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Omicidio colposo: Il nesso di causalità di uno dei soggetti titolari di posizione di garanzia non viene meno per effetto il mancato intervento di un altro garante

In tema di omicidio colposo, allorquando l'obbligo di impedire l'evento ricada su più persone, che debbano intervenire od intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra l'evento letale e la condotta omissiva o commissiva di uno dei soggetti titolari di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento di un altro garante, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell' art. 41, comma primo, cod. pen. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la valutazione del giudice di merito che aveva considerato un operatore socio sanitario responsabile della morte di un degente affetto da disfagia, intervenuta per ipossia da bolo alimentare, a lui affidato per la sorveglianza durante la somministrazione dei pasti, nonostante la presenza di altri due operatori impegnati nei compiti di distribuzione di cibo e farmaci agli altri pazienti).

Cassazione penale , sez. IV , 02/02/2022 , n. 17887

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'appello di Milano ha confermato la pronuncia di condanna alla pena di mesi dieci di reclusione emessa dal Tribunale di Como a carico di B.A. per il reato di omicidio colposo. In parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto l'entità della provvisionale riconosciuta alle parti civili costituite, condannando l'imputato ed il responsabile civile "(OMISSIS)" al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese di rappresentanza nel giudizio di appello delle parti civili, liquidate in via equitativa come da dispositivo.


2. All'imputato, operatore sociosanitario in servizio presso la struttura R.S.D. "(OMISSIS)", era contestato di avere cagionato la morte del degente G.M., ospite della residenza, determinata da arresto cardiocircolatorio da ipossia per bolo alimentare conseguente all'ingestione di cibo. La persona offesa, affetta da ritardo mentale e da grave instabilità motoria, soffriva anche di disfagia, disturbo della deglutizione che imponeva la somministrazione di cibo non solido. In data 8 giugno 2014, dopo essersi alzato da tavola nella sala da pranzo dell'istituto, ove si trovavano altri cinque degenti assistiti da personale della struttura, si recava nel vicino bagno. Ivi era colto da malore e si accasciava a terra. Accanto al corpo disteso erano trovati residui di cibo.


Prontamente soccorso veniva trasportato presso l'ospedale di (OMISSIS) di Como, dove era diagnosticato l'arresto cardiaco da ipossia per bolo alimentare. Lo stato di coma indotto dall'ipossia perdurava per oltre quindici giorni fino all'exitus, avvenuto in data 24 giugno 2014.


I giudici di merito, nelle due sentenze conformi, addebitavano al B., operatore sociosanitario in servizio presso la casa di cura, una condotta negligente e impridente.


Durante la somministrazione dei pasti, momento particolarmente delicato nell'attività di cura del paziente, il quale, come detto sopra, soffriva della patologia indicata, il B. si assentò dalla sala pranzo per mettere nei piatti il cibo.


Nella mensa, l'assistente D.F.F. era intenta a somministrare il cibo ad altro paziente, persona bisognosa di peculiari attenzioni perché incline all'irrefrenabile pulsione di lanciare gli oggetti per aria, e l'infermiera R.S. era intenta alla preparazione ed alla somministrazione delle terapie farmacologiche.


Il B., assentatosi nel momento in cui le colleghe erano particolarmente impegnate nelle attività sopra descritte, mancò di esercitare la dovuta sorveglianza sul paziente G., non impedendo che questi ingurgitasse il boccone di pane che determinò il suo soffocamento.


All'esito del giudizio di primo grado il Tribunale assolveva D.F.F. e R.S. dal reato di omicidio colposo, pervenendo all'affermazione di responsabilità del B..


3. Avverso la decisione della Corte d'appello, ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato, a mezzo del difensore, articolando i seguenti motivi di ricorso.


3.1 Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione laddove viene affermato che l'imputato B. era intento a "scodellare" il cibo nei piatti, secondo i protocolli operativi della R.S.D., e, dall'altro, viene ritenuta la sua responsabilità per imprudenza.


Dopo avere richiamato nelle sue linee essenziali i passaggi motivazionali con cui la Corte d'appello è pervenuta alla conferma della pronuncia di primo grado, la difesa lamenta il vizio della carenza di motivazione, rappresentando come i giudici di merito non abbiano preso posizione in ordine alle plurime e specifiche doglianze contenute nell'impugnazione.


