilità di difesa, in stato di soggezione psicologica e di soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione. Pertanto, la diffusività di tale forza intimidatrice non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell'associazione, ma deve essere effettuale e quindi manifestarsi concretamente, con il compimento di atti concreti, sì che è necessario che di essa l'associazione si avvalga in concreto nei confronti della comunità in cui è radicata (Cass., sez. I, 23 aprile 2010, n. 29924, Spartà, Rv. 248010) così da diffondere un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice ed intimidatrice del gruppo (Cass., sez. I, 18 aprile 2012, n. 35627, Rv. 253457).


Si guardi bene che la forza di intimidazione non necessariamente per configurare il reato di cui all'art. 416 bis c.p. deve essere indirizzata a determinare uno stato di soggezione e di omertà nei confronti degli onesti cittadini ma detto "controllo del territorio" ben può esteriorizzarsi anche nel fiaccare intenti criminali di terzi così da evitare ogni forma di "concorrenza delinquenziale" costringendo chi avesse comunque intenti illeciti ad aderire al sodalizio criminale. Del resto il chiaro testo dell'art. 416 bis c.p., comma 3 prevede come elemento integrante del reato anche la mera azione di coloro che "si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti".


Inoltre, non è ragionevolmente revocabile in dubbio che un'organizzazione criminale, pacificamente strutturata secondo standard mafiosi, trovi nella commissione dei reati fine una chiara chiave di lettura del programma delittuoso perseguito e delle modalità operative prescelte, consentendo legittime inferenze probatorie sull'esistenza e natura del vincolo; nondimeno, la mancata esecuzione di reati fine non può risolversi tout court nella negazione della fattispecie associativa, con una semplificazione che neutralizza acquisizioni di sicuro valore dimostrativo anche se di complesso inquadramento interpretativo.


Costituisce pacifica affermazione giurisprudenziale che la prova degli elementi caratterizzanti l'ipotesi criminosa di cui all'art. 416 bis c.p. può essere desunta anche con metodo logico induttivo in base ai rilievi che il clan presenti tutti gli indici rivelatori del fenomeno mafioso: segretezza del vincolo; rapporti di comparaggio o comparatico fra gli adepti; uso di un rituale particolare per l'iniziazione dei nuovi soci o per la promozione di quelli che già ne facciano parte; rispetto assoluto del vincolo gerarchico; uso di un linguaggio criptico (Cass, sez. I, 28 settembre 2007, n. 39495, Rv. 237742), elementi nella specie in concreto ravvisabili sulla scorta degli esiti delle intercettazioni ambientali e delle connesse attività di riscontro della P.g. (v. infra) e reputati penalmente rilevanti alla luce delle modalità organizzative del sodalizio, ben suscettibili di essere apprezzate come espressione di autotutela associativa rispetto all'azione repressiva dello Stato, come dimostrato dalle precauzioni adottate per evitare pedinamenti in occasione delle riunioni di associative, dal linguaggio circospetto, insomma da una costantemente affermata separatezza delle questioni di camorra rispetto alle ordinarie dinamiche relazionali.


