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La revoca della misura di prevenzione non osta alla confisca dell'intero patrimonio.

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, non costituisce preclusione processuale ostativa all'applicazione della confisca dell'intero patrimonio di un indiziato di appartenere ad un'associazione di tipo mafioso, il provvedimento definitivo che abbia revocato l'applicazione della misura ablatoria per insussistenza del requisito della sproporzione tra entrate e beni acquistati in un determinato periodo oggetto di accertamento, quando il successivo decreto di confisca si fondi, in ragione di ulteriori elementi di valutazione, su un giudizio di pericolosità qualificata esteso all'intero percorso esistenziale del proposto e sul dimostrato illegittimo accumulo di ricchezza per reimpiego di capitali illeciti.

Cassazione penale sez. II, 02/11/2021, (ud. 02/11/2021, dep. 11/11/2021), n.40778


RITENUTO IN FATTO

1.1 Con decreto in data 16 luglio 2020, la corte di appello di Roma sezione misure di prevenzione, confermava il decreto emesso dal tribunale di Roma datato 10 aprile 2018 che aveva disposto la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nei confronti di F.C. e F.T. nonché la misura patrimoniale della confisca di numerosi beni immobili, quote societarie ed aziende intestati oltre che agli stessi ai terzi interessati B.S.F. (moglie di F.C.), F.S. ed Fa.Az. (figlie di F.C.), F.M.R. (consorte di F.T.), F.A. e F.M. (figli di F.T.). Riteneva la corte di appello essere emersi numerosi elementi per ritenere F.C. e F.T. soggetti pericolosi qualificati" avuto anche riguardo al definitivo accertamento di responsabilità per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p., statuito dalla Corte di cassazione con la pronuncia 10255 del 2020 che aveva stabilito la natura mafiosa del clan F., il ruolo di capo dello stesso gruppo da parte di F.C. e di partecipe del F.T.. Ripercorsi i procedimenti penali che avevano visti coinvolti i due F. nonché altri soggetti ritenuti alleati dei medesimi (gli S.), tutti principalmente operanti nel litorale romano, la corte di appello precisava (pagina 50-51) come F.C. dovesse ritenersi pericoloso qualificato sia in forza della citata sentenza di condanna per il ruolo di capo di organizzazione mafiosa sia perché altresì condannato per il delitto di associazione dedita al narco traffico ed intestazione fittizia di beni; tale giudizio di pericolosità veniva esteso anche agli altri componenti del nucleo familiare di F.C. ritenuti partecipi (pag. 51) delle stesse associazioni mafiosa e finalizzata al traffico di stupefacenti.


In relazione a F.T., il decreto della corte di appello precisava, alle pagine 71 e seguenti, che la pericolosità dello stesso doveva desumersi dal ruolo assunto all'interno della compagine mafiosa accertato definitivamente nonché dalle condanne del medesimo per usura e detenzione di armi da fuoco. Ancora si sottolineava: il coinvolgimento dello stesso in altri procedimenti per usura unitamente al fratello F.C. definiti con sentenza di prescrizione, le dichiarazioni del collaboratore C.S. che aveva ricevuto incarico da F.T. di effettuare danneggiamenti a commercianti in ritardo nel pagamento dei debiti usurari, gli accertamenti contenuti nell'ordinanza cautelare emessa nei riguardi del clan S. che davano atto del mantenimento di un ruolo direttivo delle attività illecite da parte dei F. anche durante la detenzione, un'informativa di reato circa le ripetute violazioni alla misura di prevenzione, il procedimento nel quale anche la madre, F.D., era stata accusata di associazione a delinquere semplice finalizzata all'usura.


