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La revoca della misura di prevenzione non osta alla confisca dell'intero patrimonio.

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, non costituisce preclusione processuale ostativa all'applicazione della confisca dell'intero patrimonio di un indiziato di appartenere ad un'associazione di tipo mafioso, il provvedimento definitivo che abbia revocato l'applicazione della misura ablatoria per insussistenza del requisito della sproporzione tra entrate e beni acquistati in un determinato periodo oggetto di accertamento, quando il successivo decreto di confisca si fondi, in ragione di ulteriori elementi di valutazione, su un giudizio di pericolosità qualificata esteso all'intero percorso esistenziale del proposto e sul dimostrato illegittimo accumulo di ricchezza per reimpiego di capitali illeciti.

Cassazione penale sez. II, 02/11/2021, (ud. 02/11/2021, dep. 11/11/2021), n.40778


RITENUTO IN FATTO

1.1 Con decreto in data 16 luglio 2020, la corte di appello di Roma sezione misure di prevenzione, confermava il decreto emesso dal tribunale di Roma datato 10 aprile 2018 che aveva disposto la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nei confronti di F.C. e F.T. nonché la misura patrimoniale della confisca di numerosi beni immobili, quote societarie ed aziende intestati oltre che agli stessi ai terzi interessati B.S.F. (moglie di F.C.), F.S. ed Fa.Az. (figlie di F.C.), F.M.R. (consorte di F.T.), F.A. e F.M. (figli di F.T.). Riteneva la corte di appello essere emersi numerosi elementi per ritenere F.C. e F.T. soggetti pericolosi qualificati" avuto anche riguardo al definitivo accertamento di responsabilità per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p., statuito dalla Corte di cassazione con la pronuncia 10255 del 2020 che aveva stabilito la natura mafiosa del clan F., il ruolo di capo dello stesso gruppo da parte di F.C. e di partecipe del F.T.. Ripercorsi i procedimenti penali che avevano visti coinvolti i due F. nonché altri soggetti ritenuti alleati dei medesimi (gli S.), tutti principalmente operanti nel litorale romano, la corte di appello precisava (pagina 50-51) come F.C. dovesse ritenersi pericoloso qualificato sia in forza della citata sentenza di condanna per il ruolo di capo di organizzazione mafiosa sia perché altresì condannato per il delitto di associazione dedita al narco traffico ed intestazione fittizia di beni; tale giudizio di pericolosità veniva esteso anche agli altri componenti del nucleo familiare di F.C. ritenuti partecipi (pag. 51) delle stesse associazioni mafiosa e finalizzata al traffico di stupefacenti.


In relazione a F.T., il decreto della corte di appello precisava, alle pagine 71 e seguenti, che la pericolosità dello stesso doveva desumersi dal ruolo assunto all'interno della compagine mafiosa accertato definitivamente nonché dalle condanne del medesimo per usura e detenzione di armi da fuoco. Ancora si sottolineava: il coinvolgimento dello stesso in altri procedimenti per usura unitamente al fratello F.C. definiti con sentenza di prescrizione, le dichiarazioni del collaboratore C.S. che aveva ricevuto incarico da F.T. di effettuare danneggiamenti a commercianti in ritardo nel pagamento dei debiti usurari, gli accertamenti contenuti nell'ordinanza cautelare emessa nei riguardi del clan S. che davano atto del mantenimento di un ruolo direttivo delle attività illecite da parte dei F. anche durante la detenzione, un'informativa di reato circa le ripetute violazioni alla misura di prevenzione, il procedimento nel quale anche la madre, F.D., era stata accusata di associazione a delinquere semplice finalizzata all'usura.


1.2 Avverso detto decreto proponevano ricorso per cassazione i proposti ed i terzi interessati deducendo vari motivi, ivi riassunti ex art. 173 disp. att. c.p.p.; gli avv.ti Giraldi e Pomanti per F.C. ed il solo Giraldi per B.S.F. deducevano, con il primo motivo, violazione ed erronea applicazione del D. Lgs. 159 del 2011, artt. 1, 4 e 8, violazione di legge per difetto dei parametri legali imposti per l'applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale; lamentavano in particolare che il provvedimento impugnato difettava in tema di considerazione del requisito dell'attualità della pericolosità sociale che non risultava minimamente affrontata posto che i fatti oggetto di condanna ex art. 416 bis c.p., risalivano a diversi anni addietro. Non si teneva conto dell'epoca dei delitti fine nonché del lungo periodo di detenzione, mentre, il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione, è irrogabile solo in presenza di una pericolosità attuale al momento della sua esecuzione dovendo essere effettuata una valutazione della abituale dedizione a traffici delittuosi. Il requisito dell'attualità non poteva ricavarsi dalla sentenza di condanna poiché la corte di appello non si era soffermata sul momento finale di operatività del sodalizio mafioso; richiamata la pronuncia delle Sezioni Unite in tema di necessaria attualità della pericolosità del proposto anche qualificato mafioso, si lamentava che la Corte non aveva ottemperato a tale obbligo e si chiedeva, quindi, l'annullamento del provvedimento impugnato.


Con il secondo motivo deducevano violazione ed erronea applicazione degli artt. 16 e 24 del codice antimafia, violazione di legge per difetto dei parametri imposti per l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale e violazione ed erronea applicazione dell'art. 649 del c.p.p., e del principio del ne bis in idem della intangibilità del giudicato. Il provvedimento impugnato aveva violato le regole del divieto di secondo giudizio poiché in data 27 Aprile 2004 la corte di appello di Roma, all'esito di altro procedimento, aveva revocato il decreto di confisca di prevenzione emesso nei confronti di F.C. e della moglie B.S.F.; la pronuncia era stata emessa all'esito della nomina di un consulente tecnico d'ufficio che aveva concluso per la compatibilità dei redditi dei coniugi predetti rispetto alle attività di compravendita di beni immobili dagli stessi attuate. Essendo divenuta irrevocabile tale pronuncia le questioni nella stessa prese in considerazione non potevano più essere oggetto di nuova valutazione o essere rimesse in discussione; al proposito si sottolineava il contenuto della verifica peritale compiuta nel procedimento concluso con il decreto del 2004 nel corso della quale era stata verificata la proporzione dei beni immobili e patrimoniali dei coniugi rispetto ai redditi con accertamento del tutto compatibile con quello del c.t.p., di parte. Il provvedimento impugnato aveva avuto ad oggetto i medesimi beni ed i medesimi redditi dei F. oggetto di precedente giudicato non suscettibile di diversa valutazione posto che i periodi storici oggetto di valutazione ed i beni erano i medesimi. Doveva pertanto valere il principio del giudicato in materia penale che la corte di appello aveva violato poiché l'accertamento avrebbe dovuto essere limitato esclusivamente alla porzione di patrimonio che era stata accumulata successivamente alla restituzione dei beni dal precedente decreto. Inoltre, la Corte di appello, aveva accertato un'origine illecita dei beni ed un illegittimo accumulo di ricchezza senza porre a fondamento della decisione alcuna analisi oggettiva contabile ricostruttiva dei beni e dei redditi sovrapponendo il proprio giudizio a quello effettuato nel precedente procedimento. Alcun rilievo potevano avere le dichiarazioni rese da F.C. circa il reddito da pensione con il quale viveva trattandosi di fatti riferiti nell'anno 2012; ancora alcun rilievo poteva avere il delitto in materia di stupefacenti accertato nel 1980 valorizzato in motivazione perché lo stesso era già stato preso in considerazione ed esisteva al momento della emissione della precedente misura poi revocata in sede di appello; forzata doveva ritenersi la retrodatazione dell'inizio della pericolosità rispetto all'anno 1980 e, comunque, tutto tale periodo era già stato preso in considerazione nel precedente giudizio escludendosi qualsiasi illiceità delle accumulazioni patrimoniali. Alla luce dei principi stabiliti in materia di divieto di secondo giudizio doveva escludersi che un punto decisionale possa sempre essere rimesso in discussione in assenza di novità specifiche sotto il profilo storico giuridico e tecnico contabile e ciò avuto riguardo alla circostanza che gli stessi beni erano stati ritenuti compatibili con le capacità reddituali dei proposti. Alcun rilievo avevano i riferimenti alle condanne per i reati associativi che non potevano scalfire il precedente giudicato fondato sugli specifici accertamenti tecnici compiuti sia dal perito che dal consulente di parte; peraltro, la confisca, non poteva avere ad oggetto indiscriminatamente tutti i beni del proposto e dei terzi interessati e tantomeno tale decisione poteva essere emessa in assenza di qualsiasi accertamento peritale pure richiesto in sede di appello tramite l'audizione dei consulenti di parte e del perito nominati nel precedente procedimento di prevenzione ovvero lo svolgimento di nuova perizia.