Sotto altro aspetto, quanto al tema della individuazione della condotta partecipativa, secondo una prima tesi (cd. del "modello organizzatorio"), ai fini dell'integrazione della condotta di partecipazione all'associazione di tipo mafioso, non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perchè il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all'associazione da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità (con la cd. "messa a disposizione") ad agire quale "uomo d'onore" o come membro effettivo della cosca. Secondo detta tesi quindi la partecipazione organica è indipendente ed autonoma rispetto alla partecipazione a singoli o più delitti-fine programmati ed attuati dall'associazione mafiosa; la suddetta qualità non è significativa di una adesione morale meramente passiva ed improduttiva di effetti al sodalizio mafioso, ma presuppone la permanente ed incondizionata offerta di contributo, anche materiale, in favore di esso, con messa a disposizione di ogni energia e risorsa personale per qualsiasi impiego criminale richiesto. L'obbligo così assunto rafforza il proposito criminoso degli altri associati ed accresce le potenzialità operative e la complessiva capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale del sodalizio (Cass. n. 6992/1992, Rv. 190643; Cass. n. 2046/1996, Rv. 206319; Cass. n. 5343/2000, Rv. 215907; Cass. n. 2350/2005, Rv. 230718; Cass. n. 23687/2012, Rv. 253222; Cass. n. 49793/2013, Rv. 257826; Cass. n. 6882/2016, Rv. 266064; Cass. n. 50864/2016, Rv. 268445 secondo la quale affinchè un soggetto sia ritenuto partecipe di un'associazione mafiosa, è necessario che sia rimasto a disposizione della medesima associazione, assicurando, con una presenza anche solo passiva, l'incremento del numero dei soggetti disposti ad agire per le finalità dell'associazione). L'origine della teoria del modello c.d. organizzatorio va sicuramente individuata nella pronuncia di legittimità che definiva il c.d. primo maxi-processo a Cosa Nostra; difatti stabilendo che ai fini dell'affermazione di responsabilità di taluno in ordine al reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, non occorre la prova che egli abbia personalmente posto in essere attività di tipo mafioso, essendo, al contrario, sufficiente la sola sua aggregazione ad una organizzazione le cui obiettive caratteristiche siano tali da farla rientrare nelle previsioni dell'art. 416 bis c.p. (Cass., sez. I, 30 gennaio 1992, n. 6992, Rv. 190658) si fissavano per la prima volta, ed in materia organica, i principi fondamentali in tema di condotta partecipativa e di relativa prova dell'inserimento nel gruppo criminale. La Corte di legittimità traendo spunto dalla struttura organizzativa di una associazione che prevedeva formule rituali di affiliazione a seguito delle quali lo status di soggetto organico all'associazione (c.d. "uomo d'onore") non poteva più essere perduto, ed era significativo di una condizione di stabile inserimento del tutto indipendente dalla partecipazione a singoli delitti-fine, asseriva che anche la semplice assunzione di detta qualità pur non seguita da condotte di diverso tipo era comunque sufficiente ai fini di ritenere provata la partecipazione all'associazione di cui all'art. 416 bis c.p. E comunque la stessa pronuncia prendeva già in esame anche i casi di soggetti che pur non ritualmente affiliati avessero comunque prestato contributi significativi al gruppo criminale per significativi periodi temporali, affermandone anche per questi la punibilità ex art. 416 bis c.p.; difatti si aggiungeva che è configurabile come partecipazione effettiva, e non meramente ideale, ad una associazione per delinquere (nella specie di tipo mafioso), anche quella di chi, indipendentemente dal ricorso o meno a forme rituali di affiliazioni, si sia limitato a prestare la propria adesione, con impegno di messa a disposizione, per quanto necessario, della propria opera, all'associazione anzidetta, giacchè anche in tal modo il soggetto viene consapevolmente ad accrescere la potenziale capacità operativa e la temibilità dell'organizzazione delinquenziale (Cass., sez. I, 430 gennaio 1992, n. 6992, Rv. 190643). In definitiva, secondo la predetta pronuncia, integravano la condotta partecipativa sia le formali affiliazioni non seguite dalla consumazione di uno o più delitti fine sia le c.d. affiliazioni di fatto e cioè quelle condotte di stabile disponibilità ad interagire con il gruppo criminale attuate con la consapevolezza di agire nell'interesse dello stesso. Il concetto veniva ancora ripreso da una pronuncia successiva di legittimità che chiarisce il rilievo fondamentale dell'affiliazione rituale anche sotto il profilo del contributo causale al rafforzamento dell'ente criminale; si afferma difatti che nell'assunzione della qualifica di "uomo d'onore" va ravvisata non soltanto l'appartenenza - tendenzialmente permanente e difficilmente revocabile - alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo con soggezione alle sue regole e comandi, ma altresì la prova del contributo causale, che è immanente nell'obbligo di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca, accrescendone così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento nel tessuto sociale anche mercè l'aumento numerico dei suoi membri. Ed invero se la condotta di partecipazione ad un'associazione per delinquere, per essere punibile, non può esaurirsi in una manifestazione positiva di volontà del singolo di aderire al sodalizio che si sia già formato, occorrendo invece la prestazione, da parte dello stesso, di un effettivo contributo che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto, purchè destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o al perseguimento degli scopi di essa, nel caso dell'associazione di tipo mafioso - che si differenzia dalla comune associazione per delinquere per la sua peculiare forza di intimidazione, derivante dai metodi usati e dalla capacità di sopraffazione, a sua volta scaturente dal legame che unisce gli associati, ai quali si richiede di prestare, quando necessario, concreta attività diretta a piegare la volontà dei terzi che vengano a trovarsi in contatto con l'associazione e che ad essa eventualmente resistano - il detto contributo può essere costituito anche dalla dichiarata adesione all'associazione da parte del singolo, il quale presti la propria disponibilità ad agire, quale uomo d'onore, ai fini anzidetti (Cass., sez. II, 28 gennaio 2000, n. 5343, Rv. 215907).


