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Omicidio colposo: il giudizio contro fattuale richiede il preliminare accertamento di ciò che è naturalisticamente accaduto

In tema di nesso di causalità, il giudizio controfattuale, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, ove eseguita, avrebbe potuto evitare l'evento, richiede il preliminare accertamento di ciò che è naturalisticamente accaduto (cd. giudizio esplicativo), al fine di verificare, sulla base di tale ricostruzione, se la condotta omessa può valutarsi come adeguatamente e causalmente decisiva in relazione all'evitabilità dell'evento, ovvero alla sua verificazione in epoca significativamente posteriore. (In applicazione del principio la Corte ha ritenuto corretta l'esclusione della responsabilità del medico di guardia in pronto soccorso per aver omesso di sottoporre ad un completo esame obiettivo un paziente ricoverato con diagnosi di sospetta pancreatite acuta, poi deceduto, non essendo stata individuata con certezza, alla luce dei dati riportati nella cartella clinica e dell'esame autoptico, l'origine del versamento sieroemorragico in cavità peritoneale, causa immediata della morte).

Cassazione penale , sez. IV , 12/11/2021 , n. 416

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 21/1/2019 la Corte di Appello di Roma, sull'appello proposto dalle parti civili, confermava la sentenza con cui in data 27/9/2011 il Tribunale di Velletri - sezione distaccata di Albano Laziale - aveva assolto perché il fatto non sussiste, respingendo di conseguenza le domande risarcitorie delle parti civili, A.A. dal reato p. e p. dall'art. 589 c.p. perché, nelle rispettive qualità l' A. di medico di guardia al Pronto Soccorso dell'ospedale Civile di Albano e il B. di medico di guardia interdivisionale del medesimo nosocomio, per colpa professionale consistita in imprudenza, negligenza e imperizia - avendo l' A. omesso di sottoporre il paziente A.M. ad un completo esame obiettivo tale da favorire una migliore diagnosi di ingresso all'atto dell'accesso al Pronto Soccorso, ed avendo il B. omesso di prescrivere al predetto paziente, non appena ricoverato al Reparto di Chirurgia, un tempestivo controllo elettro - cardiografico nonché un controllo ecografico dell'addome all'atto della evidenziazione di un probabile quadro di pancreatite acuta, concorrevano a cagionare la morte di A.M., il quale, giunto all'ospedale di Albano alle ore 22.21 del (OMISSIS), decedeva alle ore 2:50 a seguito di shock irreversibile da cardio-depressione e vaso-plagia sistemica in soggetto con cirrosi micro-nodulare avanzata in corso di scompenso ascitico; in (OMISSIS).


R. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del comune difensore di fiducia, le parti civili C.A. e A.C., deducendo, quale unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, la violazione dell'art. 40 c.p., nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'intervenuta conferma della sentenza di assoluzione dell' A. per difetto del rapporto di causalità fra le sue condotte colpose e l'evento.


La Corte territoriale -ci si duole- ha integralmente confermato la sentenza di primo grado, basandosi sull'assunto che, nel caso di specie, non fosse possibile ravvisare con certezza nella condotta omissiva dell'imputato (ritenuta senz'altro imprudente, negligente e imperita da entrambe le sentenze e da tutti i consulenti tecnici coinvolti nell'esame della vicenda) la causa dell'evento morte.


I giudici del gravame del merito, in particolare, hanno avuto modo di affermare che "in nessuna delle relazioni tecniche redatte dai professionisti incaricati sia stata rilevata con certezza la causa dell'importante versamento sieroemorragico in cavità peritoneale che aveva costituito la causa ultima del decesso di A.M.". Di qui la conclusione che non fosse possibile "formulare, al di là di ogni ragionevole dubbio, un giudizio di rimprovero penalmente rilevante nella condotta professionale dell'imputato", giacché "nel caso in esame, la possibilità che, pur in presenza del comportamento alternativo lecito, l'evento-morte si verificasse lo stesso era concreta" (cfr. p. 5 della sentenza impugnata).


Sarebbe evidente tuttavia l'illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui essa, contraddicendo apertamente la suddetta premessa - ossia che "in nessuna delle relazioni tecniche redatte dai professionisti incaricati sia stata rilevata con certezza la causa dell'importante versamento sieroemorragico in cavità peritoneale che aveva costituito la causa ultima del decesso di A.M." -, fonda la decisione di assoluzione dell'imputato sull'affermazione, evidentemente destituita di qualsiasi sostegno medico-legale da parte delle perizie e delle consulenze tecniche effettuate, che la "causa più verosimile del versamento" e, dunque, del decesso, debba ritenersi "la pancreatite acuta".