1.3 F.S., con ricorso del proprio difensore e procuratore avv.to Giannone, lamentava violazione di legge e motivazione meramente apparente del provvedimento impugnato posto che la valutazione di pericolosità estesa anche agli anni precedenti al 1980 di F.C. in relazione alla condanna per il delitto di partecipazione ad associazione dedita al traffico di stupefacenti era basata su un ragionamento viziato. Si lamentava che la corte di appello aveva riportato tratti delle sentenze a carico di F.C. tutte però inerenti fatti o condotte di gran lunga successivi agli acquisti degli immobili colpiti da confisca così che, il materiale già esaminato dalla Corte di appello di Roma nel 2004, non era stato in alcun modo arricchito da nuove emergenze non essendo emersi elementi nuovi tali da imporre la conclusione cui erano pervenuti i giudici di merito. La retrodatazione della pericolosità del F. ad epoca antecedente la condanna per traffico di stupefacenti accertato nel marzo del 1980, avrebbe dovuto essere supportata da elementi di fatto ma tutte le indagini riguardavano episodi commessi ai primi anni 90 ed in epoca successiva e quindi non idonei a sorreggere la valutazione di illecita accumulazione anche nelle date anteriori al 1980; del tutto immotivatamente, poi, era stata affermata l'acquisizione da parte del F. delle attività di panificazione commercio di alimentari attraverso metodi illeciti non essendo stata dimostrazione che già nel 1971 il proposto fosse coinvolto nella consumazione di reati contro il patrimonio tali da determinare illeciti arricchimenti. In maniera illogica la corte di appello aveva invertito l'ordine di accertamento della sussistenza dei presupposti della misura di prevenzione poiché solo a seguito della verifica di pericolosità sociale limitata temporalmente poteva verificarsi la proporzione tra redditi ed incrementi patrimoniali; altresì arbitraria doveva ritenersi la valutazione di contaminazione dei redditi derivanti dall'attività commerciale dall'utilizzo di denari di provenienza illecita e del tutto indimostrata l'asserita illiceità del modesto investimento iniziale contestata dal proposto che aveva diligentemente prodotto le dichiarazioni annuali dei redditi da lavoro conseguiti nel tempo che gli avevano consentito l'edificazione dell'abitazione familiare oggetto della confisca in danno della ricorrente.


1.4 L'avv.to Silvia Astarita, per Fa.Az., lamentava violazione di legge quanto al divieto di secondo giudizio, ai presupposti soggettivi ed oggettivi della confisca di prevenzione ai danni del terzo, alla motivazione meramente apparente del provvedimento impugnato. Quanto al primo motivo deduceva la preclusione processuale determinata dall'esito di precedente procedimento, al quale F.C. e i suoi congiunti erano stati sottoposti concluso nel 2004, con la restituzione di gran parte degli immobili oggetto della odierna confisca; indicati gli immobili restituiti il ricorso sottolineava come il provvedimento della Corte di appello di Roma aveva fatto proprie le conclusioni del perito che aveva concluso nel senso della compatibilità fra il patrimonio immobiliare accumulato dai proposti rispetto ai redditi prodotti dagli stessi; in particolare in quel procedimento era emerso che l'abitazione familiare era stata edificata su un terreno acquistato dalla nonna paterna della ricorrente, F.D., F.C. ne aveva avuto l'immediata disponibilità, i lavori per la realizzazione dell'edificio erano stati eseguiti tra il 1983 ed il 1985 per un costo di circa 218 milioni e successivamente l'immobile ad opera della figlia F.S. era stato sanato. Tali accertamenti determinavano la violazione del divieto di secondo giudizio in riferimento agli immobili elencati, deducibile anche in materia di misure di prevenzione secondo la giurisprudenza richiamata che imponeva un'effettiva novità degli elementi dedotti per escludere che il secondo procedimento potesse risolversi in una inammissibile rilettura o diversa interpretazione di dati pregressi; gli elementi nuovi devono attenere al presupposto soggettivo, vale a dire alla pericolosità sociale del proposto ovvero agli altri presupposti, ma la sproporzione precedentemente esclusa non può essere oggetto di rivalutazione e doveva escludersi che costituisca prova nuova una diversa valutazione tecnico scientifica di dati già valutati come invece operato dalla corte di appello nell'impugnato provvedimento. Il contenuto della sentenza di condanna del 2020 per associazione mafiosa non poteva rilevare poiché il capo di imputazione individuava quale periodo iniziale di attività del clan quello successivo al 1990; analogamente doveva ritenersi per gli altri procedimenti riguardanti i fatti di usura e bancarotta, definiti con sentenza di prescrizione poiché si trattava sempre di episodi successivi che non assumevano rilevanza rispetto al precedente giudicato così come alcun rilievo avevano le dichiarazioni di F.C. circa il redditi percepiti nel 2013. I fatti nuovi non potevano essere rappresentati da profili di censura non dedotti nel precedente giudizio e la corte di appello era pervenuta, sulla base del medesimo materiale, a conclusioni diverse in forza di mere opinioni rigettando le istanze difensive di svolgimento di nuova perizia. Proprio in relazione al rigetto della richiesta di approfondimento peritale che avesse ad oggetto il requisito della proporzione, si lamentava che il decreto aveva retrodatato la pericolosità qualificata di F.C. ad epoca anteriore al 1980, data della prima sentenza di condanna per fatti di droga, così applicando all'inverso il principio della perimetrazione temporale dell'illecito arricchimento ed integrando un'ulteriore violazione di legge; tale operatività all'inverso non ha alcun fondamento normativo o giurisprudenziale e serviva così a vanificare il principio di riferimento; peraltro, la presunzione di pericolosità sociale del F., involgendo l'intero suo patrimonio pregresso e futuro al rispetto alla data del 1980, doveva ritenersi una scorciatoia probatoria funzionale ad eludere il giudicato. Non era stata neanche data dimostrazione che il proposto anteriormente al 1980 ed addirittura nel 1971 fosse coinvolto in attività criminali produttive di illeciti profitti; non poteva escludersi a fronte dell'attività lavorativa svolta dal Fasc:iani in quegli anni la produzione di redditi leciti e quindi la congruità degli acquisti.


Con particolare riferimento ai singoli beni si deduceva poi, quanto all'immobile sito in (OMISSIS) di C. ed al villino, che lo stesso era stato restituito ai F. dalla corte di appello di Roma col decreto del 27 Aprile 2004 e la decisione impugnata rimetteva in discussione pertanto l'originario acquisto risalente al 1984 ad opera della nonna paterna della ricorrente. Quanto agli immobili di (OMISSIS) e di (OMISSIS), intestati alla ricorrente, uno era stato restituito già con il provvedimento del tribunale di Roma del 14 gennaio 2000, trattandosi di donazione, e gli altri erano stati oggetto di oblazione in forza della illegittima retrodatazione della pericolosità. Il decreto impugnato aveva anche confermato la confisca dell'immobile sito nel Comune di (OMISSIS), in relazione al quale sussisteva la violazione del divieto di secondo giudizio trattandosi di bene donato e già restituito senza che fossero sopravvenuti nuovi elementi istruttori idonei a mutare la precedente decisione.