La prima e più significativa carenza viene individuata nella mancata effettuazione di una perizia medico legale, la quale avrebbe potuto fugare, secondo la prospettazione difensiva, i dubbi sul nesso causale tra la condotta ascritta al ricorrente e l'evento morte. La richiesta di perizia, si evidenzia, non era collegata soltanto all'individuazione della causa della morte del G., ma anche a fare chiarezza sulla ricorrenza del nesso di causalità.


La Corte di merito, pur dando per assodata l'assenza di responsabilità delle coimputate, afferma la colpevolezza di B.A. sul presupposto che questi fosse impegnato a "scodellare" il cibo in cucina. Tale ultima circostanza avrebbe dovuto invece indurre ad una conclusione del tutto opposta. Sulla base delle testimonianze acquisite e delle dichiarazioni rese da S.L., sentita all'udienza del 24/6/20, si è chiarito che le modalità di somministrazione dei pasti comportavano una divisione di compiti dei due operatori: era previsto che uno dei due si trovasse in cucina a preparare i pasti e l'altro dovesse sorvegliare i pazienti mentre l'infermiera somministrava le terapie. Logica vuole che la sorveglianza spettasse all'operatore presente nella sala. Inoltre, la responsabilità dell'imputato è fatta discendere dalle dichiarazioni spontanee accusatorie rese dalle due coimputate, la cui valenza probatoria non è piena, non avendo potuto la difesa procedere al loro esame diretto.


Il comportamento colposo addebitato all'imputato viene individuato nell'essersi allontanato mentre l'infermiera e l'altra assitente erano impegnate in attività di cura dei degenti. La Corte d'appello afferma che il B. avrebbe dovuto attendere che la D.F. completasse la somministrazione del pasto al paziente F. prima di allontanarsi. Si esclude l'esimente di cui all'art. 590-sexies, non venendo in considerazione, si legge in motivazione, raccomandazioni prescritte nelle linee guida. Tale conclusione non sarebbe in alcun modo condivisibile: si nega erroneamente l'applicabilità dell'esimente; inoltre non si tiene conto del fatto che il B., recandosi in cucina, aveva adempiuto alle direttive ricevute.


Tale comportamento non solo era doveroso, perché rientrante nelle mansioni e nella prassi operativa prevista dalla struttura, ma era anche l'unico possibile per adempiere alla corretta gestione dei pazienti durante i pasti, stante il ridotto numero di operatori presenti in servizio. A tutto voler concedere sarebbero state le coimputate a dover attendere che tutti i piatti fossero stati "scodellati" e portati dalla cucina in sala da pranzo, prima di iniziare ad effettuare le proprie attività (imboccare i soggetti che non erano in grado di nutrirsi da soli e preparare le terapie).


3.2 Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione laddove si assume che la causa del decesso sia conseguente all'ingestione di cibi solidi e che il pane fosse un alimento vietato; inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale in relazione agli artt. 40,41,43,113,589 e 590 sexies c.p., D.L. n. 158 del 2021, art. 3 e artt. 530 e 603 c.p.p..


Nel capo di imputazione la responsabilità dell'infermiera e dei due operatori socio sanitari per il decesso di G.M. viene ricondotta al fatto che i coimputati "non predisponevano le opportune cautele e/o non lo sorvegliavano per impedirgli di ingerire cibi solidi".


Nella motivazione della sentenza di primo grado il giudice afferma, senza fornire alcuna spiegazione ulteriore: "Altrettanto indubbio, ancorché contestato dalle difese, è che a cagionare l'arresto cardiocircolatorio del G. fu l'indebita ingestione di pane, che egli verosimilmente si procurò sottraendolo ad un vicino di posto...". La motivazione della Corte d'appello prende invece le mosse dalla constatazione che G.M., paziente "disfagico", come da certificato del 19 febbraio 2015, aveva seri problemi alimentari, necessitando di una alimentazione determinata, che non fosse fatta di alimenti solidi. Esaminate quindi alcune delle testimonianze rese nel dibattimento, la Corte d'appello fornisce la propria ricostruzione dei fatti, affermando che " G.M., affetto da disfagia, ricoverato presso la struttura R.S.D. "(OMISSIS) ", quella sera prese dal tavolo del vicino del pane, lo ingoiò con voracità, si alzò dalla sedia e si recò in bagno, dove crollò". In entrambe le sentenze, la causa della morte ed il nesso causale tra condotta omissiva e decesso vengono individuate nella ingestione di pane, senza però che sia individuata la legge scientifica di copertura.