Secondo, invece, un diverso indirizzo giurisprudenziale, ai fini dell'integrazione della condotta di partecipazione all'associazione di tipo mafioso, può essere insufficiente la mera indicazione della qualità formale di affiliato, laddove alla stessa non si correli la realizzazione di un qualsivoglia "apporto" alla vita dell'associazione, idoneo a far ritenere che il soggetto si sia inserito nel sodalizio in modo stabile e pienamente consapevole (Cass. n. 39543/2013, Rv. 257447; Cass. n. 46070/2015, Rv. 265536; Cass. n. 55359/2016, Rv. 269040). E' questa la tesi cd. "causale" per la quale, appunto, non è sufficiente il semplice inserimento nell'associazione mafiosa, occorrendo la prova che l'affiliato abbia dato un contributo apprezzabile al rafforzamento del sodalizio. Le origini giurisprudenziali di tale teoria possono individuarsi in quella pronuncia secondo cui ai fini della responsabilità penale per il delitto associativo non rilevano mere situazioni di status, come quella derivante da una pregressa investitura di uomo d'onore, ma la fattiva partecipazione del soggetto a un sodalizio criminale nel periodo temporale individuato dalla imputazione (Cass., sez. VI, 5 ottobre 2010, n. 12537, Rv. 218559); tuttavia, è bene precisare, che tale pronuncia interveniva su un caso particolare trovandosi a delibare in ordine alla posizione di un soggetto che, pur avendo precedentemente assunto la qualità di membro organico del gruppo, ne era stato poi estromesso e proprio in ragione di questa peculiarità pertanto si affermava la necessità dell'individuazione di condotte significative della fattiva, attuale, partecipazione. Deve pertanto precisarsi che le prime asserzioni relative alla necessità del rafforzamento causale dell'ente criminale paiono intervenute o a fronte di imputati che avevano "perso" la qualità di membro del gruppo criminale ovvero di soggetti che pur in assenza della formale affiliazione avevano contribuito ripetutamente alla realizzazione degli scopi dell'ente anche attraverso la consumazione di più delitti fine e che pertanto dovevano ugualmente essere ritenuti partecipi ex art. 416 bis c.p.


Fatte queste premesse, anche questo Tribunale ritiene di dovere aderire al primo orientamento e cioè al modello organizzatorio; il primo comma dell'art. 416 bis c.p., prevede la punibilità per il semplice far parte di un'associazione di tipo mafioso.


Quanto sia estranea - l'interpretazione causale - alla realtà del diritto obbiettivo (e alla realtà tout-court) è dimostrato dalla stessa lettera e dalla ratio della norma in questione, che prevede un reato "associativo" e punisce la proiezione esterna dell'associazione e non del singolo (anche se l'associazione opera, necessariamente, attraverso coloro che ne fanno parte). E' una interpretazione che trascura, peraltro, "l'in sé" del fenomeno associativo, non solo mafioso, costituito dalla collaborazione tra gli associati in funzione della realizzazione del programma comune; collaborazione che ha luogo primariamente all'interno della cosca e si proietta all'esterno solo in momenti particolari, allorché lo richiede il finalismo associativo. Ma nessuno può dubitare che anche la collaborazione "interna" costituisca una modalità di partecipazione, che rimanda al reato associativo.


A livello strutturale, il reato si può classificare come un reato a forma libera e di pura condotta perché si perfeziona con il compimento di una determinata azione, ossia, con l'entrare a far parte di un'associazione.