1.5 F.T. nella qualità di proposto, F.A., F.M., F.M.R. nella qualità di terzi interessati, proponevano ricorso per cassazione con atto del proprio difensore avvocato Massimo Mercurelli lamentando, con il primo motivo, nullità del decreto per violazione di legge ex art. 606 lettera c) c.p.p., in relazione alla inutilizzabilità della informativa del G.I.C.O. della Guardia di finanza del 14 Marzo 2018; al proposito deducevano che il deposito della predetta informativa era stato effettuato fuori udienza nella cancelleria del tribunale e non era mai stato comunicato ai difensori. Pertanto, era avvenuta la utilizzazione di prove acquisite senza il rispetto del contraddittorio con la conseguente nullità generale assoluta; né tale informativa poteva assimilarsi ad una memoria del PM posto che il pubblico ministero non aveva sottoscritto l'atto e non lo aveva pertanto trasformato in un documento proprio. La produzione di documenti o le richieste di integrazione probatoria pur essendo ammesse senza limiti temporali devono essere effettuate nel rispetto del principio del contraddittorio e si sarebbe dovuta assicurare la conoscibilità da parte della difesa dei nuovi fatti portati alla valutazione del tribunale. La difesa ancora il giorno dell'udienza era rimasta ignara della esistenza della informativa e per tale ragione non ne aveva dedotto la non utilizzabilità. Con il secondo motivo lamentavano nullità del decreto ex art. 606 lett. c) c.p.p., violazione di legge per totale assenza di motivazione in ordine alla pericolosità sociale qualificata del proposto al momento dell'acquisto dei singoli beni sottoposti a misura ablatoria.


Al proposito si deduceva che la sola individuazione di appartenenza all'associazione mafiosa non poteva fondare automaticamente il giudizio di attualità della pericolosità, avuto riguardo alla funzione preventiva della misura proposta, senza che possano valere mere presunzioni; ribadita la necessita della attualità della pericolosità, si precisava come le misure di prevenzione fossero prive di una caratteristica sanzionatoria e non potessero essere intese come conseguenze automatiche della condanna per uno dei reati tipizzati, circostanza questa che valeva anche in particolare per la confisca. Sequestro e confisca non hanno quindi lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta ma quello di far venire meno il rapporto tra soggetto e bene perché costituito in maniera non conforme all'ordinamento giuridico neutralizzando l'arricchimento illecito; sulla base di tali valutazioni della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, valide anche per le misure di prevenzione personali, doveva ritenersi che il provvedimento impositivo, nel caso in cui sia correlato alla partecipazione al sodalizio mafioso, deve verificare i fatti riguardanti l'apporto fornito dal singolo al gruppo nonché la loro significatività in chiave di attualità. Ora, quanto alle valutazioni compiute dalla corte d'appello in ordine alla specifica posizione di F.T., doveva sottolinearsi come nessuna misura di prevenzione poteva applicarsi allo stesso, mancando una congrua ricostruzione di fatti idonei a determinare l'inquadramento del soggetto proposto in una delle categorie di pericolosità specifica; difatti, secondo l'orientamento della Cassazione Sezioni Unite Righi, dovevano essere presi in considerazione soltanto i fatti omogenei a tale elenco tassativo di delitti contenuto alla lettera b) dell'art. 4 del codice antimafia. Sotto questo profilo, pertanto, la corte di appello aveva errato assegnando rilevanza ad altre vicende processuali come quella definita con la sentenza del Pretore di Roma del 16 maggio 2000 perché i reati di usura non aggravati dalla modalità del metodo mafioso, per la loro qualità ontologica, non avrebbero potuto essere presi in considerazione nell'ambito dell'accertamento di pericolosità qualificata del proposto ed i restanti fatti oggetto di una sentenza di estinzione dei reati per prescrizione avrebbero dovuto essere verificati dal giudice della misura di prevenzione mentre nel caso di specie mancava qualsiasi accertamento specifico da parte della pronuncia di non doversi procedere. Ancora, aveva errato la corte di appello nel ritenere F.T. imputato dei 27 episodi di usura in concorso con il fratello F.C. posto che egli doveva rispondere di fatti autonomi e non era altresì imputato nel procedimento definito dal tribunale di Roma con la sentenza del 21 Aprile 2018. F.T. aveva invece riportato condanna per reati di usura commessi tra aprile e luglio del 98 in danno di due distinte vittime, episodi del tutto autonomi tra loro e che non potevano essere posti a fondamento dell'accertamento di pericolosità qualificata tanto meno retroagendo la verifica di pericolosità a date antecedenti la consumazione dei reati. Nei confronti del proposto residuavano soltanto una condanna per il delitto di 416 bis e per un episodio di detenzione di armi aggravato dall'agevolazione mafiosa tali fatti avrebbero dovuto essere scandagliati per verificare una pericolosità qualificata effettiva ed attuale del proposto; in relazione alla condanna per il delitto di cui all'art. 416 bis sebbene fosse stata riconosciuta l'appartenenza di F.T. al clan doveva tenersi conto delle assoluzioni da altri reati fine; inoltre la sua responsabilità per il delitto di detenzione di armi era stata affermata soltanto sotto il profilo del concorso morale; si segnalava altresì che nella sentenza di condanna era stata attribuita al F.T. una condotta isolata ed unica non essendo non essendo stato individuato nessun altro suo contributo alle attività del sodalizio così che la condanna si era fondata esclusivamente su un episodio concernente il recupero di alcune armi del sodalizio detenute da altri componenti. Stante pertanto la natura isolata e singola della condotta ricostruita, doveva ritenersi che F.T. aveva fornito un limitatissimo apporto al gruppo così da escludere la possibilità di qualificare la pericolosità dello stesso anche in termini di attualità.


Con il terzo motivo si deduceva nullità del decreto ex art. 606 lettera c) c.p.p., violazione di legge per totale assenza di motivazione in ordine alla perimetrazione temporale della pericolosità del proposto; al proposito si lamentava l'assenza di motivazione sulla dimensione temporale della pericolosità assumendo rilievo l'arco temporale della partecipazione all'associazione e potendo essere confiscati unicamente i beni acquisiti in costanza di pericolosità sociale; si sottolineava come secondo l'ipotesi accusatoria validata dalla sentenza di condanna, il sodalizio mafioso denominato clan F. fosse stato costituito nei primi anni 90 pur acquisendo i caratteri propri dell'associazione di stampo mafioso in un tempo successivo; inoltre il tempo dell'adesione di F.T. non era mai stato definito e risultava pure riconosciuto che egli non era tra coloro che avevano costituito il nucleo originario del gruppo; posto, quindi, che l'unico episodio concreto si era verificato nell'aprile 2013, l'accertamento fattuale della pericolosità avrebbe dovuto tenere conto di tale circostanza senza che poteva tenersi conto di ulteriori spazi temporali relativi alla trasformazione dell'associazione da semplice a mafiosa individuati in un arco compreso tra il 2000 ed il 2007. Nel 1999 l'associazione non era quindi riconducibile all'ipotesi mafiosa e alcun fatto oggettivo a carico dei F. era stato individuato in tale periodo temporale; ribadito che era stato accertato come l'adesione di F.T. fosse avvenuta in un tempo ancora successivo al consolidamento mafioso del clan, il decreto impugnato difettava di motivazione e violava le disposizioni di legge in ordine alla definizione del tempo in cui il predetto proposto avrebbe aderito all'associazione e conseguentemente avrebbe cominciato a manifestare la pericolosità qualificata.