Ebbene, nella cartella clinica predisposta dalla R.S.D. per il degente G.M. (affoliazione pagg. 258 -284 fascicolo del dibattimento) non si rinviene alcuna espressa indicazione del divieto di somministrazione di "cibi solidi" e tantomeno del "pane" (doc. 10 allegato). In nessun passaggio delle motivazioni di entrambe le sentenze di condanna viene spiegato da cosa si tragga il divieto di somministrazione di "cibi solidi" a cui è ricondotta la causa della morte del G.. La carenza delle motivazioni sarebbe evidente, perché l'asserita responsabilità per colpa dell'imputato B.A. viene fatta discendere proprio dalla somministrazione di pane, che è ritenuta la causa determinante della morte del G..


La Corte d'appello ricollega tale divieto al "referto dell'Ospedale (OMISSIS) di Como del (OMISSIS)", il cui testo riporta "valutazione funzionalità deglutitoria in paziente affetto da disfagia neurogena in esiti di ipossia perinatale". Si tratta dell'unico documento medico presente nella cartella clinica che riguarda la disfagia da cui era affetto G.M. (affoliazione pag. 282 del fascicolo del dibattimento, doc. 11 allegato all'atto di impugnazione). Dalle conclusioni del referto specialistico sopra menzionato non si ricava in alcun modo l'indicazione del divieto (assunto quale prova del nesso causale del decesso di G.M.) di somministrare "cibi solidi" e tantomeno di somministrare "pane".


Nelle conclusioni del documento, infatti, si legge esattamente il contrario: "si consiglia alimentazione per os con cibi di consistenza semisolida e solida morbida omogenea, evitando alimenti a doppia consistenza nei quali la parte solida è mescolata con quella liquida e cibi secchi friabili, carni e verdure filacciose...".


I "cibi solidi" (benché a consistenza morbida omogenea e non a doppia consistenza), sulla base di quanto indicato nella certificazione, erano pacificamente consentiti, purché a consistenza "morbida omogenea".


Negli atti del processo non si chiarisce la tipologia di pane che quel giorno fu deglutito dal G..


La Corte di merito, benché espressamente sollecitata sul punto, non si è preoccupata di individuare una "legge di copertura, universale o statistica" da adattarsi al caso concreto, ma si è limitata a dare per acquisito il divieto di somministrazione di cibi solidi contenuto nel capo d'imputazione, smentito dalle evidenze documentali.


E' pacifico che, per attribuire una responsabilità per colpa generica i giudici avrebbero dovuto procedere alla individuazione della regola violata, la quale, tuttavia, non deve essere frutto di una elaborazione creativa desunta da valutazioni ricavate "ex post", ma deve discendere da un processo che, individuati i tratti tipici dell'evento, indichi se questo fosse prevedibile ed evitabile "ex ante".


Nel caso di specie, la carenza di chiare indicazioni sulla corretta somministrazione dei pasti e l'assenza di istruzioni precise da parte del personale apicale avrebbe imposto alla Corte d'appello di ritenere esente da responsabilità il ricorrente.


3.3 Violazione di legge in relazione alla mancata assunzione della prova decisiva della perizia. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte d'appello ha implicitamente rigettato la richiesta di perizia sul presupposto della sua inutilità alla luce dell'evidenza della causa della morte di G.M.; inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale, segnatamente degli artt. 40,41,43,113,589 e 590-sexies c.p., D.L. n. 158 del 2021, art. 3, artt. 220,507,530 e 603 c.p.p..


La difesa rappresenta di avere chiesto che venisse disposta una perizia medico-legale ex art. 507 c.p.p. all'esito delle dichiarazioni rese dal consulente di parte T.L.. Il medico legale, escusso in dibattimento, aveva evidenziato taluni profili scientifici da approfondire, anche con riferimento al problema della individuazione delle linee guida e buone pratiche ai fini dell'applicazione dell'art. 590-sexies c.p..