La semplice affiliazione ad un'associazione criminale, implica, di per sé, "una partecipazione attiva" alla vita associativa e la sua punibilità appare del tutto coerente con i principi costituzionali del nostro ordinamento. L'espressione "partecipazione attiva" è un vero e proprio pL.G.nasmo laddove si consideri che il verbo "partecipare" significa - secondo l'uso corrente prendere parte attiva, con il proprio contributo, ad un'attività svolta da più persone, contributo che, sotto il profilo giuridico, può essere anche di sola adesione morale secondo i consolidati principi di diritto enunciati dalla Corte di legittimità (ex plurimis: Cass. n. 2148/1988, rv. 177662; Cass. n. 12591/1995, rv. 203948; Cass., sez. un., n. 45276/2003, rv. 226101; Cass. n. 7643/2015, rv. 262310). Sotto il diverso profilo della lesione del bene protetto, il reato può qualificarsi di pericolo presunto (ex plurimis, Cass. N. 3027/2016, Ferminio; Cass. n. 34147/2015, rv 264623); è noto, a tale riguardo, che la consorteria deve potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l'associazione in quanto tale, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei singoli associati, a esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione. Essa rappresenta, come s'è accennato, l'elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi propri dell'associazione, con la conseguenza che l'associazione deve aver conseguito in concreto, nell'ambiente circostante nel quale opera, una effettiva capacità di intimidazione e che gli aderenti se ne siano avvantaggiati in modo effettivo, al fine di realizzare il loro programma criminoso. La violenza e la minaccia, dunque, rivestono natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione; costituiscono un accessorio eventuale, o meglio latente, della stessa, ben potendo derivare dalla semplice esistenza o notorietà del vincolo associativo. Esse, quindi, non costituiscono modalità con le quali deve puntualmente manifestarsi all'esterno la condotta degli agenti, dal momento che la condizione di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi, indotti nella popolazione, costituiscono, più che l'effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale della associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici ed indiretti, sia accreditata come temibile, effettivo ed autorevole centro di potere.


Se, dunque, la semplice partecipazione all'associazione, costituisce un reato di pericolo presunto perché mette in pericolo, ex se, l'ordine pubblico, si spiega anche il motivo per cui il legislatore non ha richiesto che la partecipazione abbia una particolare connotazione sotto il profilo causale: infatti, una previsione del genere significherebbe trasformare il reato di partecipazione all'associazione per delinquere di stampo mafioso, da reato di pericolo presunto in un reato di evento con conseguente necessità di provare il nesso causale fra quella condotta (la partecipazione) ed il rafforzamento del sodalizio criminale (l'evento). La tesi causale confonde e sovrappone la condotta di associazione (e, quindi, il disvalore connesso al semplice ruolo - qualsiasi esso sia - che si riveste nell'ambito associativo) con le (eventuali) attività dell'associazione (quindi con la condotta dinamica dell'associazione): infatti, l'assunzione di un ruolo all'interno dell'associazione configura una condotta del tutto distinta dalle attività dirette ad esercitare concretamente tale funzione in vista dei singoli obiettivi di volta in volta programmati, condotta questa che, sotto il profilo fattuale, è dell'associazione e che corrisponde, normalmente, alla commissione dei reati scopo. Anche il semplice inserimento nell'organizzazione di un nuovo soggetto costituisce un rafforzamento dell'associazione secondo intuitive massime d'esperienza fondate sull'id quod plerumque accidit: gli altri soci sanno di potere fare affidamento, nel momento del bisogno, sul nuovo associato; la potenza, l'invasività e la capacità d'intimidazione di un'associazione criminale si fonda infatti anche e soprattutto sul numero degli affiliati. Le Sezioni Unite nella sentenza n. 33748/2005, Mannino hanno osservato: le forme della partecipazione possono essere le più diverse, possono essere non appariscenti e possono assumere connotati coincidenti all'apparenza - con le normali esplicazioni della vita quotidiana e lavorativa (come avviene, per esempio, con l'imprenditore colluso). L'associazione mafiosa è una realtà "dinamica", in continuo movimento, che si adegua continuamente alle modificazioni del corpo sociale e all'evoluzione dei rapporti di forza tra gli aderenti), ciò che rileva è la messa a disposizione - in via tendenzialmente durevole e continua - delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio.


Il fulcro del principio di diritto enunciato dalle SSUU è il concetto di messa a disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi che sottolinea l'importanza e la rilevanza penale della disponibilità alla realizzazione del programma delittuoso dell'associazione: messa a disposizione che non è altro che l'automatico effetto che deriva dall'essere stato ammesso nell'associazione mafiosa.