Se anche infatti tale ipotesi è stata astrattamente considerata dai c.t. del P.M. e dell'imputato, essi stessi hanno dovuto ammettere, così come ha riconosciuto anche la Corte di merito, che essa è del tutto sfornita di riscontri probatori (entrambi i c.t. evidenziavano, infatti, la completa mancanza di dati di laboratorio e di conferme autoptiche in tal senso).


Tale ipotesi, del resto, risulterebbe altresì contraddetta da una serie cospicua di dati e di circostanze che le parti civili ricorrenti affermano di non avere mancato di mettere in evidenza nell'atto di gravame nel merito e con i quali ci si duole che la sentenza impugnata non si sarebbe confrontata, in primo luogo omettendo di considerare un dato di per sé dirimente per escludere recisamente l'ipotesi che potesse essere stata una pancreatite acuta a determinare il decesso dell' A.: il dato cioè che le amilasi - che nelle pancreatiti aumentano in modo vertiginoso erano invece nella norma. Dato rilevantissimo, puntualmente valorizzato nell'atto di gravame (pp. 7 e 10), e con il quale la sentenza avrebbe dovuto perciò adeguatamente confrontarsi.


Il suddetto dato - prosegue il ricorso- era stato evidenziato del resto pure dal c.t. del p.m. e dallo stesso imputato in sede d'esame. Il primo aveva rilevato come i dati di laboratorio non fossero affatto in grado di supportare la sua ipotesi; il secondo, come puntualmente rimarcato nell'atto di gravame, su domanda del difensore della parte civile, aveva risposto chiaramente che non c'erano indicazioni forti per la pancreatite, poiché dall'analisi compiuta "sulle amilasi per vedere se fossero alterate, perché la amilasi è una diretta diciamo spia della funzionalità pancreatica", queste erano risultate essere perfettamente nella norma.


La Corte territoriale ometterebbe di motivare sul punto, pervenendo alla contraddittoria conclusione che "la causa più verosimile del versamento deve ritenersi la pancreatite acuta" ed incorrendo perciò in un evidente vizio di motivazione.


Per le parti civili ricorrenti, ammesso e non concesso che la causa più probabile del decesso fosse la pancreatite acuta, la sentenza impugnata avrebbe dovuto quantomeno spiegare come fosse possibile superare sul piano logico e scientifico il dato suddetto, chiaramente incompatibile con una diagnosi di pancreatite acuta. Ciò, tanto più ove si consideri che anche altri gli indici - puntualmente evidenziati nell'atto di gravame e ancora una volta del tutto trascurati dalla sentenza impugnata - deponevano per l'esclusione della pancreatite come causa del decesso.


La sentenza impugnata - ci si duole- ha in particolare ritenuto "assolutamente non convincente" l'affermazione con cui il perito del GUP ha escluso che causa del decesso potesse essere proprio una pancreatite acuta.


Quest'ultimo - si legge in ricorso- aveva invero condivisibilmente osservato che l'esame autoptico non aveva evidenziato la sussistenza di segni macroscopici di danno pancreatico.


La sentenza impugnata affermerebbe illogicamente che tale ultima conclusione deve ritenersi non convincente, giacché, "in sede di autopsia, non ha costituito oggetto di apposita indagine proprio il pancreas". Ora, è vero che durante l'esame autoptico il pancreas non ha "costituito oggetto di apposita indagine" (come rilevato dalla sentenza d'appello a p. 5), ma proprio in quanto lo stesso si presentava, già ad un'osservazione esterna, ictu oculi, in buone condizioni, laddove se fosse stato invece "compromesso" dall'ipotizzata "pancreatite acuta, sarebbe stato visibilmente gonfio ed emorragico". Lungi dal falsificare l'esclusione della pancreatite acuta come causa del decesso, il fatto che il pancreas non fosse stato fatto oggetto di apposita e specifica indagine, in quanto in buone condizioni, non faceva altro che corroborarla. Trattasi di circostanza che si era già messa ampiamente in evidenza nell'atto di gravame (p. 8) e con cui la sentenza impugnata ha ancora una volta omesso di confrontarsi adeguatamente.


La sentenza impugnata, oltretutto, omette di considerare, altresì, che l'affermazione che l'esame autoptico non ha evidenziato la sussistenza di segni macroscopici di danno pancreatico non potrebbe comunque ritenersi falsificata dal solo fatto che l'esame del medico legale non abbia interessato specificamente il pancreas. Invero, come dichiarato dall'imputato in sede d'esame (con affermazioni che si erano ben evidenziate nell'atto di gravame: cfr. pp 9 ss.), "se c'e' una pancreatite nella diretta addome ci sono quelle che si chiamano anse sentinella, cioè l'intestino intorno alla pancreatite modifica la sua struttura". Una simile modificazione della conformazione dell'intestino sarebbe senz'altro balzata immediatamente agli occhi dell'anatomopatologo chiamato ad eseguire l'autopsia.