Il Giudice respingeva tale richiesta, ritenendola "superflua alla luce del complessivo compendio probatorio già acquisito".


L'espletamento della perizia avrebbe fornito chiarimenti ulteriori sul nesso di causa tra la condotta omissiva impropria contestata all'imputato B.A. e la morte del G., aspetto del tutto negletto nelle sentenze di merito.


La richiesta di perizia medico-legale era avanzata allo scopo di agevolare i giudici nella individuazione della corretta interpretazione delle modalità di gestione del paziente disfagico ed al fine di eliminare la confusione che si è ingenerata tra divieto di somministrazione di alimenti "a doppia consistenza" e divieto di assunzione di "cibi solidi".


Nella giurisprudenza di legittimità, "In tema di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria per fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.L. 13 settembre 2012, n. 158 è viziata la motivazione della sentenza che ometta di valutare se la condotta del sanitario sia riconducibile a raccomandazioni previste da linee guida o a buone pratiche clinico assistenziali, se si sia discostata da tali parametri, se integri colpa per imperizia. ovvero per negligenza o imprudenze. e se la colpa sia da considerare lieve o grave". (Così Sez. 4, n. 24384 del 26/04/2018 Rv. 273536-01). Per questa ragione, quindi, nella fattispecie concreta (relativa a fatti commessi nel 2014), la perizia richiesta era pertinente e necessaria ai fini dell'eventuale applicazione dell'art. 590-sexies c.p..


Si aggiunge che, nel giudizio, non solo manca la prova scientifica del divieto di somministrazione di pane al paziente, ma manca anche la prova che al B. fosse stata effettivamente impartita tale disposizione.


3.4 Mancata assunzione di una prova decisiva (perizia) respinta con l'ordinanza impugnata; mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione laddove la Corte d'appello ha rigettato la richiesta di perizia sul presupposto della sua inutilità e dell'evidenza della prova della morte di G.M., senza considerare l'apporto del contenuto delle dichiarazioni del consulente tecnico Dott. T., che avrebbero dovuto condurre a un esito assolutorio dell'imputato; inosservanza o erronea applicazione degli artt. 40,41,43,113,589 e 590-sexies c.p., D.L. n. 158 del 2021, art. 3 e artt. 220,507,530 e 603 c.p.p..


Non vi sarebbe certezza in ordine alla causa della morte della persona offesa. Un'origine alternativa del decesso potrebbe essere individuata in una crisi epilettica dovuta alla interruzione della terapia del farmaco anticomiziale riportata in cartella e risalente nell'aprile 2014.


3.5 Mancanza di motivazione laddove, a fronte dell'impugnazione dell'ordinanza del 24/6/21, ritenuta affetta da nullità, la Corte d'appello fondava la propria motivazione proprio sulla testimonianza di S.L. senza offrire risposta agli specifici motivi di appello sul punto. La S., per il suo ruolo sovraordinato, rivestiva una posizione di garanzia che avrebbe dovuto indurre a ritenere che la stessa dovesse, di fatto, assumere la qualifica d'indagata di procedimento connesso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deve essere rigettato, essendo infondati i motivi proposti per le ragioni di seguito indicate.


2. Occorre preliminarmente rammentare come nel presente caso si versi in una ipotesi di c.d. "doppia conforme" pronuncia di responsabilità. Secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tali casi, la motivazione della sentenza di primo grado e quella di secondo grado si saldano per formare un unico complesso argomentativo, a cui occorre fare riferimento per valutare la completezza del contenuto della sentenza impugnata e la coerenza e compiutezza delle risposte fornite dai giudici di merito alle censure difensive (ex multis Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 - 01:"Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. "doppia conforme" quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale").