Da quel momento l'associato è a disposizione del gruppo e non può permettersi di rifiutare, pena pesanti conseguenze che possono arrivare anche alla soppressione fisica, quanto gli viene chiesto nell'interesse dell'associazione. Può pertanto ribadirsi che, per ritenere integrato il reato di partecipazione ad un'associazione ex art. 416 bis c.p., comma 1, non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perchè il reato associativo, secondo la struttura tipica dei reati di pericolo presunto, si consuma con la sola dichiarata adesione all'associazione da parte di un singolo, il quale mettendosi a disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi, accresce, per ciò solo, la potenziale capacità operativa e la temibilità dell'associazione: circostanza, questa che integra la lesione del bene giuridico - ordine pubblico - tutelato dalla norma.


E' evidente, pertanto, la ragione per cui è del tutto irrilevante pretendere di individuare il ruolo di ciascuno ed attendere, per la sua punibilità, il momento in cui diventi operativo, per poi, successivamente, valutare se e in che termini quel comportamento abbia determinato un rafforzamento dell'associazione.


Chi entra in un'associazione mafiosa, non vi entra perchè sa già quale ruolo in essa andrà a ricoprire, ma vi entra perchè ne condivide "i valori" su cui si fonda - ossia: la perpetrazione sistematica di crimini; in questo senso quindi ogni forma di partecipazione sottende l'adesione al programma delinquenziale astratto tipico di ogni associazione a delinquere e che nel caso specifico dell'associazione mafiosa tende a realizzarsi profittando del clima di intimidazione e della diffusa condizione di omertà all'interno del territorio operativo del gruppo.


In ciò sta, quindi, il pericolo per l'ordine pubblico ed è per tale motivo che l'art. 416 bis c.p., comma 1 richiede, per la punibilità, in modo asettico, il semplice far parte di un'associazione di tipo mafioso, proprio perché quella particolare modalità di adesione costituisce un indice univoco della circostanza che il soggetto viene consapevolmente ad accrescere la potenziale capacità operativa e la temibilità del gruppo.


Pertanto, la condotta di partecipazione all'associazione per delinquere di cui all'art. 416 bis c.p., è a forma libera, nel senso che il comportamento del partecipe può realizzarsi in forme e contenuti diversi, purché si traduca in un contributo non marginale ma apprezzabile alla realizzazione degli scopi dell'organismo: in questo modo, infatti, si verifica la lesione degli interessi salvaguardati dalla norma incriminatrice, qualunque sia il ruolo assunto dall'agente nell'ambito dell'associazione; ne consegue che la condotta del partecipe può risultare variegata, differenziata, ovvero assumere connotazioni diverse, indipendenti da un formale atto di inserimento nel sodalizio, sicché egli può anche non avere la conoscenza dei capi o degli altri affiliati essendo sufficiente che, anche in modo non rituale, di fatto si inserisca nel gruppo per realizzarne gli scopi, con la consapevolezza che il risultato viene perseguito con l'utilizzazione di metodi mafiosi. Ed è vero che in tema di associazione di tipo mafioso, la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d'affari ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti, non costituiscono elementi di per sè sintomatici dell'appartenenza all'associazione, ma essi tuttavia possono, essere utilizzati, come riscontri da valutare ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 3, quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante come avvenuto nel caso di specie (Cass., sez. VI, 25 gennaio 2012, n. 9185, Rv. 252281; Cass., sez. VI, 5 maggio 2009, n. 24469, Rv. 244382).


La Corte di Cassazione ha condivisibilmente affermato che in tema di associazione di tipo mafioso, la mera "contiguità compiacente", così come la "vicinanza" o "disponibilità" nei riguardi di singoli esponenti, anche di spicco, del sodalizio, non costituiscono comportamenti sufficienti ad integrare la condotta di partecipazione all'organizzazione, ove non sia dimostrato che l'asserita vicinanza a soggetti mafiosi, si sia tradotta in un vero e proprio contributo, avente effettiva rilevanza causale, ai fini della conservazione o del rafforzamento della consorteria (Cass., sez. I, 8 gennaio 2015, n. 25799, rv. 263953). Si è anche detto che ai fini della integrazione della condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, non è necessario che il membro del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi del programma criminoso, essendo sufficiente che lo stesso assuma o gli venga riconosciuto il ruolo di componente del sodalizio e aderisca consapevolmente al programma criminoso, accrescendo per ciò solo la potenziale capacità operativa e la temibilità dell'associazione (Cass., sez. II, n. 56088/2017, Rv. 271698; Cass., sez. II, n. 23687/2012, Rv. 253222; Cass., sez. I, n. 4937/2012, Rv. 254915).