Anche ammesso, perciò, che, come ritenuto dalla sentenza impugnata - aderendo ai rilievi effettuati dal c.t. del PM sul punto - la mancata rilevazione delle anse sentinella nel corso dell'esame radiografico delle 22.21 non valesse di per sé sola ad escludere una pancreatite acuta, che ben avrebbe potuto insorgere dopo quell'esame (cfr. p. 5 della sentenza impugnata), è certo che se la pancreatite vi fosse effettivamente stata, le anse sentinella e la conseguente modificazione della struttura dell'intestino si sarebbero dovute perlomeno riscontrare al momento dell'autopsia. Non risulta, invece, prosegue il ricorso, che l'autopsia abbia evidenziato nulla di tutto ciò, limitandosi a ravvisare la causa del decesso in un "imponente versamento siero emorragico in cavità peritoneale, un modesto versamento sieroso in cavità pleurica sinistra e più marcata a destra su cirrosi epatica micro macro-nodulare, con piccolo focolai di broncopolmonite basale bilaterale, nonché un modesto edema polmonare ed un'anemia multiviscerale" (cfr. p. 3 della sentenza d'appello).


Dunque, alla luce dei dati probatori emersi, che ben si erano evidenziati nell'atto di gravame e che la Corte d'Appello avrebbe del tutto omesso di valutare, per il difensore ricorrente l'ipotesi della pancreatite acuta, lungi dal potersi ritenere "la causa più verosimile del versamento" (affermazione questa più volte ribadita dalla Corte del merito, in maniera del tutto illogica, essendo palesemente sfornita di un'argomentazione di sostegno), sembrerebbe invece l'unica suscettibile di essere esclusa con relativa certezza.


Stando così le cose, palesemente illogica e contraddittoria apparirebbe pure la conclusione ultima cui la sentenza impugnata perviene: che "in ragione della estrema complessità della situazione patologica del paziente e della mancanza di necessarie informazioni non fornite dall'esame autoptico (non più utilmente acquisibili in ragione del tempo trascorso), neanche è possibile, in sede di giudizio controfattuale, accertare, con alto grado di credibilità logica e razionale, che gli adempimenti omessi dal medico di pronto soccorso, odierno imputato, ovvero un completo esame obiettivo, avrebbero consentito di acquisire delle informazioni sul paziente (versamento addominale e pleurico) utili a praticare interventi salvifici, anche se temporanei (paracentesi)".


Per le parti civili ricorrenti, che l'imputato abbia omesso di compiere qualsiasi tipo di accertamento diagnostico, persino il più banale e routinario, è un dato su cui convengono tutti i consulenti tecnici e persino la sentenza impugnata. Allo stesso modo, non si potrebbe controvertere sul fatto che gli accertamenti omessi, se compiuti, senz'altro "avrebbero consentito di acquisire delle informazioni sul paziente (versamento addominale e pleurico) utili a praticare interventi".


Il punto su cui la sentenza d'appello e ancor prima quella di primo grado insistono in maniera particolarmente pervicace - ci si duole- e', però, l'impossibilità di muovere, "al di là di ogni ragionevole dubbio", un rimprovero all'imputato per la condotta dallo stesso tenuta, collegando quest'ultima, dal punto di vista eziologico, all'evento morte: a giudizio della Corte del merito non può dirsi che il comportamento alternativo lecito omesso dall'imputato (in breve l'esecuzione degli esami diagnostici non compiuti e i trattamenti che si sarebbero resi necessari all'esito degli stessi) avrebbe con certezza escluso l'esito mortale della malattia in atto (quale che fosse) o contribuito a migliorare, seppur temporaneamente, le condizioni di salute del paziente.


Si tratta di un'affermazione che, come è evidente, può avere un senso (in realtà a dir poco esiguo) soltanto se si parte dall'assunto che la causa del decesso sia stata, con assoluta e indiscussa certezza, una pancreatite acuta, trattandosi di patologia gravissima dall'esito per lo più infausto. Ossia il presupposto implicito e indimostrato da cui hanno indubbiamente preso le mosse i Giudici chiamati a pronunciarsi sul caso di specie in primo e secondo grado.


Se però si esclude che la causa del decesso possa essere stata proprio quella pancreatite fulminante ipotizzata dai consulenti tecnici del p.m. e dell'imputato (che tra tutte le ipotesi formulate appare semmai, come visto, l'unica del tutto sfornita di prove a sostegno, e finanche contraddetta dalle emergenze probatorie in atti: lo si era già evidenziato nell'atto di gravame), non ci si può non avvedere di come gli accertamenti omessi avrebbero senz'altro aiutato a diagnosticare con precisione la patologia da trattare, con esiti salvifici.