Occorre quindi evidenziare, richiamandosi al pacifico orientamento citato, come la prospettata lacunosità e incoerenza della motivazione offerta dai giudici di appello debba essere valutata considerando anche la motivazione espressa nella sentenza di primo grado, dove la vicenda che interessa, nella sua evoluzione, viene riportata in modo particolareggiato e sono richiamati, in modo puntuale, i contenuti di tutte le testimonianze acquisite nel corso della istruttoria dibattimentale. In relazione a tale ultimo profilo, non può non rimarcarsi come la difesa, nel ricorso, incentri gli assunti di cui si rende portatrice su un richiamo soltanto parziale delle emergenze probatorie in atti. Come si dirà nel paragrafo dedicato al tema della patologia di cui soffiriva il G. e della consapevolezza da parte dell'imputato delle problematiche alimentari del degente, il ricorso trascura di considerare le testimonianze rese innanzi al Tribunale dai familiari della vittima, dalla Dott.ssa P.A., medico in servizio presso la R.S.D. in cui era ricoverato il paziente e da altri operatori della struttura.


3. Principale rilievo, nella economia della vicenda che occupa, deve essere attribuito alla questione riguardante la causa della morte della persona offesa, la quale rappresenta, nel ricorso, il primo e più significativo aspetto sul quale si sofferma la difesa per contrastare le conclusioni a cui sono pervenuti i giudici di merito nell'affermazione di responsabilità dell'imputato.


La questione è variamente proposta e ribadita nei primi tre motivi di ricorso, in cui la difesa sostiene come la causa del decesso della persona offesa sia rimasta sostanzialmente inesplorata nel corso dei giudizi di merito e non individuata effettivamente.


Alla stregua di quanto risulta dagli atti, si sottolinea ancora nel quarto motivo di ricorso, non può escludersi che il decesso sia ascrivibile ad una causa diversa da quella individuata dai giudici di merito, quale, ad esempio, una crisi epilettica scatenata dall'interruzione dell'assunzione del farmaco anti comiziale.


La censura è infondata. Benché non sia stata disposta autopsia su cadavere e perizia medico legale, sulla base delle congrue argomentazioni illustrate nelle sentenze di merito, la causa del decesso del G. è stata individuata in un arresto cardiocircolatorio, dovuto a soffocamento per ingestione di pane in soggetto affetto da disfagia


A tale conclusione logicamente pervengono i giudici di merito dopo attenta disamina dei fatti e della documentazione acquisita nel dibattimento. In particolare, il giudice di primo grado ha posto in evidenza come la causa del decesso sia stata documentalmente accertata, essendo ciò evincibile dalla cartella clinica dell'ospedale (OMISSIS) di Como, in cui il paziente rimase ricoverato per diversi giorni in stato comatoso e dalle risultanze dell'intervento dei sanitari del 118.


Gli operatori che intervennero d'urgenza nella casa di cura, componenti l'equipaggio del 118, annotarono nella scheda d'intervento di avere trovato le vie respiratorie del paziente "completamente ostruite" dal bolo alimentare, che provvidero a rimuovere durante le manovre rianimatorie.


Tali circostanze ragionevolmente escludono, secondo il percorso argomentativo seguito nelle sentenze di merito, ogni alternativa ricostruzione delle cause del malore e del decesso della vittima.


Il giudizio esplicativo sulle ragioni del decesso del G. è stato condotto in maniera coerente e approfondita; l'assunto difensivo, in base al quale la morte della persona offesa potrebbe essere ascritta ad altre origini - quali una crisi epilettica che avrebbe scatenato un rigurgito - oltre a sollecitare una non consentita rivisitazione in chiave alternativa delle emergenze probatorie, è evidentemente smentita da tutte le risultanze puntualmente richiamate nella motivazione della sentenza del Tribunale (pag. 11 e seguenti), condivise dalla Corte d'appello.


3.1 Dalle puntuali argomentazioni riguardanti l'accertata causa del decesso del G. discende la coerente decisione dei giudici di merito di escludere la necessità, ai fini della decisione, di procedere all'esame autoptico della salma e al conferimento di perizia medico legale per accertare le cause del decesso.