Certamente, i ruoli e l'importanza che ciascun partecipe ricopre all'interno dell'associazione possono essere differenti ma la partecipazione e la responsabilità sono indipendenti dalla consumazione dei singoli delitti-fine.


Pertanto, la condotta di partecipazione al reato di cui all'articolo 416 bis c.p. è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Deve cioè tenersi conto del contributo del singolo partecipante, il quale non può risolversi in un dato meramente formale, destinato a essere inteso in termini puramente astratti, ma deve essere concretamente calato all'interno del sodalizio esaminato, rilevando a tal fine solo il contributo che incida sull'esistenza e sullo svolgimento dell'attività del sodalizio.


Per tutti questi motivi andare alla ricerca di un "ruolo" stabile e predefinito dell'associato all'interno del sodalizio, quasi si trattasse di definirne il profilo criminale (killer, cassiere, autista, ecc.), comporta uno sforzo (spesso) vano e comunque non necessario per qualificare la posizione del singolo, giacché ciò che rileva, per potersi parlare di "partecipazione" ad un organismo mafioso, è, come ripetutamente affermato in giurisprudenza, la "compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio"; vale a dire, la messa a disposizione - in via tendenzialmente durevole e continua - delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748).


Definizione che comprende, all'evidenza, sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della partecipazione, poiché esprime la necessità che essa sia sorretta da affectio societatis e dalla interazione - causalmente orientata al conseguimento degli scopi sociali - con gli altri associati.


Analogamente, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, l'elemento soggettivo del delitto di associazione di tipo mafioso consiste nel dolo specifico, avente ad oggetto la prestazione di un contributo utile alla vita del sodalizio ed alla realizzazione dei suoi scopi, sia nel caso della partecipazione all'ente associativo che nel caso del cosiddetto "concorso esterno", così accomunando i responsabili nell'intenzione di commettere il "medesimo reato" secondo il postulato dell'art. 110 c.p.: pertanto, il dolo del partecipe si distingue da quello del concorrente sotto il diverso profilo che il primo vuol fornire il descritto contributo dall'interno dell'associazione, mentre il secondo, in corrispondenza del carattere atipico di una condotta rilevante per effetto del citato art. 110, intende prestarlo senza far parte della compagine sociale (Cass., sez. I, 25 novembre 2003, n. 4043, Cito, Rv. 229992).


Si tratta, è bene precisarlo, proprio della conclusione a cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748; Cass., sez. I, 8 gennaio 2015, 25799; Cass., sez. I, 11 dicembre 2007, n. 1470), la quale, dopo aver sottolineato come la locuzione "prender parte" debba intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, ha chiarito, allorché si è spostata sul piano della dimensione probatoria, che rilevano, "tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucL.G. essenziale della condotta partecipativa"; ed è stata ancora più chiara allorché, esemplificando, ha ricondotto tra gli indici della condotta partecipativa i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di "uomo d'onore", la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia; vale a dire, condotte che non identificano alcun "ruolo" specifico del partecipe, ma sono comunque indice di intraneità e di condivisione degli scopi associativi.


Pertanto, la condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi.


La condotta di partecipazione infatti è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica "compenetrazione col il tessuto organizzativo del sodalizio"; vale a dire, la messa a disposizione - in via tendenzialmente durevole e continua - delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio (Cass., sez. I, 17 marzo 2016, n. 35649).


Né, peraltro, è necessario, ai fini dell'integrazione della condotta di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso, che il membro del sodalizio si renda protagonista di specifici reati- fine, perché il contributo del partecipe ben può essere costituito anche dal semplice inserimento all'interno della compagine criminale, secondo modalità tali da poterne desumere la completa "messa a disposizione" dell'organizzazione mafiosa (Cass., sez. V, 5 giugno 2013, n. 49793; Cass., sez. II, 3 maggio 2012, n. 23687).


Il partecipe interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l'attività dell'associazione o a perseguirne i partecipi.


Va dunque sottolineata l'esigenza di individuare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, alla stregua di elementi paradigmatici di riferimento, non tassativamente catalogabili, ma in grado di offrire, al di fuori di qualsiasi "automatismo probatorio", una "sicura dimostrazione" della costante intraneità al sodalizio, con specifico riferimento alla delimitazione temporale del tema d'accusa.