Con il quarto motivo si deduceva nullità del decreto ex art. 606 lettera c) codice procedura penale, violazione di legge per totale assenza di motivazione in ordine alla sperequazione tra le capacità reddituali e patrimoniali del proposto ed il valore dei beni a lui riferibili. Al proposito si deduceva innanzitutto che la corte di appello aveva trascurato interamente le doglianze difensive; in ogni caso era mancata qualsiasi verifica relativa all'ammontare globale della supposta sperequazione che la polizia giudiziaria aveva determinato in Euro 297.000 circa, valore posto a base del decreto di sequestro; a fronte di tale accertamento la difesa aveva proceduto ad un nuovo calcolo correggendo gli errori di fatto relativi alla vendita di un appartamento in Ostia, all'importo riscosso e ad altro immobile nella cui vendita era stato coinvolto F.A.. Ancora errata doveva ritenersi la valutazione della caparra versata per l'appartamento di (OMISSIS) e tutte tali circostanze determinavano il dissolvimento della supposta sperequazione come era stata calcolata dalla Guardia di Finanza. Ancora, riportati dettagliatamente tutti i calcoli operati dalla difesa e relativi alle operazioni immobiliari in oggetto, che la corte di appello aveva ignorato, si sottolineava come fosse stata esclusa la rilevanza delle allegazioni difensive.


In ogni caso, prima e dopo il manifestarsi della pericolosità, l'eventuale sproporzione tra capacità reddituali e patrimoniali del proposto ed il valore dei beni a lui riferibili doveva ritenersi irrilevante ai fini della applicazione della confisca; fuori dal periodo di pericolosità è esclusa qualsiasi valutazione di sproporzione rilevante e in ciò era consistita la grossolana violazione di legge della corte di appello che avrebbe dovuto comunque collocare l'avvio della pericolosità di F. non prima dell'anno 2000 così che tutti i beni acquisiti e resi disponibili in precedenza avrebbero dovuto essere ritenuti di provenienza legittima. Doveva sottolinearsi come gli altri delitti produttivi di profitti illeciti relativi a periodi temporali precedenti il 2000 non erano stati contestati a F.T. il quale era stato ritenuto responsabile esclusivamente di due episodi di usura per prestiti di importi assai ridotti così che tali profitti non avrebbero potuto essere presi in considerazione. Il giudice della prevenzione non aveva individuato i fatti in base ai quali desumere la provenienza diretta o mediata delle risorse impiegate per l'acquisto dei beni riferibili al proposto da attività correlate alla partecipazione all'associazione criminale; non si era tenuto conto che F.T. era rimasto estraneo a tutti i reati fine attuativi del programma dell'associazione, tranne che per un solo episodio, e non aveva in alcun modo beneficiato della redistribuzione dei proventi non avendo così conseguito alcun profitto diretto dalla sua partecipazione all'associazione mafiosa né era stata ipotizzato il concorso dello stesso nei fatti attinenti l'acquisto e la gestione di alcune strutture ricettive, essendo stato assolto perché il fatto non sussiste dalle contestazioni di fittizia intestazione. Si sottolineava come la responsabilità per il reato di detenzione di armi derivava da un'ipotesi di concorso morale e si deduceva la totale carenza di motivazione del decreto sul punto oltre che la presenza di gravi errori concettuali e di calcolo commessi dalla Guardia di Finanza e recepiti dal giudice di primo grado il quale non aveva valutato le doglianze difensive e ciò anche con riguardo al numero dei componenti la famiglia ed al calcolo secondo le tabelle Istat sui consumi familiari annui. Al proposito si lamentava che il calcolo dei redditi e delle spese era stato effettuato per il lungo ed anche remoto periodo compreso dal 1986 al 2013, impedendo di fatto alla difesa di dare dimostrazione degli acquisti e dei consumi effettuati.


Con il quinto motivo si deduceva ancora violazione di legge per omessa motivazione in ordine alla ritenuta attualità della pericolosità del proposto posto che nei suoi confronti non potevano valere le osservazioni ricavate dall'ordinanza di custodia cautelare nei confronti del clan S. in quanto F.T. non era mai stato indagato in quel procedimento né coinvolto nello stesso.


1.6 Con parere ritualmente depositato in cancelleria il procuratore generale presso questa corte chiedeva innanzi tutto rigettarsi il motivo con il quale si contestava l'attualità della pericolosità di F.C. in ragione della acclarata responsabilità dello stesso ex art. 416 bis c.p.. Quanto all'eccezione di giudicato il P.G. ne chiedeva il rigetto rappresentando che:" La Corte di appello, però, con l'impugnato decreto, non ha soltanto operato una revisione critica della perizia a suo tempo redatta circa la proporzionalità reddituale dei predetti coniugi, ma ha riformulato il giudizio di proporzione sia facendo riferimento ad un arco temporale di pericolosità sociale diverso e più ampio.... la retrodatazione ad epoca anteriore al 6 marzo 1980, data di accertamento del delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, riguarda un reato che fonda un giudizio di pericolosità qualificata, al pari di quello di cui all'art. 416 bis c.p., ritenuto da questa Corte con la sentenza definitiva n. 10255/2020, condotte congiuntamente esaminate per giustificare una valutazione di pericolosità relativa all'intero percorso esistenziale del proposto. La riperimetrazione cronologica della pericolosità e la diversa ricostruzione, al suo interno, dell'iter criminale del proposto, sulla base di evidenze processuali sopravvenuto, costituiscono un presupposto legittimante la rivalutazione della capacità reddituale e la riformulazione del giudizio di proporzionalità sulla base dei nuovi dati storici di riferimento".


In relazione ai ricorsi di F.T. e dei suoi congiunti il P.G. esponeva come: "Il secondo, terzo e quinto motivo, con cui si censura la ritenuta pericolosità sociale, la sua attualità e perimetrazione cronologica, sono inammissibili per difetto di specificità, in quanto non si confrontano con l'accurata ricostruzione (che sarebbe un fuor d'opera riprodurre) svolta dal giudice "a quo" circa la storia criminale del proposto e le plurime condotte costituenti reato poste alla base del giudizio di pericolosità. Il quarto motivo, con cui censura il giudizio di sproporzione patrimoniale all'epoca dell'acquisto dei beni confiscati, è inammissibile, in quanto illustra diffusamente conteggi e criteri di calcolo alternativi, senza specificare la violazione di legge posta in essere dal giudice di merito...".


Chiedeva pertanto dichiararsi inammissibili i ricorsi.


1.7 A tale parere replicavano le difese; l'avv.to Giannone per F.S. deduceva che: il novum idoneo a ribaltare il giudicato non poteva desumersi da una dichiarazione dell'imputato sui redditi percepiti nel 2013, illegittima era la retrodatazione delle pericolosità ad anni precedenti il 1980, era stata provata la percezione da parte dei F. di redditi leciti derivanti dall'attività commerciale che giustificavano gli acquisti immobiliari, l'edificazione dell'abitazione di (OMISSIS) di C. conclusa nel 1985 con un esborso di circa 220 milioni di lire era perfettamente coerente con le entrate delle attività commerciali di F.C. come accertato dalla perizia D.G., ribaltata in appello senza alcuna adeguata esplicazione degli elementi di fatto posti a fondamento del nuovo giudizio.


L'avv.to Astarita per Fa.Az. deduceva come la pericolosità sociale ricollegabile alla condanna per 416 bis c.p. non mutava le valutazioni espresse nel precedente giudizio in cui si era tenuto conto della condanna in tema di stupefacenti trattandosi di pericolosità qualificata in entrambi i casi; le evidenze processuali successive non potevano fare mutare il giudizio sulla proporzione tra redditi ed acquisti con cui si era concluso il precedente giudizio di prevenzione nel 2004, i precedenti giurisprudenziali richiamati escludevano la rivalutazione in termini diversi del giudizio di sproporzione in assenza di elementi fattuali, illegittima appariva altresì la retrodatazione del dies a quo della pericolosità, non erano stati esplicitati gli elementi sulla base dei quali ritenere che F.C. avesse iniziato le attività commerciali investendo capitali illeciti, non poteva escludersi la percezione anche di redditi leciti da parte del predetto; in conclusione: la "pericolosità sociale" di F.C., nel 2001, quando parte dei beni in sequestro furono restituiti dal Tribunale e nel 2004, quando fu disposta la revoca della confisca, fra gli altri, dell'immobile destinato ad abitazione familiare dalla Corte d'appello, era stata oggetto di approfondita indagine da parte del Giudice della prevenzione che non ritenne, all'evidenza, vi fossero elementi probatori per affermare che i beni risultassero essere frutto di attività illecite o ne costituissero il reimpiego... Tali soluzioni paiono intangibili, data l'assenza di elementi fattuali nuovi e sopravvenuti".