L'istituto della rinnovazione in appello, secondo consolidato orientamento di questa Corte, ha carattere eccezionale, attesa la presunzione di completezza ed autosufficienza del giudizio di primo grado. Pertanto, è consentito ricorrere a tale strumento soltanto ove il giudice ritenga, secondo il suo apprezzamento, non sindacabile in questa sede, di non potere decidere allo stato degli atti (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep.2014, Coppola, Rv. 259893; Sez. 6, n. 1256 del 28/11/2013, dep.2014, Cozzetto, Rv. 258236). Nell'alveo dell'orientamento interpretativo ora richiamato, la Suprema Corte ha anche precisato che l'esercizio del potere di rinnovazione istruttoria si sottrae, per la sua natura discrezionale, allo scrutinio di legittimità, nei limiti in cui la decisione del giudice di appello, tenuto ad offrire specifica giustificazione soltanto dell'ammessa rinnovazione, offra argomentazioni che evidenzino - per il caso di mancata rinnovazione - l'esistenza di fonti sufficienti per una compiuta e logica valutazione in punto di responsabilità (cfr. Sez. 6, sent. n. 40496 del 21/05/2009, Messina, Rv. 245009).


Per altro verso, ove il giudice abbia indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo (cfr. Sez. 2 n. 15248 del 24/01/2020, Rv. 279062 - 01).


Deve aggiungersi, oltre a quanto già detto, come il mancato espletamento di un accertamento peritale non possa mai costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto la perizia non può essere fatta rientrare nel novero delle prove decisive, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice (cfr. Sez. U, Sentenza n. 39746 del 23/03/2017 Rv. 270936).


Pertanto, non risulta meritevole di essere censurata la scelta della Corte d'appello di rigettare la richiesta di espletamento della perizia, oggetto di critica da parte della difesa nel terzo e quarto motivo di ricorso.


4. Dato per acclarato, alla stregua di quanto argomentato nelle sentenze di merito, che la cause del decesso di G.M., soggetto disfagico, fosse da attribuirsi all'asfissia insorta in conseguenza della ingestione di cibo solido durante il pasto, occorre esaminare le doglianze che riguardano la condotta ascritta al ricorrente. I molteplici rilievi riguardanti la responsabilità del B., nei motivi di ricorso proposti, attengono, principalmente, alla individuazione della regola cautelare violata, alla conoscenza da parte del ricorrente del divieto di somministrazione al paziente del pane e di altro cibo solido, alla esistenza del nesso causale tra la condotta ascritta e l'evento letale.


La regola cautelare violata, fondante l'affermazione di responsabilità dell'imputato, è stata individuata nella mancata sorveglianza del paziente, attività che rientrava tra quelle a cui il B., in qualità di operatore sociosanitario in servizio presso la residenza sanitaria, era tenuto in base al rapporto contrattuale di lavoro che lo legava alla struttura.


Più in generale, la giurisprudenza di legittimità ha posto in evidenza come l'obbligo di salvaguardare l'incolumità di un paziente ospitato in una struttura sanitaria tragga la sua giustificazione nella necessità di osservare un dovere di solidarietà che ha fondamento nei principi cosituzionali stabiliti dagli artt. 2 e 32 Cost. (cfr. Sez. 4, n. 39256 del 29/03/2019, Rv. 277192 - 01: "L'infermiere, come tutti gli operatori di una struttura sanitaria, è "ex lege" portatore di una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute deve tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l'integrità, per l'intero tempo del turno di lavoro. (In applicazione del principio la Corte ha ritenuto immune da censure il riconoscimento di responsabilità operato dalla sentenza impugnata, a titolo di omicidio colposo, di un'infermiera in servizio presso una residenza assistita, per avere omesso di eseguire ed attivare le dovute ricerche di una paziente disabile, notoriamente dedita all'uso di sostanze alcoliche, che, non rientrata in camera da letto dopo cena, era morta nella notte per assideramento, dopo essere caduta a terra nel tragitto tra un padiglione e l'altro della struttura)"; Sez. 4, n. 9638 del 02/03/2000, Rv. 217477 - 01:"Gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti, la cui salute devono tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l'integrità; l'obbligo di protezione perdura per l'intero tempo del turno di lavoro e, laddove si tratti di un compito facilmente eseguibile nel giro di pochi secondi, non è delegabile ad altri. (Fattispecie in cui è stato escluso che fosse giustificato il comportamento di un infermiere che, in prossimità della fine del turno di lavoro, delegava un collega per eseguire l'ordine impartitogli da un medico di chiamare un altro medico, ordine facilmente e rapidamente eseguibile attraverso un citofono)").


