Mandato di arresto europeo: stop alla consegna se il carcere non garantisce 3 metri quadri (Cass. Pen. n. n.27087/25)
- Avvocato Del Giudice
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Indice:
1. Premessa
1. Premessa
La sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI, 23 luglio 2025, n. 27087, affronta ancora una volta il delicato equilibrio tra l’effettività del mandato di arresto europeo (MAE) e la tutela dei diritti fondamentali della persona richiesta in consegna. Il caso riguardava la consegna di un cittadino rumeno, condannato in via definitiva in patria per tentato omicidio, possesso abusivo di arma da fuoco e disturbo della quiete pubblica. Il cuore della questione non è tanto l’accertamento del titolo esecutivo, quanto il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti connessi alle condizioni detentive negli istituti penitenziari rumeni.
2. Il quadro normativo di riferimento
La disciplina del MAE, contenuta nella legge n. 69/2005, come modificata dal d.lgs. n. 10/2021, limita i motivi di ricorso in Cassazione ai soli errori di diritto (art. 606, lett. a), b), c) c.p.p.), escludendo la possibilità di censurare il merito o la motivazione contraddittoria delle decisioni di consegna.
Tuttavia, la giurisprudenza europea — sia della Corte di Giustizia UE (cause Aranyosi e Căldăraru, C-404/15 e C-659/15; Dorobantu, C-128/18) sia della Corte EDU (Sulejmanovic c. Italia, 2009; Ananyev c. Russia, 2012; Muršić c. Croazia, Grande Camera, 2016) — ha imposto una verifica rigorosa delle condizioni detentive nello Stato di emissione, soprattutto in presenza di elementi concreti che indichino un rischio di violazione dell’art. 3 CEDU e dell’art. 4 CDFUE.
3. Il nodo dello “spazio vitale minimo”
Le Corti europee hanno fissato in tre metri quadrati lo spazio minimo pro capite in cella collettiva, con esclusione dell’area occupata dagli arredi fissi. Il superamento di tale soglia genera una presunzione relativa di trattamento conforme; al contrario, lo spazio inferiore attiva una presunzione di trattamento degradante, superabile solo in presenza di fattori compensativi (brevità della detenzione, accesso ad attività all’aperto, condizioni generali dignitose).
Le Sezioni Unite della Cassazione (sent. Commisso, n. 6551/2020, dep. 2021) hanno recepito tali principi, stabilendo che il rischio può ritenersi escluso solo se l’autorità richiedente assicuri: a) almeno 3 mq di spazio vitale in regime chiuso, oppure b) minore spazio ma in regime semiaperto, con libertà di movimento e attività idonee a compensare la compressione.
4. La decisione della Cassazione
La Corte ha dichiarato inammissibile il motivo relativo al radicamento familiare e sociale in Italia, ritenendo che le censure si risolvessero in doglianze di merito. Ha invece accolto la doglianza sulle condizioni carcerarie: la relazione fornita dalle autorità rumene, pur affermando il rispetto dei tre metri quadrati, non chiariva se lo spazio fosse calcolato al netto degli arredi fissi e non specificava le condizioni nel periodo di quarantena e nel successivo regime chiuso.
Tale incertezza, secondo la Suprema Corte, impedisce di escludere il rischio di violazione dell’art. 3 CEDU, imponendo un nuovo giudizio alla Corte d’Appello di Brescia, che dovrà attendere e valutare le informazioni integrative già richieste alle autorità rumene.
5. Considerazioni conclusive
La pronuncia conferma il ruolo della Cassazione come garante del rispetto degli standard convenzionali anche nei procedimenti di consegna europea.
Se da un lato il MAE rappresenta uno strumento essenziale di cooperazione giudiziaria e di fiducia reciproca, dall’altro non può mai tradursi in una compressione dei diritti fondamentali.
Lo “spazio vitale” del detenuto non è una formula astratta, ma un parametro concreto che misura il livello minimo di dignità garantito dall’ordinamento europeo.
La decisione si colloca così nel solco di un orientamento ormai consolidato: la cooperazione giudiziaria deve sì essere rapida ed efficace, ma non a scapito del nucleo essenziale dei diritti umani.
6. La sentenza integrale
Cassazione penale sez. VI, 23/07/2025, (ud. 23/07/2025, dep. 24/07/2025), n.27087
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello di Brescia ha disposto la consegna di Ba.Vi. alla R., essendo stato emesso nei suoi confronti un mandato di arresto per l'esecuzione della pena inflitta dal Tribunale di Bucarest, con sentenza divenuta definitiva il 3 maggio 2025, per i delitti di tentato omicidio, possesso abusivo di arma da fuoco e disturbo della quiete pubblica.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di Ba.Vi. per i motivi di seguito sintetizzati.
2.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 2 I. n. 69 del 2005, 2 CDFUE, 3 CEDU in considerazione del concreto e serio rischio che il ricorrente sia sottoposto a trattamenti disumani e degradanti a causa del sovraffollamento e del degrado delle carceri rumene.