Il perito del GUP, in effetti, si legge ancora in ricorso, aveva correttamente sottolineato come una paracentesi associata a trattamento diuretico e ad un adeguato sostegno farmacologico avrebbe consentito una modificazione dell'iter, anche se temporanea, che ha condotto alla morte del paziente.


La Corte del merito sarebbe contraddittoriamente pervenuta al superamento di questa argomentazione affermando che: "non sono espressi, in chiari e inequivoci termini, le modalità della modificazione dell'iter, se cioè detta modificazione valesse a ritardare significativamente l'evento morte con decorso migliorativo, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa. Ma soprattutto dette conclusioni sono palesemente contraddette dal parere del consulente del P.M., secondo cui l'evacuazione, anche parziale, del liquido ascitico in un grave cirrotico tende ad accelerare i meccanismi di scompenso metabolico per l'improvvisa sottrazione di materiale comunque ricco di sali e proteine".


L'argomentazione, però, oltre ad essere palesemente illogica e contraddittoria, ometterebbe di considerare alcuni dati significativi.


Sarebbe contraddittoria e illogica, poiché fa leva sul solo dato - evidenziato dal c.t. del P.M. - che la "paracentesi" fosse trattamento "rischioso" per i pazienti cirrotici, al fine di escludere che gli accertamenti diagnostici omessi, se compiuti, avrebbero avuto con relativa certezza esiti salvifici. Ciò che si imputa all' A. non è di aver omesso di effettuare la "paracentesi" tout court, ma di avere omesso accertamenti diagnostici essenziali che gli avrebbero consentito di diagnosticare la patologia da trattare e come trattarla nel migliore dei modi.


Non sarebbe vero, perciò, che le conclusioni del perito del GUP possano dirsi "palesemente contraddette dal parere del consulente del P.M., secondo cui l'evacuazione, anche parziale, del liquido ascitico in un grave cirrotico tende ad accelerare i meccanismi di scompenso metabolico per l'improvvisa sottrazione di materiale comunque ricco di sali e proteine".


Se l'imputato avesse compiuto i necessari accertamenti, si sostiene in ricorso, avrebbe senz'altro potuto avvedersi della cirrosi del paziente, eseguire la paracentesi e controbilanciare un eventuale scompenso metabolico dovuto alla "improvvisa sottrazione di materiale comunque ricco di sali e proteine" con le terapie più adeguate.


La sentenza ometterebbe di considerare, poi, che l'imputato, lungi dall'essersi limitato ad omettere di effettuare una paracentesi, ha omesso di effettuare ogni tipo di terapia utile alla cura del paziente, finanche quella intensiva (che avrebbe senz'altro evitato il trapasso: come evidenziato nell'atto d'appello a p. 4).


La stessa sentenza, infine, glisserebbe pure sul fatto che l' A., lungi dall'essersi limitato ad un comportamento omissivo, ad un "non fare", omettendo di eseguire i necessari accertamenti diagnostici e, conseguentemente, anche gli interventi salvifici che si sarebbero resi necessari, ha altresì tenuto una condotta attiva, prescrivendo e somministrando (in assenza degli opportuni accertamenti) farmaci che si sono alla fine dimostrati controproducenti (v. p. 14 della c.t. di parte a cura del Prof. Gioffre', p. 10 della relazione del Prof. Arbarello e pp. 4 e 6 dell'atto d'appello).


Così facendo lo stesso ha evidentemente finito con l'introdurre un fattore di rischio ulteriore per il paziente, prima inesistente, accelerando il decorso causale che lo ha condotto alla morte. D'altra parte, era stato lo stesso c.t. del P.M., a p. 14 della consulenza cui la sentenza d'appello ha più volte mostrato di volersi rifare, ad evidenziare che "pur senza un quadro clinico più definito, veniva prescritto (...) del Buscopan, miorilassante della muscolatura liscia, un farmaco che nel caso appariva egualmente non appropriato data la giù descritta peristalsi torpida".


Tutti questi dati erano stati puntualmente evidenziati nell'atto di gravame. Anche sotto questo profilo, perciò, la sentenza appare illogica e carente, avendo del tutto omesso di confrontarsi con gli stessi, ed essendosi invece limitata a svolgere talune contradditorie e sterili considerazioni in proposito.


Le ppcc ricorrenti chiedono, pertanto, l'annullamento della impugnata sentenza con tutte le conseguenti statuizioni.