L'obbligo di protezione di cui si è detto assume valore particolarmente pregnante in relazione a pazienti e degenti oltremodo vulnerabili ed esposti a pericolo per le loro condizioni psico-fiche: il G., si evince dalle testimonianze riportate in sentenza, era soggetto bisognoso di essere assistito e sorvegliato soprattutto durante i pasti, essendo affetto da una patologia che gli impediva di deglutire correttamente.


Non può dubitrasi, dunque, della circostanza che l'imputato rivestisse una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa, avendo un obbligo di assistenza e vigilanza nei riguardi di quest'ultima.


A questo proposito il Tribunale ha riportato le dichiarazioni del teste Ca.Ca. (pag. 7 della sentenza), che ha illustrato i compiti associati alle mansione degli operatori sanitari, ponendo in evidenza come la sorveglianza durante i pasti "formasse specifico oggetto delle mansioni loro affidate".


E' noto come la posizione di garanzia investa la persona titolare dell'obbligo giuridico di prevenire ed evitare i rischi a cui è esposta la persona garantita: non di tutti i rischi possibili nella realtà fenomenica umana si tratta, ma di quelli che la finalità protettiva della funzione svolta mira a scongiurare.


Ebbene, alla luce della ricostruzione offerta nelle sentenze di merito, del tutto coerente rispetto alle emergenze probatorie rappresentate in motivazione, risulta immune da censure la conclusione a cui pervengono i giudici, in base alla quale il ricorrente era tenuto ad esercitare una puntuale sorveglianza sul degente: la funzione della sorveglianza aveva infatti il precipuo scopo di impedire che gli ospiti della casa di cura, potessero compiere gesti inconsulti mettendo a repentaglio la loro incolumità (cfr. pag. 13 della sentenza di primo grado "Con riferimento quantomeno agli o.s.s., comunque, è pienamente provato che la cura della persona, ivi compresa la sorveglianza durante i pasti, formasse specifico oggetto delle mansioni loro affidate: ed è anzi emerso che in ragione della problematicità dei pazienti ospitati all'interno della R.S.D., gli o.s.s. erano sgravati da compiti ordinariamente loro affidabili -quale la somministrazione meccanica della terapia farmacologica preparata da figure più specializzate -, proprio al fine di consentire l'esercizio di un più intenso grado di attenzione nella sorveglianza. Ciò che porta a colorare il contenuto della loro posizione di garanzia non soltanto quale obbligo di protezione della incohimità degli ospiti contro una serie potenzialmente indeterminata di pericoli; ma anche -e soprattutto -quale obbligo di controllo di pericoli determinati: quali, in definitiva, quelli connessi all'assunzione di cibo. Di specifico obbligo di sorvegliare i pazienti durante i pasti, d'altronde, hanno discorso tanto il CA. quanto la RAMPONI, quest'ultima pur richiamando l'attenzione sulla contigua posizione dell'infermiere presente in sala, il quale -preposto alla preparazione e alla somministrazione delle terapie, come si è visto un compito alla sua figura affidato in via esclusiva poteva comunque esercitare un ruolo sussidiario di vigilanza").


5. Il Tribunale ha poi dedicato ampio spazio all'aspetto riguardante la consapevolezza da parte del ricorrente della problematica della disfagia da cui era affetta la persona offesa e della necessità che egli non assumesse cibo solido.


La circostanza, si legge in motivazione, non soltanto risultava documentalmente provata sulla base delle indicazioni presenti nella cartella clinica presente nella casa di cura, ma era nota a tutti gli operatori.


A pagina 5 della sentenza di primo grado sono riportate le dichiarazioni della teste P.A., medico in servizio presso la struttura, la quale ha ricordato perfettamente che G.M. fosse disfagico. A tale proposito, unitamente alla S., raccolse le dichiarazioni dei familiari in sede di anamnesi e la documentazione medica disponibile. Acquisita la notizia, ha riferito che la S. impartì le necessarie indicazioni al servizio mensa esterno alla struttura perché fossero preparati pasti adeguati all'ospite.


Sono poi richiamate in motivazione una serie di testimonianze dalle quali risulta che gli operatori fossero stati avvertiti delle problematiche alimentari riguardanti il G..