L'avv.to Mercurelli con ulteriori repliche per F.T. ribadiva la fondatezza dei motivi proposti; esponeva come l'informativa della G.d.F. del 14 marzo 2018 aveva confutato le prospettazioni di una precedente memoria difensiva e sulla stessa era mancato qualunque contraddittorio; sottolineava il difetto assoluto di motivazione in relazione alla affermazione della sussistenza della pericolosità qualificata con riferimento al momento di acquisizione dei beni oggetto di confisca, la mancanza del giudizio di attualità della pericolosità, l'erronea attribuzione dei fatti di usura commessi dal fratello; aggiungeva esservi difetto assoluto di motivazione e violazione di legge per motivazione apparente in ordine alla perimetrazione della pericolosità sociale così come con riferimento alla sperequazione contestando sia il primo che il secondo calcolo della G.d.F..


Con istanza pervenuta in cancelleria la difesa di F.T. eccepiva il difetto di notifica dell'avviso di fissazione udienza quale difensore di fiducia del predetto in forza di nomina effettuata dallo stesso F.T. alla casa circondariale 11 febbraio del 2021; la corte preso atto rinviava il procedimento all'udienza del 2 novembre 2021.


CONSIDERATO IN DIRITTO

2.1 Preliminarmente deve essere respinta l'istanza di trattazione orale del procedimento fissato per l'udienza del 21 settembre 2021 dinanzi questa Corte di cassazione, avanzata dal difensore del proposto F.T. e di F.A., avv.to Mercurelli. Invero, secondo l'orientamento di questa Corte di cassazione il procedimento per la trattazione in sede di legittimità dei ricorsi in materia di misure di prevenzione deve svolgersi nella forma ordinaria dell'udienza camerale non partecipata, prevista dall'art. 611 c.p.p., anche in caso di istanza di procedere nelle forme dell'udienza pubblica o del rito camerale partecipato, in quanto il principio di pubblicità dell'udienza, qualora l'interessato ne abbia fatto richiesta, affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 93 del 2010 e dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo con la sentenza del 13 novembre 2007, nella causa (OMISSIS), si riferisce esclusivamente alla fase di merito (Sez. 6, n. 50437 del 28/09/2017, Rv. 271500); ed al proposito si è anche successivamente aggiunto che il procedimento per la trattazione in sede di legittimità dei ricorsi in materia di misure di prevenzione, nel prevedere la celebrazione dell'udienza in camera di consiglio non partecipata, è pienamente compatibile con gli artt. 24 e 76 Cost., perché garantisce il contraddittorio nel rispetto della parità delle parti (Sez. 5, Sentenza n. 20489 del 22/01/2018 Cc. (dep. 09/05/2018) Rv. 273034).


Ne' può ritenersi che la previsione contenuta nell'art. 23 DL 137 del 2020 abbia mutato le forme di trattazione dei procedimenti in camera di consiglio non partecipati introducendo una generalizzata possibilità di chiedere ed ottenere la trattazione orale; difatti la suddetta norma ha previsto la possibilità di richiesta di discussione orale solo per i procedimenti destinati ad essere trattati con le forme degli artt. 127 e 614 c.p.p., e cioè in forma partecipata, senza nulla prevedere per le camere di consiglio non partecipate disciplinate dall'art. 611 c.p.p., che continuano ad osservare le norme previgenti, con previsione valida anche per i procedimenti di applicazione di misure di prevenzione personale e patrimoniale.


2.2 Infondati sono i motivi con i quali i difensori dei proposti hanno lamentato violazione di legge sotto il profilo del mancato accertamento dell'attualità della pericolosità sociale di F.C. e F.T.; premesso che alcun interesse rispetto alla misura personale appare avere la ricorrente B., al proposito deve essere ricordato come il requisito dell'attualità della pericolosità sociale costituisca parametro applicativo delle sole misure personali come risulta dall'inequivocabile testo dell'art. 18 DL 159 del 2011 secondo cui "Le misure di prevenzione patrimoniali possono essere applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura". Limitata l'analisi dell'attualità alle misure personali disposte nei confronti dei F. va ricordato che secondo l'orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte di cassazione ai fini dell'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della "attualità" della pericolosità del proposto; (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, Rv. 271511). Detto principio risulta ribadito anche dalle sezioni semplici che hanno recentemente affermato come ai fini dell'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della "attualità" della pericolosità e, laddove sussistano elementi sintomatici di una "partecipazione" del proposto al sodalizio mafioso, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell'accertamento di attualità della pericolosità. (Sez. 6, n. 20577 del 07/07/2020, Rv. 279306).


Orbene, nel caso in esame, la corte di appello di Roma appare avere rispettato detti principi posto che con le osservazioni contenute nella lunga ed articolata motivazione si è dato atto del ruolo di organizzatore e capo ricoperto da F.C. all'interno del clan, del ruolo di partecipe qualificato di F.T. (fatti questi accertati dalla sentenza definitiva di condanna), della prosecuzione di attività illecite di intestazione fittizia accertate in differenti procedimenti e finalizzate alla continua ricerca di modalità per sottrarre beni riconducibili ai due nuclei familiari a provvedimenti ablatori, del mantenimento di costanti e proficui contatti con altri esponenti di analoghi gruppi criminali operanti nello stesso territorio ostiense (gli S.), della prosecuzione delle attività di direzione delle famiglie anche in costanza di regime carcerario. Tutte tali osservazioni escludono che il provvedimento impugnato possa ritenersi affetto da violazione di legge per omessa valutazione della attualità della pericolosità essendo anzi stato sottolineato come anche in prossimità del provvedimento di primo grado risultassero elementi per affermare che F.C. e F.T. continuavano ad esercitare la direzione dei rispettivi gruppi familiari.


Ne deriva affermare che alcuna violazione di legge sussiste nel caso in esame risultando l'attualità della pericolosità ricavata da elementi concreti non contestabili nella presente fase di legittimità.


2.3 Quanto alla dedotta violazione del principio del ne bis in idem con riguardo al giudicato della corte di appello di Roma del 27 aprile 2004 si osserva quanto segue; il tema del valore del giudicato nel procedimento di prevenzione risulta oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali; secondo una prima pronuncia delle Sezioni Unite in tema di misure di prevenzione patrimoniale, stante la natura della decisione che le applica, inidonea a determinare un giudicato in senso proprio, nessuna preclusione sussiste a che, annullato per vizi formali un decreto di confisca, si instauri, in costanza di esecuzione di una misura di prevenzione personale, una nuova procedura di sequestro e confisca sui medesimi beni oggetto del provvedimento annullato. (Sez. U, n. 36 del 13/12/2000, Rv. 217668). Già con questa prima pronuncia si era chiarito come la preclusione processuale derivante da un precedente decreto in materia di prevenzione opera con effetti più limitati rispetto alla sentenza passata in giudicato perché circoscritta alle sole questioni dedotte senza estendersi a quelle deducibili e resta condizionata dalla situazione di fatto presa in considerazione.


