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Minaccia: il dolo è generico e non rileva il fine perseguito dal soggetto agente (Cassazione penale n.50573/13)


Corte di Cassazione

La massima

L'elemento soggettivo del reato di minaccia si caratterizza per il dolo generico consistente nella cosciente volontà di minacciare un male ingiusto, indipendentemente dal fine avuto di mira (Cassazione penale sez. V, 24/10/2013, n.50573).

Fonte: Ced Cassazione Penale


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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con sentenza del 12.6.2012, a conferma di quella emessa dal Giudice di pace di Milazzo, ha condannato S.F. a pena di giustizia per il reato di minaccia in danno di D.B.A..


Alla base della resa statuizione vi sono le dichiarazioni della persona offesa, giudicate coerenti e credibili, nonchè della teste M.T..


2. Ha presentato personalmente ricorso per Cassazione S. F. avvalendosi di quattro motivi, tutti incentrati sulla violazione di legge e il vizio di motivazione.


Col primo lamenta che i giudici abbiano attribuito credibilità alla persona offesa nonostante tra le parti intercorressero pessimi rapporti di vicinato; che abbiano letto in chiave confermativa (della versione accusatoria) le dichiarazioni di M.T., nonostante la stessa non fosse stata in condizione di percepire le frasi da lui pronunciate; che abbiano ritenuto integrato il reato di minaccia nonostante la lamentata espressione minacciosa non avesse suscitato alcun timore nel destinatario (che, infatti, aggiunge il ricorrente, continuò ad applicarsi alla propria attività).


Col secondo contesta l'idoneità delle espressioni da lui profferite a turbare la libertà psichica della persona offesa, sia per la lettera delle espressioni ("ti faccio saltare e ti faccio vendere la casa e tutto quello che hai") che per le condizioni fisiche di chi le pronunciò (invalido al 100%).


Col terzo contesta la sussistenza dell'elemento psicologico del reato contestato, in quanto "nessun effetto intimidatorio ha sortito la frase incriminata".


Col quarto lamenta che il giudicante abbia errato nell'escludere l'attenuante della provocazione, nonostante i riconosciuti, pessimi rapporti esistenti, da tempo, tra le parti, originati dal fastidio che D.B. arrecava ai coinquilini dell'immobile con la sua attività e dal fatto che il D.B. lo aveva preceduto nell'acquisto di un immobile.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Tutti i motivi di ricorso sono manifestamente infondati, per cui il ricorso va dichiarato inammissibile.


Il controllo di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa si esplica attraverso una valutazione di coerenza e linearità del contenuto, oltre che sulla verifica di assenza di qualsiasi intento calunniatorio. A tali criteri il giudice di merito ha dimostrato di attenersi, tant'è che la motivazione addotta da conto della spontaneità e della coerenza del narrato di D.B.A.. A ciò si è aggiunta la testimonianza di M.T., la quale ha confermato gli elementi di contorno dell'azione delittuosa (i soli che poteva percepire), in ciò riscontrando appieno la versione della persona offesa e smentendo quella dell'imputato: il fatto che il (OMISSIS) l'imputato scattò delle fotografie allo stabile in cui si trovava la macelleria del D. B. e il suo appartamento; il fatto che S. era solo; il fatto che pronunciò delle frasi all'indirizzo del D.B..


La motivazione della sentenza è, quindi, logica ed esaustiva e fa corretta applicazione dei criteri stabiliti da questa Corte in tema di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, ond'è che le critiche mosse sul punto dal ricorrente sono da disattendere nella loro integralità.


Del tutto assertiva, e in contrasto con l'asserita insussistenza del fatto, è, poi, la considerazione che le frasi pronunciate non suscitarono alcun timore nella persona offesa, trattandosi di valutazione soggettiva del ricorrente, che non trova alcun riscontro negli atti processuali (il fatto che D.B. abbia continuato ad applicarsi al proprio lavoro non esclude che sia rimasto turbato dalla minaccia rivoltagli. Peraltro, l'art. 612 c.p. contempla un reato di pericolo, che non viene meno per il fatto che la persona offesa sia particolarmente coriacea), mentre frutto di un inammissibile soggettivismo è l'affermazione che le espressioni fossero inidonee a creare turbamento, per la loro oggettività e per la loro provenienza, in quanto anche un male oscuro, il cui concretizzarsi dipende dalla persona che lo prospetta, è idoneo a realizzare l'offesa tipica che la norma tende a scongiurare.


Peraltro, la concreta idoneità della minaccia a creare turbamento nella persona offesa rappresenta una quaestio facti, la cui valutazione è riservata al giudice del merito e che, nei consueti limiti della ragionevolezza argomentativa, non è censurabile dinanzi al giudice di legittimità. Quanto all'elemento soggettivo, correttamente la Corte d'appello ha rimarcato che è integrato dal dolo generico, consistente nella cosciente volontà di minacciare un male ingiusto, indipendentemente dal fine avuto di mira, e che nelle concrete circostanze del caso il ricorrente era certamente conscio dell'ingiustizia del danno e del turbamento che la minaccia era idonea a creare nel D.B., mentre è inidonea a influire sulla valutazione dell'elemento soggettivo la tautologia difensiva, secondo cui "nessun effetto intimidatorio ha sortito la frase incriminata".


Quanto, infine, alla provocazione, del tutto corretto è l'argomento speso dalla Corte d'appello per negarla, siccome aderente al risalente insegnamento di questa Corte, secondo cui devono ricorrere, per la sua sussistenza, uno stato d'ira ed il fatto ingiusto altrui, tra loro in stretta relazione, mentre nel caso concreto mancano l'uno e l'altro, in quanto, è stato rilevato, "oltre all'accertamento di pregressi rapporti conflittuali tra le parti e alla pendenza di un giudizio civile tra gli stessi, non risulta che l'azione dello S. sia stata cagionata da un evento prossimo e idoneo a innescarla, proveniente dalla parte offesa". Nè il ricorrente segnala altri fatti significativi, pretermessi dal giudicante, salvo appellarsi al "fastidio" arrecato dal D.B. ai coinquilini dell'immobile con la sua attività e al fatto che lo aveva preceduto nell'acquisto di un immobile: circostanze ovviamente ritenute inconsistenti, in quanto prive, per logica e senso comune, del carattere di ingiustizia richiesto dalla norma.


Il ricorso è pertanto inammissibile. Consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di difesa della parte civile, nonchè di una somma a favore della Cassa delle ammende, che, tenuto conto dei motivi di ricorso, si reputa equo quantificare in Euro 1.000.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 a favore della Cassa delle ammende, nonchè al rimborso delle spese di parte civile liquidate in complessivi Euro 1.000, oltre accessori come per legge.


Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2013.


Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2013

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