E' riportato, in proposito, il contenuto della deposizione di Ca.Ca., già operatore socio sanitario presso la struttura, il quale ebbe a riferire che la patologia del G. era nota nella casa di cura e che puntuali istruzioni erano state impartite agli operatori in ordine alla sorveglianza a vista e all'attenzione da esercitarsi durante il pasto (pagina 7 della sentenza di primo grado).


E' condivisibile anche l'ulteriore notazione contenuta nella sentenza di primo grado, in base alla quale, anche ammettendo che il B. fosse all'oscuro della circostanza che il G. non dovesse ingerire cibo solido, avrebbe dovuto comunque informarsi, prima di assumere la cura del degente, dei rischi collegati alle sue condizioni di salute (cfr. pag. 14 della sentenza di primo grado).


6. Quanto al nesso causale, non può validamente sostenersi che i giudici di merito non abbiano fatto buon governo dei principi che regolano la materia. E' messo in evidenza lo stretto collegamento tra il comportamento negligente serbato dal ricorrente e l'evento poi verificatosi.


La Corte di merito ha anche spiegato le ragioni per le quali la posizione del B. fosse da differenziarsi rispetto a quelle dell'infermiere e dell'altro assistente sanitario presenti al momento del fatto. Sul punto deve aggiungersi che, eventuali corresponsabilità della causazione dell'evento di altri soggetti parimenti investiti di una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa non determinano il venir meno dell'obbligo giuridico d'impedire l'evento e non fungono da esimente (cfr. in argomento Sez. 4, n. 43078 del 28/04/2005, Poli ed altri, Rv. 232416 - 01:"Quando l'obbligo di impedire l'evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di un altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell'art. 41 c.p., comma 1. In questa ipotesi, la mancata eliminazione di una situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell'agente), ad opera di terzi, non è una distinta causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, ma una causa/condizione negativa grazie alla quale la prima continua ad essere efficace").


7. L'esimente di cui all'art. 590-sexies c.p. è stata ritenuta correttamente inoperante, non rientrando il caso in esame nel perimetro di applicazione della norma invocata: il profilo di colpa che viene in considerazione nel presente caso, hanno specificato i giudici di merito, è la negligenza; le Sezioni Unite "Mariotti" hanno puntualizzato che detta esimente è da applicarsi in caso di colpa da imperizia nella fase escutiva (Sez. U, Sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 22/02/2018, Rv. 272174 - 01:"In tema di responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, l'art. 590-sexies c.p., introdotto dalla L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 6 prevede una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell'art. 589 o di quello dell'art. 590 c.p., e operante nei soli casi in cui l'esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse; la suddetta causa di non punibilità non è applicabile, invece, né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza, né quando l'atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche, né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall'esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso, né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse").


8. Del pari infondato è l'ultimo motivo di doglianza, riguardante l'asserita inutilizzabilità delle dichiarazioni della teste S.L..


Le Sezioni Unite di questa Corte hanno stabilito che, allorquando venga in rilievo l'attribuzione al dichiarante della qualità di indagato o di persona informata sui fatti, spetta al giudice il potere di verificare, in termini sostanziali al di là, quindi, del riscontro di indici formali, come l'intervenuta iscrizione sul registro notizie di reato - l'ascrivibilità allo stesso dell'una o dell'altra qualità; il relativo accertamento, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U., n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246584). Si è anche chiarito che la sanzione di inutilizzabilità postula che, a carico dell'interessato, siano stati acquisiti, prima dell'escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dall'autorità procedente, non rilevando, a tale proposito, eventuali sospetti od intuizioni personali dell'interrogante (Sez. U., n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv.243416).


Ebbene, il Tribunale, nell'ordinanza di rigetto dell'eccezione sollevata dalla difesa, ha offerto una motivazione non suscettibile di essere censurata in questa sede, assumendo che dalla istruttoria non erano emersi elementi per ritenere una responsabilità della teste S.L. nella vicenda in esame, essendosi l'evento lesivo verificatosi in circostanze e per ragioni a lei estranee.


9. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili C.S. e G.G., anche in nome e per conto della minore G.S., liquidate come da dispositivo.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili C.S. e G.G., anche in nome e per conto della minore G.S., che liquida in Euro tremilacinquecento, oltre accessori come per legge.


Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2022.


Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2022

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