Nella successiva evoluzione il principio di riferimento in materia risulta dettato dalle Sezioni Unite di questa Corte di cassazione nel 2009 secondo cui il principio del "ne bis in idem" è applicabile anche nel procedimento di prevenzione, ma la preclusione del giudicato opera "rebus sic stantibus" e, pertanto, non impedisce la rivalutazione della pericolosità ai fini dell'applicazione di una nuova o più grave misura ove si acquisiscano ulteriori elementi, precedenti o successivi al giudicato, ma non valutati, che comportino un giudizio di maggiore gravità della pericolosità stessa e di inadeguatezza delle misure precedentemente adottate (Sez. U, n. 600 del 29/10/2009, Rv. 245176). Così posto non vi è dubbio che il campo applicativo del ne bis in idem in materia di prevenzione è decisamente più ridotto rispetto alla duplicazione del procedimento penale; difatti, secondo tale interpretazione, stante la strutturale ed ontologica differenza delle misure di prevenzione, prive di natura sanzionatoria rispetto alle sanzioni penali, non vi è ragione di escludere la possibilità, pur eccezionale e da limitare a casi particolari, di riproposizione di una misura di prevenzione nei confronti di soggetto già precedentemente sottoposto ad analogo procedimento concluso con accoglimento parziale o con il rigetto della richiesta. Condizione imprescindibile per la reiterazione dell'istanza e della misura è però la sopravvenienza di elementi di fatto, anche precedenti ma non valutati nel primo giudizio, che mutino il giudizio di pericolosità e cioè che siano idonei a delineare o una diversa pericolosità del proposto ovvero ad ampliare il quadro temporale di riferimento della stessa.


Il suddetto principio affermato dalle Sezioni Unite risulta più recentemente ribadito dalle sezioni semplici secondo cui in tema di misure di prevenzione, è applicabile il principio del "ne bis in idem", ma la preclusione del giudicato opera "rebus sic stantibus" e, pertanto, non impedisce la rivalutazione della pericolosità ai fini dell'applicazione di una misura precedentemente rigettata, nel caso in cui siano sopravvenuti elementi nuovi, che possono consistere anche in modifiche normative (Sez. 6, n. 53941 del 03/10/2018, Rv. 274585); ed in motivazione tale pronuncia afferma la legittimità del provvedimento di applicazione della confisca di prevenzione pur in presenza di un precedente procedimento che si era concluso nei confronti dello stesso soggetto con il rigetto della richiesta.


Può quindi ritenersi che l'orientamento giurisprudenziale di questa corte, ha chiarito la non riferibilità alle misure di prevenzione, stante la natura della decisione che le applica, della nozione di giudicato in senso proprio, pur riconoscendo l'applicabilità anche a questo settore della categoria della "preclusione processuale", già utilizzata per disciplinare le possibili interferenze fra procedimenti distinti nel campo degli incidenti cautelari e di esecuzione: qualora una questione sia stata già decisa, per esigenze di certezza del diritto e di efficienza processuale, la stessa non può formare oggetto di rinnovata delibazione in diverso procedimento, salva l'ipotesi di deduzione di nuovi elementi non previamente considerati (Sez. 1, n. 20476 del 11/02/2013, Capriotti ed altri, Rv. 255383; Sez. 1, n. 25846 del 04/05/2012, Franco e altri, Rv. 253080; Sez. 6, n. 47983 del 27/11/2012, D'Alessandro, Rv. 254278).


Tali essendo i principi dettati dalla giurisprudenza di questa Corte di cassazione occorre escludere la fondatezza di tutti quei motivi di gravame proposti nell'interesse di F.C. e dei congiunti di questo ( Fa.Az. e F.S., B.S.F.) che hanno dedotto la violazione del giudicato in relazione al contenuto del decreto della corte di appello di Roma datato 27 aprile 2004; innanzi tutto, va precisato che, secondo le stesse prospettazioni difensive (vedi ricorso F.S. p.2), il suddetto decreto confermava il giudizio di pericolosità sociale sia di F.C. che della moglie B.S.F. ma in seguito allo svolgimento di una perizia in grado di appello aveva concluso per l'assenza di sproporzione tra i redditi derivanti dalle attività commerciali dei F. e gli acquisiti immobiliari dei medesimi, così che la preclusione processuale coprirebbe al più questa sola valutazione.


In ogni caso, non pare a questa Corte di cassazione che il nuovo giudizio effettuato dalla corte di appello di Roma nel provvedimento impugnato violi i principi sopra indicati che precludono un nuovo accertamento ed una differente conclusione soltanto in presenza dei medesimi presupposti di fatto; invero, nel caso in esame, il giudice di appello della prevenzione con le ampie, approfondite ed esaustive argomentazioni contenute non soltanto alle pagine 37-40 dell'impugnato provvedimento bensì in tutto il corpo dello stesso decreto ha spiegato che le nuove emergenze di fatto fondanti il differente giudizio sono costituite da: la pronuncia n. 10255/2020 emessa da questa Corte di cassazione di condanna irrevocabile per il delitto di direzione di organizzazione mafiosa (clan F.) a carico di F.C., sopravvenuta a quel giudizio di prevenzione concluso nel 2004, avente ad oggetto condotte commesse negli anni 2000; la condanna all'esito del medesimo procedimento anche di altri componenti dello stesso nucleo familiare oggi ricorrenti ( Fa.Az., F.S. e B.S.F.) per il delitto di organizzazione (la B.) o partecipazione all'associazione mafiosa denominata clan F.;


la condanna dei predetti F. all'esito dello stesso giudizio anche per fatti di associazione dedita al traffico di stupefacenti ed intestazione fittizia aggravata dall'agevolazione mafiosa;


la condanna definitiva di F.C., B.S.F. e Fa.Az. con la pronuncia n. 16048 del 2018 di questa Corte di cassazione per fatti di intestazione fittizia aggravati dall'agevolazione mafiosa (c.d. procedimento (OMISSIS)") aventi ad oggetto altre società ed altri beni;


- gli accertamenti sviluppati in tale ultimo procedimento che permettevano di acclarare


come il clan F. avesse operato nel territorio ostiense con tecniche criminali già a partire dagli anni ‘80 posto che le indagini permettevano di appurare come detto clan mafioso avesse attuato "estorsioni per spossessare commercianti in condizioni di difficoltà economiche, per rilevarne con la forza dell'intimidazione le relative attività economiche nonché con prestiti usurari ed al traffico di stupefacenti";


- gli ulteriori procedimenti per fatti di bancarotta ed usura conclusi con sentenza di prescrizione (p.45 decreto impugnato) nel 2008;


- la riperimetrazione della pericolosità sociale qualificata del F. in epoca antecedente al 1980 essendo lo stesso stato condannato definitivamente per il delitto di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990, accertato a marzo del 1980.


Trattasi con evidenza di molteplici elementi di fatto, molti dei quali sopravvenuti alla decisione del 2004 e tutti correttamente posti a fondamento di una differente valutazione di pericolosità sociale ed arricchimento illecito; posto infatti che i plurimi procedimenti permettevano di appurare che F.C. ha ininterrottamente commesso delitti già prima del 1980, che lo stesso risulta avere costituito e diretto una pericolosa organizzazione mafiosa dedita anche al narco traffico, che i familiari del medesimo odierni ricorrenti sono tutti coinvolti attivamente nella consumazione di fatti di mafia e di delitti connessi, che le attività commerciali gestite dai F. risultavano sottratte ai precedenti legittimi proprietari a seguito di fatti estorsivi ovvero di precedenti prestiti usurari, correttamente la corte di appello, con valutazione conforme a quella già operata dal tribunale di prevenzione di Roma, riteneva che tutti gli acquisiti ed investimenti immobiliari, a partire dagli anni 80, fossero frutto di reinvestimento illecito di capitali profitto di gravi delitti e come tali inequivocabilmente destinati all'ablazione con la confisca di prevenzione. Le Sezioni Unite Spinelli hanno spiegato che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche "misura temporale" del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell'arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l'intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato. (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, Rv. 262605); ed in motivazione con riferimento al tema della pericolosità qualificata che investe l'intero percorso esistenziale del proposto la stessa pronuncia precisa:" ad assumere rilievo non è tanto la qualità di pericoloso sociale del titolare, in sé considerata, quanto piuttosto la circostanza che egli fosse tale al momento dell'acquisto del bene. Se così e', e se tale rapporto è indefettibile, nel senso che, in tanto può essere aggredito un determinato bene, in quanto chi l'abbia acquistato fosse, al momento dell'acquisto, soggetto pericoloso, resta esaltata la funzione preventiva della confisca, in quanto volta a prevenire la realizzazione di ulteriori condotte costituenti reato, stante l'efficacia deterrente della stessa ablazione.... sul nucleo essenziale della prevenzione si innesta la specifica finalità di sottrarre il bene al circuito economico originario, recuperandolo anche presso gli aventi causa a titolo universale, in caso di morte del soggetto pericoloso. Tale estensione di efficacia ablatoria non può ritenersi né arbitraria né illegittima, proprio perché il bene, siccome frutto di illecita acquisizione, reca in sé una connotazione negativa, che ne impone la coattiva apprensione.... nell'ipotesi in cui la pericolosità investa, come accade ordinariamente, l'intero percorso esistenziale del proposto e ricorrano i requisiti di legge, è pienamente legittima l'apprensione di tutte le componenti patrimoniali ed utilità, di presumibile illecita provenienza, delle quali non risulti, in alcun modo, giustificato il legittimo possesso".