1.2 Avverso detto decreto proponevano ricorso per cassazione i proposti ed i terzi interessati deducendo vari motivi, ivi riassunti ex art. 173 disp. att. c.p.p.; gli avv.ti Giraldi e Pomanti per F.C. ed il solo Giraldi per B.S.F. deducevano, con il primo motivo, violazione ed erronea applicazione del D. Lgs. 159 del 2011, artt. 1, 4 e 8, violazione di legge per difetto dei parametri legali imposti per l'applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale; lamentavano in particolare che il provvedimento impugnato difettava in tema di considerazione del requisito dell'attualità della pericolosità sociale che non risultava minimamente affrontata posto che i fatti oggetto di condanna ex art. 416 bis c.p., risalivano a diversi anni addietro. Non si teneva conto dell'epoca dei delitti fine nonché del lungo periodo di detenzione, mentre, il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione, è irrogabile solo in presenza di una pericolosità attuale al momento della sua esecuzione dovendo essere effettuata una valutazione della abituale dedizione a traffici delittuosi. Il requisito dell'attualità non poteva ricavarsi dalla sentenza di condanna poiché la corte di appello non si era soffermata sul momento finale di operatività del sodalizio mafioso; richiamata la pronuncia delle Sezioni Unite in tema di necessaria attualità della pericolosità del proposto anche qualificato mafioso, si lamentava che la Corte non aveva ottemperato a tale obbligo e si chiedeva, quindi, l'annullamento del provvedimento impugnato.


Con il secondo motivo deducevano violazione ed erronea applicazione degli artt. 16 e 24 del codice antimafia, violazione di legge per difetto dei parametri imposti per l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale e violazione ed erronea applicazione dell'art. 649 del c.p.p., e del principio del ne bis in idem della intangibilità del giudicato. Il provvedimento impugnato aveva violato le regole del divieto di secondo giudizio poiché in data 27 Aprile 2004 la corte di appello di Roma, all'esito di altro procedimento, aveva revocato il decreto di confisca di prevenzione emesso nei confronti di F.C. e della moglie B.S.F.; la pronuncia era stata emessa all'esito della nomina di un consulente tecnico d'ufficio che aveva concluso per la compatibilità dei redditi dei coniugi predetti rispetto alle attività di compravendita di beni immobili dagli stessi attuate. Essendo divenuta irrevocabile tale pronuncia le questioni nella stessa prese in considerazione non potevano più essere oggetto di nuova valutazione o essere rimesse in discussione; al proposito si sottolineava il contenuto della verifica peritale compiuta nel procedimento concluso con il decreto del 2004 nel corso della quale era stata verificata la proporzione dei beni immobili e patrimoniali dei coniugi rispetto ai redditi con accertamento del tutto compatibile con quello del c.t.p., di parte. Il provvedimento impugnato aveva avuto ad oggetto i medesimi beni ed i medesimi redditi dei F. oggetto di precedente giudicato non suscettibile di diversa valutazione posto che i periodi storici oggetto di valutazione ed i beni erano i medesimi. Doveva pertanto valere il principio del giudicato in materia penale che la corte di appello aveva violato poiché l'accertamento avrebbe dovuto essere limitato esclusivamente alla porzione di patrimonio che era stata accumulata successivamente alla restituzione dei beni dal precedente decreto. Inoltre, la Corte di appello, aveva accertato un'origine illecita dei beni ed un illegittimo accumulo di ricchezza senza porre a fondamento della decisione alcuna analisi oggettiva contabile ricostruttiva dei beni e dei redditi sovrapponendo il proprio giudizio a quello effettuato nel precedente procedimento. Alcun rilievo potevano avere le dichiarazioni rese da F.C. circa il reddito da pensione con il quale viveva trattandosi di fatti riferiti nell'anno 2012; ancora alcun rilievo poteva avere il delitto in materia di stupefacenti accertato nel 1980 valorizzato in motivazione perché lo stesso era già stato preso in considerazione ed esisteva al momento della emissione della precedente misura poi revocata in sede di appello; forzata doveva ritenersi la retrodatazione dell'inizio della pericolosità rispetto all'anno 1980 e, comunque, tutto tale periodo era già stato preso in considerazione nel precedente giudizio escludendosi qualsiasi illiceità delle accumulazioni patrimoniali. Alla luce dei principi stabiliti in materia di divieto di secondo giudizio doveva escludersi che un punto decisionale possa sempre essere rimesso in discussione in assenza di novità specifiche sotto il profilo storico giuridico e tecnico contabile e ciò avuto riguardo alla circostanza che gli stessi beni erano stati ritenuti compatibili con le capacità reddituali dei proposti. Alcun rilievo avevano i riferimenti alle condanne per i reati associativi che non potevano scalfire il precedente giudicato fondato sugli specifici accertamenti tecnici compiuti sia dal perito che dal consulente di parte; peraltro, la confisca, non poteva avere ad oggetto indiscriminatamente tutti i beni del proposto e dei terzi interessati e tantomeno tale decisione poteva essere emessa in assenza di qualsiasi accertamento peritale pure richiesto in sede di appello tramite l'audizione dei consulenti di parte e del perito nominati nel precedente procedimento di prevenzione ovvero lo svolgimento di nuova perizia.