In conclusione, la condotta di partecipazione può estrinsecarsi in singoli atti, qualificanti l'adesione al sodalizio per rilevanza, tempi e funzionalità della condotta, risultando ininfluente la modesta durata cronologica degli apporti, rilevando piuttosto la qualità dell'apporto, il tempo, le circostanze, le modalità e la stessa efficacia della concordata e condivisa attività di partecipazione (Cass., sez. VI, 8 ottobre 2014, n. 53118).


Da tali presupposti devono poi trarsi le necessarie conseguenze in tema di prova; posto infatti che per far parte di un'associazione di tipo mafioso, camorristico o ndranghetistico è sufficiente avere assunto la qualifica di componente di detto gruppo, senza la necessaria partecipazione ad uno o più delitti-fine ovvero il compimento di altre condotte idonee a rafforzare l'operatività del gruppo, si richiede però la prova dell'inserimento nell'associazione e cioè la dimostrazione che il singolo aderente sia stato "assunto" nel gruppo criminale e venga considerato membro o dalla totalità dei componenti o comunque da alcuno degli esponenti di vertice.


La prova principale della partecipazione è quindi legata all'acquisizione della formalità di componente del gruppo indipendentemente dal compimento di atti illeciti o di altri atti idonei a rafforzarne la struttura operativa; ove però tale prova manchi e cioè non sia stata acquisita la dimostrazione dell'inserimento formale, effettivo, del singolo nella cosca mafiosa, camorristica o ndranghetista, per ciò solo non può essere esclusa la prova della partecipazione potendo la stessa aliunde ricavarsi proprio dal compimento di uno o più attività significative nell'interesse dell'associazione mafiosa.


Posto infatti che è membro sia chi sia stato inserito nel gruppo criminale ed aderendovi abbia così rafforzato la struttura criminale operativa del gruppo, sia chi abbia volontariamente e consapevolmente contribuito alla realizzazione degli scopi illeciti dell'ente criminale volendone far parte, non può escludersi che mancando la dimostrazione dell'inserimento formale sia possibile acquisire prova del coinvolgimento attraverso la dimostrata partecipazione a delitti-fine ovvero ad altre attività della cosca che assumano significatività tale da dimostrare proprio lo stabile inserimento nel contesto criminale di quel determinato gruppo mafioso-ndranghetistico.


L'adesione poi diviene significativa della volontaria partecipazione all'ente criminale se ed in quanto manifesti l'adesione al programma delinquenziale dello stesso gruppo criminale; per esservi prova della partecipazione cioè occorre sempre dimostrare che il singolo abbia aderito al gruppo con la precisa consapevolezza del programma criminale in astratto previsto e preordinato.


L'associazione di cui all'art. 416 bis c.p. è e rimane sempre una sub specie dell'associazione a delinquere sicchè è sempre l'esistenza di un progetto delinquenziale astratto ma preordinato a caratterizzarla, che quel determinato gruppo si professa di realizzare attraverso il ricorso al metodo intimidatorio ed al clima di omertà e collusione capace di imporre in un determinato territorio od ambiente operativo.


In assenza invece di dimostrazione dell'inserimento stabile o comunque formale ovvero della partecipazione ad uno o più delitti fine o, comunque, ad attività inequivocabilmente significative per la vita associativa criminale, la prova della partecipazione non potrà dirsi raggiunta.


Sotto altro, ma connesso profilo, deve poi rilevarsi che, ove il ruolo formalmente conferito nella scala gerarchica caratterizzante l'organigramma interno dell'associazione corrisponda ad ambiti di rilievo via via crescente in progressione, il valore indiziario ascrivibile al dato dell'affiliazione è destinato ad assumere un significato maggiormente rilevante sul piano probatorio, laddove alla crescita per gradi corrispondano positive valutazioni "meritocratiche", le quali a loro volta presuppongono, sul piano logico, non la presenza di potenzialità ancora tutte da esprimere, ma meriti già sostanzialmente acquisiti e concretati da pregresse condotte positivamente realizzate nell'interesse della compagine associativa (Cass., sez. VI, 20 maggio 2015, n. 39112).