3. Nei termini di legge hanno rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8), il P.G., che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi e il difensore delle parti civili ricorrenti, che ha insistito per l'accoglimento degli stessi.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi sopra illustrati in punto di responsabilità civile dell'imputato sono tutti manifestamente infondati, essendo peraltro per lo più ripropositivi di questioni meramente fattuali già articolatamente confutate nei due gradi di merito e, pertanto, i ricorsi proposti dalle parti civili vanno dichiarati inammissibili.


2. I fatti, per come ricostruiti nelle sentenze di merito, sono incontestati.


In data 18/9/2002, l' A. veniva, colto da forti dolori addominali e, a seguito dell'aggravamento della sintomatologia, tra cui l'aumento di volume dello stomaco, verso le ore 22.21, si recava al Pronto Soccorso di Albano a bordo dell'auto-ambulanza: i familiari esponevano ai sanitari la sintomatologia della vittima e i precedenti interventi subiti. Ivi, il paziente veniva affidato all' A., medico di guardia di turno quel giorno, che, dopo aver disposto un controllo radiografico al torace, una radiografia diretta dell'addome e alcuni esami ematochimici, dimetteva l' A. dal proprio reparto e lo inviava alla Divisione Chirurgica, omettendo di formulare una diagnosi differenziale. Diagnosi che, date le circostanze, era invece richiesta: l'imputato dichiarava di aver esplicitato al collega B. che si trattava di "pancreatite acuta", ma di questo non vi era alcun riscontro probatorio.


Arrivato presso la Divisione Chirurgica alle ore 23 circa, il paziente veniva accolto con la diagnosi di sindrome dolorosa addominale ma, una volta arrivate le analisi disposte in precedenza dall' A., le condizioni dell' A. già risultavano critiche (ore 23.30).


Alle ore 23.55 veniva richiesta una consulenza anestesiologica e una RX al torace, urgente: nonostante il posizionamento del catetere venoso, la terapia idroelettrica di supporto cardio-circolatorio e il monitoraggio costante della pressione arteriosa, i sanitari constatavano il decesso dell' A. alle ore 2.50 del (OMISSIS).


L'autopsia, eseguita il 21.9.2002, evidenziava la "presenza di un importante versamento siero emorragico in cavità peritoneale, un modesto versamento sieroso in cavità pleurico e più marcata a destra su cirrosi epatica micro macro-nodulare, con piccoli focolai di bronco-polmonite basale bilaterale, nonché un modesto edema polmonare ed un'anemia multi-viscerale".


Il consulente tecnico di parte civile e il perito nominato dal GUP non erano in grado di affermare con certezza quale patologia aveva innescato l'imponente emorragia suddetta.


Tuttavia, all' A. veniva mosso il rimprovero di aver omesso di effettuare un esame obiettivo sull'addome e sul torace del paziente, che ben avrebbe potuto consentirgli di riconoscere la presenza del versamento (sarebbe stato sufficiente eseguire la manovra di routine della percussione) e di disporre prontamente un intervento di para-centesi (ossia di asportazione del liquido).


Alla luce delle consulenze sopra ricordate veniva ipotizzata la penale responsabilità dell'imputato in quanto avrebbe accelerato l'evento morte con una condotta omissiva equivaleva a cagionarlo.


Tuttavia, già il primo giudice non aveva ravvisato, con certezza, nella condotta omissiva dell'imputato la causa dell'evento morte sul rilievo che, dalle consulenze tecniche della difesa e del PM, era emerso che, data la pancreatite acuta di cui soffriva il paziente, quale causa più probabile del decesso del paziente stesso, un tempestivo intervento di para-centesi non avrebbe evitato l'evento morte, ma anzi avrebbe aggravato il quadro clinico in atto perché l'evacuazione, anche parziale, del liquido ascitico in un grave cirrotico tende ad accelerare i meccanismi di scompenso metabolico per l'improvvisa sottrazione di materiale comunque ricco di sali e proteine (così nella sentenza di primo grado il richiamo alla relazione del prof. C.).


I suddetti consulenti - aveva osservato il giudice di primo grado- mettevano in evidenza che il versamento ascitico era per sua natura lento e non avrebbe potuto determinare la morte del paziente in poche ore; rimarcavano altresì che la somministrazione salma documentata in diana non aveva in alcun modo contribuito all'aumento del siero (5 litri circa).


Date le considerazioni suesposte, in particolare la mancanza di prova certa della causa della morte del paziente, il giudice di primo grado aveva ritenuto che qualora l' A. avesse disposto l'intervento di paracentesi comunque non si sarebbe garantita la sopravvivenza del paziente per un lasso di tempo sufficientemente apprezzabile; questo anche perché, alla luce dei dati acquisiti, la causa ragionevolmente più probabile del decesso dovesse ricercarsi nella pancreatite acuta.