E quindi, estesa la pericolosità sociale del F.C. a tutto il percorso di vita dello stesso, legittimamente si è disposta la confisca dell'intero patrimonio dello stesso e dei beni intestati ai prossimi congiunti, in quanto la pericolosità qualificata è estesa all'intero percorso esistenziale di detto soggetto autore di gravi delitti associativi reiterati nell'arco di decenni.


Ne consegue che l'accertamento di proporzionalità tra redditi ed acquisti immobiliari del perito D.G., svolto nel procedimento concluso con il decreto dell'aprile 2004 da parte della corte di appello di Roma, non costituisce vincolo invalicabile sul quale opera una preclusione processuale; invero il giudizio di pericolosità risulta totalmente riformulato ed esteso temporalmente da parte della corte di appello di Roma anche a periodi temporali antecedenti il 1980 sulla base di precise considerazioni di fatto non censurabili nella presente sede perché prive di qualsiasi profilo di violazione di legge.


Inoltre, è proprio il caso di sottolineare come, ai sensi dell'art. 24 D.Lgs. n. 159 del 2011, la confisca di prevenzione è disposta:


sui beni di cui la persona non possa giustificare la legittima provenienza;


sui beni di cui anche per interposta persona risulti essere titolare o avere la disponibilità in misura sproporzionata al reddito;


"nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego".


Per cui se anche si dovesse ritenere sussistere una precisa preclusione processuale in ordine alla verifica di proporzionalità tra beni acquisiti nell'arco temporale degli anni ‘80 e redditi dichiarati dai F., secondo l'accertamento del perito D.G. recepito dal decreto della corte di appello romana dell'aprile 2004, comunque tale preclusione non sussisterebbe in relazione alla verifica dell'origine illecita di quei capitali e del loro reimpiego negli acquisti immobiliari che il provvedimento impugnato propone sulla base di una attenta e ragionata lettura di plurimi dati processuali in precedenza elencati (vedi ad esempio pagine 35, 53, 59, 60 del decreto impugnato).


Così che la nascita, evoluzione ed affermazione del clan F. nel territorio ostiense appare richiamare quell'indirizzo giurisprudenziale secondo cui in tema di misure di prevenzione patrimoniali, può essere disposta la confisca di tutto il patrimonio immobiliare e societario del proposto qualora l'apporto di componenti lecite si sia risolto nel consolidamento e nell'espansione della sistematica e reiterata attività di riciclaggio e di reimpiego di preponderanti capitali illeciti sì da non essere più scindibile la minoritaria quota lecita, stante il risultato sinergico dei capitali impiegati, determinante una loro inestricabile commistione e contaminazione (Sez. 6, n. 49750 del 04/07/2019, Rv. 277438); e ciò perché accertato da parte della corte di appello il reinvestimento dei profitti illeciti in attività imprenditoriali, in tutto il percorso esistenziale del capofamiglia, non vale certamente a "ripulire" i redditi del proposto e dei terzi intestatari lo svolgimento di attività commerciali. Principio questo già affermato anche da altra precedente pronuncia che appare consona al caso in esame con la quale si è stabilito che in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca dell'intero capitale sociale e di tutto il patrimonio dell'impresa "mafiosa", ai sensi dell'art. 2 ter della L. 31 maggio 1965, n. 575, in conseguenza della pericolosità qualificata del proposto riferita ad un periodo temporale delimitato, può essere disposta sulla base della presunzione relativa della illiceità degli investimenti iniziali, conseguente alla loro sproporzione con il reddito dichiarato ovvero ad indizi idonei alla loro caratterizzazione quale frutto o reimpiego di proventi di attività illecite (Sez. 6, n. 48610 del 08/06/2017, Rv. 271485).


E tali valutazioni sulla mafiosità dell'impresa espressamente riportate dal decreto impugnato alle pagine 42-43 appaiono certamente prive di profili di violazione di legge denunciati con i ricorsi poiché desunti da inequivocabili passi di altre pronunce di condanna degli stessi ricorrenti.


Alcun vizio presenta altresì il rigetto della richiesta di nuova perizia sulla sproporzione avanzate dalle difese dei F.C., F.S., Fa.Az. e della B. che insiste su un elemento, quello della sperequazione, che la corte di appello ritiene non decisivo sulla base delle considerazioni che vengono specificamente svolte a pagina 40 del provvedimento impugnato e con le quali si sottolinea che a fronte dell'accertato massiccio reimpiego di capitali illeciti nelle attività rilevate dal nucleo familiare dei predetti, alcuna utilità avrebbe avuto un ulteriore accertamento sul punto. E tale valutazione appare ancorata proprio a quel profilo precedentemente esaminato che legittima la confisca di prevenzione non soltanto sui beni posseduti in misura sproporzionata dal pericoloso qualificato ma altresì su quelli che si ritengano frutto del reimpiego dei profitti illeciti così che, in tale ultimo caso, totalmente superfluo è procedere a nuova perizia.


2.4 Inammissibili sono poi quei motivi con i quali i ricorsi di F.C., B.S.F., F.S. ed Fa.Az. deducono doglianze relative alla sorte dei singoli beni oggetto di confisca, analizzandone i tempi, le modalità di acquisizione e di costruzione; invero posto che il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione è proponibile solo per violazione di legge i suddetti motivi si spingono invece ad effettuare un sindacato pieno della motivazione peraltro avanzando anche tutta una lettura alternativa di elementi di prova e di fatto. La corte di appello di Roma sezione misure di prevenzione, con le specifiche ed argomentate considerazioni svolte alle pagine da 56 a 68 dell'impugnato provvedimento, ha proceduto ad applicare i principi generali in tema di confisca di prevenzione dei beni costituenti reimpiego di profitti illeciti senza incorrere in alcuna violazione di legge e tali valutazioni, peraltro esplicitate per ogni singolo bene, appaiono esenti dalle lamentate censure.


Quanto al profilo su cui insistono i ricorsi di Fa.Az. e F.S. circa la realizzazione di abitazioni con redditi dei F. ma su terreni precedentemente acquisiti dalla nonna F., a parte le considerazioni della corte di appello sull'assenza di redditi leciti in capo alla stessa e sul coinvolgimento della medesima in procedimenti penali per delitti associativi e per reati fine dell'associazione (associazione a delinquere ed usura p.58), va ricordato come per costante orientamento di questa Corte di cassazione in tema di misure di prevenzione, è legittima la confisca di un fabbricato realizzato con denaro di provenienza illecita su terreno di provenienza lecita, in quanto i due beni, sul piano economico e funzionale, devono essere valutati unitariamente e non sono suscettibili di una valutazione separata in conformità agli scopi della disciplina di prevenzione preordinata a colpire investimenti, anche se leciti, di risorse finanziarie prodotte da attività illecite (Sez. 5, n. 49479 del 25/09/2009, Rv. 245834). Con la conseguenza che anche se il terreno fosse stato acquistato lecitamente dalla F. e poi donato al figlio, la realizzazione della villa di 12 vani con capitali illeciti, accertata dalla corte di merito, ne giustifica l'ablazione.