Analogamente, va ricordato in ogni caso come la giurisprudenza di legittimità riconosca che, in tema di valutazione della prova, un fatto "notorio" quale l'esistenza e il radicamento territoriale di un'associazione mafiosa può essere desunto, ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p., dalle decisioni irrevocabili dell'autorità giudiziaria, a condizione che - come nella fattispecie - il nuovo giudizio verta su fatti avvenuti nelle medesime realtà territoriali, non emerga una variazione delle finalità perseguite dal sodalizio, vi sia una, quanto meno parziale, identità soggettiva tra la formazione storica e la attuale e che il tempo trascorso non sia di entità tale da aver determinato nella memoria dei consociati l'oblio della connotazione mafiosa del gruppo storico (Cass., sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359, P.g. in proc. Pesce e altri, Rv. 269039).


Pertanto, la prova del fatto che un certo soggetto sia partecipe dell'associazione può essere tratta: sia da elementi, che dimostrino direttamente l'avvenuta affiliazione del soggetto alla consorteria mafiosa (si pensi ad esempio ad una chiamata di correo plurima, che indichi un certo soggetto come affiliato), sia da elementi, che dimostrino indirettamente tale intraneità nella consorteria, come ad esempio l'accertata commissione da parte del soggetto di più reati-fine: in tema di associazione a delinquere, nella specie, di stampo mafioso, è consentito al giudice, pur nell'autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell'esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l'operatività dell'associazione medesima (Cass., sez. un., 28 marzo 2001, n. 10, Rv. 218376).


In questa ultima direzione si è ritenuto che l'appartenenza all'organizzazione mafiosa possa essere provata sulla base del costante collegamento e dei continui rapporti del soggetto indagato con alcuni esponenti del sodalizio criminoso, semprechè da tali rapporti possa evincersi la "messa a disposizione" del soggetto nei confronti dell'organizzazione, destinata ed idonea a concretizzarsi in un qualsiasi settore specifico di attività o di interesse dell'organizzazione mafiosa. Questa è l'impostazione accolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., sez. un., 30 ottobre 2002, n. 22327, Rv. 224181) che, nel delineare le differenza fra il reato di partecipazione all'associazione mafiosa e quello di concorso esterno nella stessa, hanno precisato che l'espressione "fa parte" contenuta nella norma incriminatrice comporta che il soggetto si impegni, in qualsiasi modo, trattandosi di un reato a forma libera, a prestare un contributo all'attività dell'organizzazione avvalendosi, o comunque con la consapevolezza di potersi avvalere, della forza intimidatrice del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano, con la precipua finalità di perseguire gli obbiettivi dell'organizzazione stessa. In sostanza non basta, per far parte di un'associazione mafiosa, un atteggiamento psicologico di mera adesione al programma criminoso dell'organizzazione ed alle concrete attività attraverso le quali esso è stato attuato; occorre, invece, come sopra si diceva, l'assunzione di un ruolo materiale all'interno dell'organizzazione con conseguente assunzione di impegni finalizzati al conseguimento degli scopi del sodalizio. Questa interpretazione è stata ribadita anche con maggiore chiarezza in una successiva decisione dove si afferma con esemplare chiarezza: in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato prende parte al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, Rv. 231670). Ed al riguardo le Sezioni Unite hanno aggiunto che la prova della partecipazione potrà essere fornita attraverso elementi definiti come indicatori fattuali, cioè regole di esperienza attinenti al fenomeno mafioso sulla base delle quali possa evincersi la compenetrazione del soggetto nell'organizzazione criminosa, quali ad esempio l'affiliazione rituale, la commissione di delitti-scopo, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia dai quali possa evincersi la costante permanenza del vincolo associativo (Cass., sez. I, 11 dicembre 2007, n. 1470, Rv. 238839).


Ad ogni modo, va considerato comportamento concludente idoneo sul piano logico a costituire indizio di intraneità al sodalizio criminale la presenza e la partecipazione attiva ad una cerimonia di affiliazione, apparendo un controsenso ritenere che il rito di affiliazione o di conferimento di un grado gerarchico all'interno di un'organizzazione mafiosa possa essere officiato da soggetti estranei (Cass., sez. I, 25 settembre 2012, n. 43061).


 

FONTE: Tribunale Bari sez. uff. indagini prel., 22/05/2019, (ud. 22/05/2019, dep. 22/05/2019)

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