3. A fronte della confermata assoluzione anche in appello - va evidenziato da subito- le parte civili ricorrenti oggi chiedono a questa Corte di legittimità. In concreto, una nuova valutazione dell'esistenza di una responsabilità dell'imputato nel prodursi dell'evento dannoso, ai fini di un'affermazione di responsabilità civile e quindi propongono un motivo di fatto in quanto tale non scrutinabile in questa sede di legittimità.


Questa Corte ha chiarito in più occasioni come non possa dubitarsi che, in tema di nesso di causalità, il giudizio controfattuale - imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, o, in ipotesi di condotta commis-siva, l'assenza della condotta commissiva vietata, avrebbe potuto evitare l'evento (cd. giudizio predittivo) richieda preliminarmente l'accertamento di ciò che è effettivamente accaduto (cd. giudizio esplicativo) per il quale la certezza processuale deve essere raggiunta (cfr. ex multis Sez. 4, n. 23339 del 31/1/2013, Giusti, Rv. 256941 che, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione del giudice di appello che aveva affermato la responsabilità di un medico per avere, sulla base di un'errata interpretazione del tracciato cardiografico del feto, ritardato il parto con taglio cesareo, causandone il decesso, ritenendo non provato il momento di insorgenza della sofferenza fetale e, quindi, la circostanza che il feto potesse essere salvato nel momento in cui gli esami vennero sottoposti all'attenzione del medico, se quest'ultimo fosse tempestivamente intervenuto; conf. Sez. 4 n. 34296 dell'8/5/2015, Dolce, non mass.; 39445/2016).


Già in precedenza, peraltro, questa Corte di legittimità aveva affermato che in tema di responsabilità medica, ai fini dell'accertamento del nesso di causalità è necessario individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell'evento, in quanto solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l'analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l'evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012 Albiero ed altri Rv. 255008).


Dunque, con condivisibile ragionamento logico-giuridico, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità fissa una regola ermeneutica di indubbia esattezza: in materia di reato omissivo improprio, ancor prima di applicare il c.d. giudizio controfattuale, è necessario individuare con precisione quanto effettivamente è naturalisticamente accaduto, al fine di verificare, su siffatta incontrovertibile ricostruzione, se la identificazione di una condotta omessa possa valutarsi come adeguatamente e causalmente decisiva in relazione alla evitabilità dell'evento, ovvero alla sua verificazione in epoca significativamente posteriore.


4. Orbene, tali verifiche risultano operate nel caso di specie. Ma non hanno portato risposte certe.


La Corte territoriale ricorda che l'accertamento autoptico condotto su A.M. evidenziava la presenza di un importante versamento siero emorragico in cavità peritoneale, un modesto versamento sieroso in cavità pleurica sinistra e più marcata a destra su cirrosi epatica micro macronodulare, con piccoli focolai di broncopolmonite basale bilaterale, nonché un modesto edema polmonare ed un'anemia multiviscerale. E come le relazioni tecniche dei professionisti incaricati nell'ambito del procedimento (c.t. del P.M., c.t. delle parti civili, c.t. della difesa dell'imputato, perizia disposta dal G.U.P), seppur tutte rilevando una carenza di indagini da parte dei sanitari ai fini della diagnosi iniziale, non siano state in grado di discernere la scaturigine del versamento sieroemorragico accertato in sede autoptica, non disponendo di una serie di informazioni non rilevate nell'autopsia, individuando tuttavia nello shock irreversibile da cardiodepressione e vasoplegia sistemica in soggetto con cirrosi micronodulare avanzata in corso di scompenso ascitico la causa immediata del decesso di A.M..


In particolare, ricorda la sentenza impugnata che il c.t. del P.M. ha ipotizzato, in ragione della sintomatologia presentata in un arco di tempo di circa 8 ore, di cui 4 trascorse in ospedale, l'insorgenza di una pancreatite acuta in un soggetto con grave cirrosi, comunque evidenziando la mancanza di dati di laboratorio e di riscontro autoptico in tal senso, non essendo stato esaminato il pancreas. E, pur evidenziando il non corretto comportamento professionale, a tratti imprudente, a tratti imperito sia del medico di pronto soccorso, sia del medico di guardia in reparto, ha concluso che il gravissimo quadro clinico che il paziente presentava, evoluto drammaticamente e rapidamente nel giro di quattro ore (come di norma accade nelle pancreatiti acute), rendeva molto scarse, se non nulle, le possibilità di prevenire efficacemente l'esito finale.