La Corte di appello, che per due volte aveva chiesto informazioni integrative alla autorità rumena, ha adottato l'ordinanza impugnata prima che dette informazioni pervenissero, ritenendo, in modo contraddittorio, sufficienti quelle già ricevute.
Rileva la difesa che dalla relazione agli atti, che peraltro non proviene dal Ministero ma dall'autorità penitenziaria, non emerge con certezza in quale istituto il ricorrente sconterà la pena dopo il periodo di quarantena di ventuno giorni. Inoltre, è incerto se e quando dal regime chiuso, cui il ricorrente verrà verosimilmente sottoposto nel primo periodo, si passerà al regime semi-aperto; in ogni caso, nel carcere di B. R., cui probabilmente il ricorrente sarà destinato durante il periodo di quarantena e in quello di detenzione in regime chiuso, non è garantito uno spazio minimo di 3 metri quadrati, detratto quello impegnato dagli arredi fissi.
Infine, si rileva che le informazioni sarebbero generiche, in quanto non forniscono una indicazione trattamentale individualizzata.
2.2. Violazione di legge in relazione all'art. 18-bis I. n. 69 del 2005, avendo la Corte erroneamente ritenuto insussistente il radicamento sul territorio nazionale, in quanto il ricorrente è in Italia fin dal 2004 e, dal 2018 al 2021, si è recato in Romania, dove ha commesso il delitto di tentato omicidio, per cui è stato arrestato ed ha espiato una parte della pena. Dal 2021 è tornato in Italia, dove vive anche il figlio, nato nel 2011, da poco rimasto orfano di madre. Il diritto del figlio a mantenere un legame con il padre, unico genitore superstite, è riconosciuto da fonti sovranazionali e non è stato adeguatamente considerato dall'ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va preliminarmente esaminato, per priorità logica, il secondo motivo di ricorso.
Tale motivo è inammissibile.
A seguito delle modifiche apportate dall'art. 18 del D.Lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, all'art. 22 della legge 22 aprile 2005, n. 69, non è ammissibile il ricorso per cassazione per vizi di motivazione avverso i provvedimenti che decidono sulla
consegna dell'interessato, essendo stato espunto dalla norma il riferimento alla proponibilità del ricorso "anche nel merito" e, al contempo, essendosi circoscritto il potere di sindacato della corte di cassazione ai soli motivi previsti dall'art. 606, lett. a), b) e c). Riguardo ai procedimenti in tema di mandato di arresto europeo, quindi, questa Corte non è più giudice del merito e il ricorso non può essere proposto per vizi attinenti alla contraddittorietà o illogicità della motivazione (Sez. 6, n. 8299 dell'8/03/2022, PG c/Gheorghe, Rv. 282911 - 01).
Il ricorrente, che formalmente denuncia una violazione di legge, in realtà censura la motivazione della sentenza impugnata, proponendo una diversa, e alternativa, ricostruzione dei fatti, inammissibile in questa sede.
La Corte di appello, infatti, con motivazione non apparente, ha escluso il radicamento del ricorrente nel territorio nazionale nell'ultimo quinquennio, in quanto fino al 24/012/2021 è stato in Romania, in espiazione pena; dopo questa data è stata accertata la sua presenza sul territorio italiano, nel Comune di Gallarate, solo il 20/02/2024. Egli, inoltre, non risulta titolare di diritto reale o di contratto di locazione nel territorio nazionale e l'attività lavorativa è documentata solo dal 2025.
Sotto altro profilo, la Corte ha rilevato che non è stato prodotto un certificato di nascita di Ba.Ni., indicato dalla difesa come figlio del ricorrente, e che, in ogni caso, la mera dichiarazione della frequentazione scolastica in Italia del minore non è sufficiente per dimostrare il radicamento della ricorrente per il tempo richiesto dalla legge.
2. Il primo motivo di ricorso è, invece, fondato.
2.1. La Grande Camera della Corte di Giustizia nella sentenza 5 aprile 2016 (C404/15, Aaranyosi, e C-659/15, Caldararu) ha affermato che l'esecuzione del mandato di arresto europeo non può mai condurre ad un trattamento inumano o degradante. Il divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti di cui all'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, a sua volta corrispondente all'art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, rappresenta, infatti, un valore fondamentale dell'Unione europea, avente carattere assoluto, in quanto strettamente connesso al rispetto della dignità umana.
La Corte (Grande Camera, decisione del 15 ottobre 2019 C 128/18, Dorobantu) ha, poi, affermato che l'autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione può solo in via eccezionale non tenere in considerazione le dichiarazioni ricevute dall'autorità del Paese di emissione e rifiutarsi di eseguire il mandato di arresto europeo, precisando che il rifiuto è consentito solo quando, sulla base di elementi precisi, si riscontri comunque il pericolo che l'interessato possa subire una violazione dei suoi diritti fondamentali.