2.5 II primo motivo di ricorso avanzato nell'interesse di F.T. nella qualità di proposto, F.A., F.M., F.M.R. nella qualità di terzi interessati, con il quale si deduce nullità del decreto per violazione di legge ex art. 606 lettera c) c.p.p., in relazione alla inutilizzabilità della informativa del GICO della Guardia di finanza del 14 Marzo 2018, per essere la stessa stata depositata fuori udienza, è manifestamente infondato e reiterativo di aspetti già affrontati e risolti dalla corte di appello; il giudice di secondo grado ha già sottolineato l'insussistenza di previsioni specifiche sulla base delle quali stabilire un obbligo indeterminato della cancelleria della sezione misure di prevenzione di comunicare il deposito di atti dalla controparte. Ha sottolineato l'assenza di qualsiasi previsione di inutilizzabilità specifica e aggiunto che la garanzia del contraddittorio è assicurata dal termine di cinque giorni entro il quale le produzioni possono essere fatte; ancora ha sottolineato la mancata deduzione di qualsiasi questione all'udienza successiva il deposito di tale nota così esplicitando una serie di argomenti tutti propedeutici all'affermazione di manifesta infondatezza del motivo di doglianza.


Quanto al secondo motivo, con il quale si è dedotta la nullità del decreto ex art. 606 lett. c) c.p.p., per totale assenza di motivazione in ordine alla pericolosità sociale qualificata del proposto al momento dell'acquisto dei singoli beni sottoposti a misura ablatoria, anche tale doglianza è infondata; rimandando al punto 2.2 della presente motivazione quanto al requisito dell'attualità, in relazione alla delimitazione temporale della pericolosità qualificata di F.T. il decreto impugnato contiene specifica ed ampia motivazione esposta alle pagine 71-75.


Peraltro il provvedimento impugnato, oltre che nella detta parte motiva, nella parte iniziale precisava la particolare valenza della condanna di F.T. per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa risultante dalla sentenza definitiva di questa Corte di cassazione n. 10255 del 2020 definendo lo stesso un partecipe qualificato risultato presente alle decisioni strategiche assunte dal clan F.. Esclusa l'assenza di motivazione, che si ricorda costituisce unico vizio denunciabile nei ricorsi per cassazione avverso provvedimenti in materia di prevenzione, il provvedimento della corte di appello di Roma aggiungeva a sostegno della valutazione di pericolosità qualificata ulteriori dati giudiziari costituiti:


- dalla condanna di F.T. nel 1998 per il delitto di usura;


- dalla sottoposizione del medesimo ad altro procedimento per fatti di usura concluso con sentenza di prescrizione;


- dalla condanna per il reato di detenzione illegale di armi aggravata dall'agevolazione mafiosa;


- dalle precise ed inequivocabili dichiarazioni del collaboratore di giustizia C.S. il quale riferiva di avere ricevuto incarico proprio da F.T. di danneggiare alcuni autosaloni di Ostia perché i titolari erano in ritardo con il pagamento dei debiti usurari;


- dalle accertate plurime violazioni alle misure di prevenzione personale.


Proprio sulla base di tali oggettivi elementi la corte di appello affermava espressamente che la pericolosità qualificata ed anche attuale di F.T. si desumeva da "l'accumulo di ben 23 anni di condotte criminali di spessore sempre più elevato, fondato sulla predazione usuraria e la violenza" e tale valutazione, in quanto ancorata a precisi elementi tutti specificamente richiamati, non è certamente censurabile sotto il profilo della violazione di legge.


Infondata è anche la doglianza nella parte in cui sottolinea l'avvenuta stigmatizzazione da parte del giudice di appello per pervenire al giudizio di pericolosità qualificata di precedenti giudiziari non confacenti ai soggetti di cui all'art. 4 lett. a) e b) D.Lgs. n. 159 del 2011; il ricorso in sostanza prospetta una valenza esclusiva ai fini della pericolosità qualificata di condanne per reati di mafia o comunque rientranti nell'elenco dell'art. 51 bis c.p.p., che né la legge né l'interpretazione giurisprudenziale ha mai stabilito essendo libero il giudice della prevenzione nell'effettuare tale valutazione di procedere ad autonoma considerazione dei fatti e dei procedimenti nei quali il proposto risulti coinvolto. Al proposito questa Corte di cassazione ha ripetutamente affermato che in tema di misure di prevenzione, il giudizio sull'attualità della pericolosità sociale dell'indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso può essere fondato su elementi di fatto valorizzati in altri provvedimenti giudiziari, a condizione che ne sia effettuata un'autonoma valutazione, senza possibilità di recepire acriticamente il giudizio prognostico sulla pericolosità sociale contenuto in detti provvedimenti, anche se relativi a misure di sicurezza o a misure (Sez. 1, n. 10034 del 05/02/2019, Rv. 275054); si è ancora stabilito che nel procedimento di prevenzione il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto. (Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, Rv. 256819).


Ed i giudici di merito appaiono proprio essersi ispirati a detto principio nella applicazione delle misure personali e patrimoniali nei confronti del F.T. e dei terzi intestatari posto che i diversi procedimenti sono stati tutti scandagliati per addivenire ad una valutazione finale di pericolosità qualificata protratta per oltre un ventennio esente da qualsiasi censura di violazione di legge perché basata oltre che sull'accertamento definitivo di responsabilità per il grave delitto di cui all'art. 416 bis c.p., anche su altri procedimenti e condanne che il proposto risulta avere riportato.


Ed al proposito, appare ancora significativo delle modalità operative della famiglia criminale, la sottolineatura da parte dei provvedimenti di merito del coinvolgimento e della condanna anche di F.A. per un grave fatto di omicidio commesso nel 2009 dopo il quale lo stesso si dava latitante per diversi anni.


Con il quarto motivo i ricorrenti censurano il giudizio di sproporzione patrimoniale al momento dell'acquisto dei beni confiscati e chiedono dichiararsi la nullità del provvedimento impugnato deducendo essere state disattese le doglianze difensive; la doglianza in particolare viene esposta attraverso un'illustrazione diffusa di conteggi e criteri di calcolo alternativi, senza specificare la violazione di legge posta in essere dal giudice di merito, ma sostanzialmente criticando la motivazione che, certamente, non può dirsi apparente, posto che con le specifiche osservazioni svolte alle pagine 75-85 il giudice di appello ha proprio proceduto a collocare gli acquisti nel perimetro temporale della pericolosità e rilevato, per tutti quegli anni corrispondenti, la mancanza di prova di redditi dichiarati adeguati e proporzionati. E tale valutazione appare assai specifica proprio perché compiuta con riferimento a ciascuno dei beni che risultano confiscati in danno di F.T. e dei suoi familiari senza che l'individuazione di provviste alternative per l'acquisto degli immobili possa essere fatto valere nella presente sede di legittimità.


Peraltro tale motivo di ricorso appare decisamente infondato anche nella parte in cui non tiene in considerazione le osservazioni del giudice di appello sulla lunga carriera criminale di F.T., oltre che del figlio F.A., che hanno portato ad un giudizio di pericolosità qualificata esteso per oltre un ventennio così che legittimamente tutti gli acquisti effettuati in tale lungo arco temporale venivano presi inconsiderazione; così che arbitraria appare la delimitazione della pericolosità qualificata di F.T. ai soli fatti degli anni 2000 avendo i giudici di merito precisato come già negli anni precedenti il suddetto proposto risultava attivo in uno dei campi di maggiore operatività del clan, quello dell'usura.


Il quinto motivo con il quale si contesta ancora la valutazione di attualità della pericolosità sociale trova risposta nel punto 2.2 della presente motivazione; peraltro è appena il caso di sottolineare come illegittimamente il ricorso prospetta l'impossibilità di dedurre tale attualità a carico dei F. anche da provvedimenti cautelari stante il già richiamato potere di autonoma valutazione del giudice della prevenzione delle circostanze e dei fatti emersi in altri procedimenti penali.


In conclusione, le impugnazioni devono ritenersi infondate; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


PQM

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 2 novembre 2021.


Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021



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