La sentenza dà atto che anche il c.t. della difesa dell'imputato, nell'evidenziare che l'indagine autoptica aveva accertato la presenza di un imponente versamento sieroemorragico in cavità peritoneale, rilevava come la stessa indagine non avesse tuttavia fornito alcuna prova circa l'origine ditale importante versamento. Ipotizzava anch'egli, tra le varie cause del versamento peritoneale sieroemorragico, che la più probabile era costituita da una pancreatite acuta necrotico-emorragica, non avendo costituito oggetto di esame il pancreas e non essendo state evidenziate rotture viscerali, perforazioni o lacerazioni vascolari negli organi esaminati (fegato, milza, rene e parete intestinale). L'ulteriore conseguenza era che, anche qualora quest'ultima fosse stata diagnosticata precocemente, la prognosi quoad vitam non sarebbe stata migliore, perché detta patologia era caratterizzata da una elevatissima mortalità.


E anche il perito nominato dal G.U.P. - come ricordano i giudici del gravame del merito- premetteva che i dati forniti dalla cartella clinica e dal successivo riscontro diagnostico erano estremamente scarsi e non consentivano di porre una diagnosì certa di causa della morte. Tuttavia, riteneva di escludere che l'imponente presenza di un versamento ascitico siero emorragico in cavità peritoneale potesse dipendere da una pancreatite, non essendo stati evidenziati segni macroscopici di danno pancreatico in sede di riscontro autoptico. L'ipotesi diagnostica più verosimile era, a suo avviso, quella di un decesso causato da insufficienza cardiocircolatoria acuta da shock ipovolemico secondario all'imponente versamento siero emorragico in addome e sieroso pleurico bilateralmente. Riteneva censurabile l'operato dei sanitari che avevano avuto in cura il paziente, non avendo costoro posto in essere quelle routinarie manovre cliniche e quelle indagini strumentali e di laboratorio che avrebbero consentito una diagnosi differenziale, sulla cui base attuare una doverosa paracentesi che, associata a trattamento diuretico e ad adeguato sostegno farmacologico di correzione delle alterazioni ematochimiche, avrebbe avuto la duplice funzione di migliorare la situazione addominale e respiratoria e di chiarire l'origine dell'ascite il cui trattamento avrebbe migliorato la sintomatologia ed evidenziato la presenza di una componente emorragica deponente per un sospetto di CID (coagulazione intravascolare disseminata).


La sentenza impugnata dà anche atto che il c.t. delle parti civili, dopo aver enucleato tutta una serie di profili di censura a carico dei sanitari del pronto soccorso (non essendo stati eseguiti la percussione e l'esame obiettivo del torace) e dei sanitari del reparto di chirurgia (erano mancati una visita completa, un'ecografia dell'addome, la paracentesi che avrebbe chiarito l'origine dell'ascite, nonché ulteriori analisi della coagulazione del paziente in considerazione della grave anemia emersa; la somministrazione di liquidi era stata controproducente, non era stato inserito un catetere in vescica, era stato omesso un elettrocardiogramma, non erano stati rilevati i valori pressori e della frequenza cardiaca, non era stata eseguita terapia di sostegno farmacologico, non era stato infine fronteggiato l'improvviso peggioramento del quadro clinico), riteneva sussistenti profili di negligenza e di imperizia nella condotta dei sanitari predetti.


Ebbene, operando una corretta ed esaustiva disamina del sapere scientifico introdotto nel processo, la Corte capitolina ribadisce come in nessuna delle relazioni tecniche redatte dai professionisti incaricati sia stata rilevata con certezza la causa dell'importante versamento sieroemorragico in cavità peritoneale che aveva costituito la causa ultima del decesso di A.M., circostanza che non consente di poter formulare, al di là di ogni ragionevole dubbio, un giudizio di rimprovero penalmente rilevante nella condotta professionale dell'imputato.


Ciò in quanto, se i consulenti del P.M. e della difesa dell'imputato ritengono come verosimile causa di tale importante versamento una pancreatite acuta, il perito del G.U.P. esclude tale evenienza con affermazione che la Corte ritiene assolutamente non convincente: afferma cioè che non vi sarebbero evidenze di segni macroscopici di danno pancreatico al riscontro autoptico quando, invece, in sede di autopsia, non ha costituito oggetto di apposita indagine proprio il pancreas.


Per i giudici del gravame del merito, inoltre, per nulla persuasiva è l'affermazione finale del perito del G.U.P. secondo cui una paracentesi associata a trattamento diuretico e ad adeguato sostegno farmacologio) avrebbe consentito una modificazione dell'iter, anche se temporanea. Invero, rileva la Corte territoriale che, innanzitutto, non sono espressi, in chiari e inequivoci termini, le modalità della modificazione dell'Iter, se cioè detta modificazione valesse a ritardare significativamente l'evento morte con decorso migliorativo, anche sotto il solo profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa. Ma soprattutto dette conclusioni sono palesemente contraddette dal parere del consulente del P.M., secondo cui l'evacuazione, anche parziale, del liquido ascitico in un grave cirrotico tende ad accelerare i meccanismi di scompenso metabolico per l'improvvisa sottrazione di materiale comunque ricco di sali e proteine.