Con la decisione suindicata la Corte ha stabilito che, qualora l'assicurazione che la persona interessata non subirà un trattamento inumano o degradante in ragione delle sue condizioni di detenzione sia stata fornita, o quantomeno, approvata dall'autorità giudiziaria emittente, l'autorità giudiziaria di esecuzione deve fidarsi di tale assicurazione, quantomeno in assenza di elementi precisi che permettano di ritenere che le condizioni di detenzione esistenti all'interno di una determinato istituto sono contrarie all'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali.
2.2. La Corte di Strasburgo, nel tentativo di individuare uno standard minimo unitario applicabile in tema di spazio personale dei detenuti in una cella collettiva, ha fatto riferimento alla superficie calpestabile di almeno tre metri quadrati per detenuto, tale da consentire ai detenuti di muoversi liberamente fra gli arredi (Corte EDU, 6/11/2009, Sulejmanovic c. Italia; Corte EDU, 10/01/2012, Ananyev e altri c. Russia; Corte EDU, Grande Camera, 20/10/2016, Muri e c. Croazia).
Si afferma, pertanto, che la presenza di uno spazio inferiore a tale soglia minima crea una forte presunzione, sia pure relativa e confutabile dallo Stato interessato, che le condizioni di detenzione integrino un trattamento degradante. Tale presunzione iuris tantum è, infatti, superabile allorché sia dimostrata l'esistenza di fattori che, cumulativamente, siano in grado di compensare la 4 mancanza di spazio vitale, ovvero: a) la brevità, l'occasionalità e la modesta entità della riduzione dello spazio personale; b) la sufficiente libertà di movimento e lo svolgimento di attività all'esterno della cella; c) l'adeguatezza della struttura, in assenza di altri aspetti che aggravino le condizioni generali di detenzione del ricorrente (Corte EDU, Grande Camera, 20/10/2016, Muri c. Croazia).
2.3. Le Sezioni unite di questa Corte hanno escluso il "serio pericolo" che la persona ricercata venga sottoposta a trattamenti inumani o degradanti qualora dallo Stato richiedente venga garantito al detenuto uno spazio non inferiore a tre metri quadrati in regime ed. "chiuso", ovvero uno spazio inferiore, ma in presenza di un regime c.d. "semiaperto", ossia in presenza di circostanze che consentano di beneficiare di una maggiore libertà dì movimento durante il giorno, rendendo in tal modo possibile il libero accesso alla luce naturale e all'aria, si da compensare l'insufficiente assegnazione di spazio. In tale evenienza, infatti, ove sia riservato uno spazio inferiore ai tre metri quadri, è necessario, al fine di escludere o di contenere detto pericolo, che concorrano le seguenti circostanze: 1) breve durata della detenzione; 2) sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività; 3) dignitose condizioni carcerarie (Sez. U, n. 6551 del 24/09/2020, dep. 2021, Ministero della giustizia in proc. Commisso, Rv. 280433 - 02).
3. La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione di tali principi.
Dalla relazione dell'autorità rumena, integralmente riportata nella sentenza impugnata, emerge la prevista probabile assegnazione del ricorrente al penitenziario di B. per una quarantena di ventuno giorni, e successivamente, al termine di tale periodo, la verosimile assegnazione al medesimo istituto penitenziario, inizialmente in regime chiuso, tenuto conto dell'entità della pena inflitta. Dopo aver scontato un quinto della pena, se ne ricorreranno le condizioni, al ricorrente potrebbe essere applicato il regime "semiaperto", verosimilmente nella casa circondariale di B. e, solo successivamente, il regime "aperto".
Dalla medesima relazione risulta che il ricorrente, durante la quarantena nel carcere di B., sarà in una stanza tale da garantirgli "uno spazio minimo di 3 mq." e che, poi, "beneficerà di uno spazio individuale minimo di 3 metri quadrati, per tutto il periodo di esecuzione della pena, ad eccezione della ripartizione nel regime aperto periodo in cui usufruirà di 4 metri quadrati, compreso il letto e il relativo arredamento".
Tale ultima locuzione, non chiarissima, pare interpretabile nel senso che i 3 metri quadrati assicurati nelle celle collettive ove sarà scontato sia il periodo di detenzione in "regime chiuso" che il periodo in regime "semi-aperto" non sono comprensivi dello spazio occupato dal letto e dagli arredi fissi.
Poiché, poi, il periodo di quarantena e quello di detenzione in regime "chiuso" saranno scontati nel medesimo carcere, non è chiaro se lo spazio di 3 metri quadrati disponibile durante la quarantena sia o meno comprensivo di quello occupato dagli arredi fissi e dai letti, non essendo specificato che, nei due periodi, le celle saranno diverse.
Limitatamente al periodo di quarantena e a quello scontato in regime "chiuso" non vi è, quindi, certezza che siano rispettate le condizioni minime individuate dalle Sezioni Unite Commisso, sopra riportate.
4. Alla stregua di tali rilievi, il ricorso deve essere accolto e deve essere disposto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia per nuovo giudizio sul punto, che si uniformi ai principi stabiliti da questa Corte, alla luce delle informazioni integrative già richieste all'autorità rumena.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 22, comma 5, della legge n. 69/2005.
Così deciso il 23 luglio 2025.
Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2025