1.3 F.S., con ricorso del proprio difensore e procuratore avv.to Giannone, lamentava violazione di legge e motivazione meramente apparente del provvedimento impugnato posto che la valutazione di pericolosità estesa anche agli anni precedenti al 1980 di F.C. in relazione alla condanna per il delitto di partecipazione ad associazione dedita al traffico di stupefacenti era basata su un ragionamento viziato. Si lamentava che la corte di appello aveva riportato tratti delle sentenze a carico di F.C. tutte però inerenti fatti o condotte di gran lunga successivi agli acquisti degli immobili colpiti da confisca così che, il materiale già esaminato dalla Corte di appello di Roma nel 2004, non era stato in alcun modo arricchito da nuove emergenze non essendo emersi elementi nuovi tali da imporre la conclusione cui erano pervenuti i giudici di merito. La retrodatazione della pericolosità del F. ad epoca antecedente la condanna per traffico di stupefacenti accertato nel marzo del 1980, avrebbe dovuto essere supportata da elementi di fatto ma tutte le indagini riguardavano episodi commessi ai primi anni 90 ed in epoca successiva e quindi non idonei a sorreggere la valutazione di illecita accumulazione anche nelle date anteriori al 1980; del tutto immotivatamente, poi, era stata affermata l'acquisizione da parte del F. delle attività di panificazione commercio di alimentari attraverso metodi illeciti non essendo stata dimostrazione che già nel 1971 il proposto fosse coinvolto nella consumazione di reati contro il patrimonio tali da determinare illeciti arricchimenti. In maniera illogica la corte di appello aveva invertito l'ordine di accertamento della sussistenza dei presupposti della misura di prevenzione poiché solo a seguito della verifica di pericolosità sociale limitata temporalmente poteva verificarsi la proporzione tra redditi ed incrementi patrimoniali; altresì arbitraria doveva ritenersi la valutazione di contaminazione dei redditi derivanti dall'attività commerciale dall'utilizzo di denari di provenienza illecita e del tutto indimostrata l'asserita illiceità del modesto investimento iniziale contestata dal proposto che aveva diligentemente prodotto le dichiarazioni annuali dei redditi da lavoro conseguiti nel tempo che gli avevano consentito l'edificazione dell'abitazione familiare oggetto della confisca in danno della ricorrente.


1.4 L'avv.to Silvia Astarita, per Fa.Az., lamentava violazione di legge quanto al divieto di secondo giudizio, ai presupposti soggettivi ed oggettivi della confisca di prevenzione ai danni del terzo, alla motivazione meramente apparente del provvedimento impugnato. Quanto al primo motivo deduceva la preclusione processuale determinata dall'esito di precedente procedimento, al quale F.C. e i suoi congiunti erano stati sottoposti concluso nel 2004, con la restituzione di gran parte degli immobili oggetto della odierna confisca; indicati gli immobili restituiti il ricorso sottolineava come il provvedimento della Corte di appello di Roma aveva fatto proprie le conclusioni del perito che aveva concluso nel senso della compatibilità fra il patrimonio immobiliare accumulato dai proposti rispetto ai redditi prodotti dagli stessi; in particolare in quel procedimento era emerso che l'abitazione familiare era stata edificata su un terreno acquistato dalla nonna paterna della ricorrente, F.D., F.C. ne aveva avuto l'immediata disponibilità, i lavori per la realizzazione dell'edificio erano stati eseguiti tra il 1983 ed il 1985 per un costo di circa 218 milioni e successivamente l'immobile ad opera della figlia F.S. era stato sanato. Tali accertamenti determinavano la violazione del divieto di secondo giudizio in riferimento agli immobili elencati, deducibile anche in materia di misure di prevenzione secondo la giurisprudenza richiamata che imponeva un'effettiva novità degli elementi dedotti per escludere che il secondo procedimento potesse risolversi in una inammissibile rilettura o diversa interpretazione di dati pregressi; gli elementi nuovi devono atte