Per altro verso, viene rilevato che neppure può escludersi (e quindi non è che la si afferma, come si sostiene in ricorso) la pancreatite, per la mancanza di rilevazione di aria nelle anse addominali nel referto radiografico delle ore 22.21, posto che - come scrive il consulente del P.M. - l'incremento evidentissimo del volume dell'addome si verifica nella specie quando il paziente era già in reparto di chirurgia e dunque dopo circa un'ora dall'esame radiografico.


Coerente con tali premesse e priva di aporie logiche appare, pertanto, la conclusione dei giudici di appello secondo cui, alla stregua dei dati emergenti dalla cartella clinica e dall'esame autoptico, non potendosi individuare con certezza la causa dell'importante versamento sieroemorragico in cavità peritoneale che ha costituito la causa immediata del decesso di A.M., in ragione della estrema complessità della situazione patologica del paziente e della mancanza di necessarie informazioni non fornite dall'esame autoptico (non più utilmente acquisibili in ragione del tempo trascorso), neanche è possibile, in sede di giudizio con-trofattuale, accertare, con alto grado di credibilità logica e razionale, che gli adempimenti omessi del medico di pronto soccorso, odierno imputato, ovvero un completo esame obiettivo, avrebbero consentito di acquisire delle informazioni sul paziente (versamento addominale e pleurico) utili a praticare interventi salvifici, anche se temporanei (parecentesi), anche perché la causa più verosimile del versamento deve ritenersi la pancreatite acuta, mentre la paracentesi in soggetto cirrotico tende - come anticipato - ad accelerare i meccanismi di scompenso metabolico per l'improvvisa sottrazione di materiale comunque ricco di sali e proteine.


5. Dunque, a decisione dei giudici del gravame del merito che non vi fossero elementi atti a sovvertire quelle che erano state state le conclusioni del giudice di primo grado, appare immune dai denunciati vizi di legittimità.


Non va trascurato, peraltro, come non ha fatto la Corte, che per la riforma di una decisione assolutoria, occorre la c.d. motivazione rafforzata, non è sufficiente cioè una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto.


Com'e' stato analiticamente affermato in un condivisibile arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. il 12/1/2015, Di Vincenzo, Rv. 261556) la radicale riforma, in appello, di una sentenza di assoluzione, non può essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, ma debba fondarsi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineatasi situazione conflitto valutativo delle prove.


Ed è stato condivisibilmente affermato, sul punto - e va qui ribadito- che: "...la decisione del giudice di appello, che comporti la totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa, convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati... Il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha dunque l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, -ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti" (Sez. 3, n. 19322 del 20/01/2015, Ruggeri, Rv. 263513, in motivazione).


Va ricordato, infatti, che il giudizio di condanna presuppone la certezza processuale della colpevolezza, mentre all'assoluzione deve pervenirsi in tutti quei casi in cui vi sia la semplice "non certezza" - e, dunque, anche il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza (cos ex plurimis Sez. 6, n. 20656 del 22/11/2011, dep. il 2012, De Gennaro ed altro, Rv. 252627; Sez. 3, n. 42007 del 27/9/2012, M. e altro, Rv. 253605).


Nello specifico, il principio in ragione del quale la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto "se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio", formalmente introdotto nell'art. 533 c.p.p., comma 1, dalla L. n. 46 del 2006, "presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l'eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza" (Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 251066, e n. 4996 del 26/10/2011, dep. il 2012, Abbate ed altro, rv 251782).


6. Perché potesse riformare in appello di una assoluzione deliberata in primo grado non sarebbe stato sufficiente, pertanto, prospettare una ricostruzione dei fatti connotata da uguale plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, bensì era necessario che la ricostruzione in ipotesi destinata a legittimare - in riforma della precedente assoluzione - la sentenza di condanna sia dotata di "una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza" (così la citata sez. 2 n. 677/2015).


Ebbene, se questi sono i principi giuridici di riferimento, la Corte capitolina ha fatto buon governo degli stessi, riconoscendo che non vi erano le condizioni per ribaltare il verdetto assolutorio favorevole all'imputato.


7. Essendo i ricorsi inammissibile e, a norma dell'art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna delle parti civili ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le parti civili ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuna in favore della Cassa delle Ammende.


Così deciso in Roma, il 12 novembre 2021.


Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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