La mancanza di un rimedio effettivo contro l’irragionevole durata del processo viola l’art. 13 CEDU ( Kudła c. Polonia) - Avv. Salvatore del Giudice
- Avvocato Del Giudice
- 6 ago
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Kudła c. Polonia (CEDU, Grande Camera, 26 ottobre 2000, ric. n. 30210/96)
Massima
Integra violazione dell’art. 13 della Convenzione EDU l’assenza, nell’ordinamento interno, di un rimedio effettivo per far valere la violazione del diritto a un processo entro un termine ragionevole, garantito dall’art. 6 §1 CEDU.
Tale rimedio deve essere effettivo non solo in diritto ma anche in concreto, e deve essere idoneo a prevenire, interrompere o compensare i ritardi eccessivi del procedimento, secondo una lettura sistematica dei principi di sussidiarietà e tutela effettiva sanciti dalla Convenzione.
Nota di commento
La decisione Kudła c. Polonia segna un punto di snodo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non tanto per la constatazione della violazione dell’art. 6 §1 CEDU in relazione alla durata irragionevole del processo — evenienza purtroppo frequente e ampiamente codificata — quanto per il coraggioso superamento di un orientamento interpretativo consolidato, che tendeva a considerare l’art. 13 CEDU come “assorbito” nelle garanzie procedurali offerte dall’art. 6.
Con questa pronuncia, la Corte, riunita in Grande Camera, ha compiuto un salto qualitativo: ha riconosciuto che l’assenza di un rimedio interno effettivo per far valere la violazione del termine ragionevole di durata del processo integra di per sé una violazione autonoma dell’art. 13 CEDU, anche laddove sia già stata constatata la violazione dell’art. 6 §1.
In tal modo, la Corte afferma con nettezza la autonomia funzionale del diritto a un “ricorso effettivo” quale presidio strutturale del principio di sussidiarietà, fondamento architettonico del sistema europeo di tutela dei diritti fondamentali.
1. Il fatto come paradigma di disfunzione sistemica
Il caso concreto esaminato dalla Corte — il calvario processuale di Andrzej Kudła, detenuto per oltre quattro anni in condizioni carcerarie incompatibili con gravi patologie psichiatriche, in un processo protrattosi per oltre nove anni — offre un esempio emblematico di disfunzione giudiziaria elevata a fatto sistemico.
La Corte censura non solo la durata in sé, ma soprattutto l’impossibilità per il ricorrente di invocare un rimedio giurisdizionale effettivo, accessibile e tempestivo, volto a interrompere o compensare la lesione in fieri.
La violazione, dunque, non risiede solo nel ritardo, ma nella sua irrimediabilità all’interno dell’ordinamento nazionale.
2. Il superamento della teoria dell’assorbimento
L’aspetto più innovativo della sentenza Kudła risiede nella sua revisione dell’orientamento precedente in tema di rapporto tra gli artt. 6 §1 e 13 CEDU.
Fino a quel momento, la Corte aveva ritenuto che, nei casi in cui l’interessato lamentasse la violazione del diritto a un processo equo, l’art. 6 §1 costituisse una lex specialis rispetto all’art. 13, assorbendone le garanzie in virtù della maggiore specificità.
La Corte, in questa occasione, disancora il diritto a un ricorso effettivo dalla logica dell’assorbimento, riconoscendogli dignità autonoma, anche nei casi in cui l’asserita violazione riguardi una garanzia processuale.
La distinzione si fonda su un principio sottile ma fondamentale: la violazione del diritto e la mancanza di un rimedio per contestarla sono due lesioni distinte, ciascuna idonea a compromettere l’effettività della protezione convenzionale.
In tal senso, la Corte richiama il ruolo sussidiario che l’art. 13 svolge nella struttura multilivello della tutela dei diritti.
3. Il concetto di rimedio effettivo: natura, finalità, requisiti
La Corte chiarisce che il rimedio previsto dall’art. 13 non deve necessariamente avere natura giurisdizionale, ma deve possedere requisiti di effettività pratica, essere idoneo ad assicurare tutela tempestiva e, ove possibile, risarcire il danno già verificatosi.
Il rimedio deve essere:
accessibile, cioè previsto e conoscibile dal cittadino;
efficace in concreto, ossia capace di incidere sulla situazione lesiva;
suscettibile di produrre effetti riparatori o acceleratori, anche indirettamente.
È in quest’ottica che la Corte stigmatizza l’assenza in Polonia — al tempo dei fatti — di qualsivoglia meccanismo normativo (giurisdizionale o amministrativo) in grado di arrestare, correggere o compensare l’irragionevole durata del processo.
Il ricorrente, pur attivando ogni possibile mezzo interno (ricorsi, istanze, solleciti), era stato lasciato privo di ogni strumento effettivo per difendere il proprio diritto alla ragionevole durata.
In tal modo, la Corte sposta il baricentro della responsabilità dallo ius dicere all’obbligo di predisporre mezzi di tutela, in coerenza con l’art. 1 CEDU (obbligo positivo di assicurare i diritti).
4. Le implicazioni strutturali: verso una giustizia “ragionevolmente efficace”
Con la sentenza Kudła, la Corte non solo censura una violazione, ma formula un monito strutturale rivolto a tutti gli Stati membri: il buon funzionamento della giustizia non è solo un fine, ma un obbligo di risultato. L’assenza di rimedi interni aggrava la disfunzione della giurisdizione, perché trasferisce alla Corte di Strasburgo un onere che dovrebbe essere primariamente assolto dai sistemi nazionali.
In questo senso, la pronuncia può essere letta anche come un invito alla decentramento della tutela convenzionale: rendere effettiva la protezione già a livello interno significa rafforzare il principio di sussidiarietà e ridurre la pressione sul meccanismo sovranazionale, che altrimenti rischia di trasformarsi da giudice ultimo a giudice naturale delle disfunzioni sistemiche.
Conclusioni
La sentenza Kudła c. Polonia non si limita a ribadire principi consolidati, ma ne ricalibra il significato sistemico alla luce del principio di effettività.
Nel farlo, la Corte restituisce all’art. 13 CEDU la sua funzione originaria: non garanzia residuale, ma strumento attivo di riequilibrio tra violazione e rimedio, tra processo e tutela.
A distanza di anni, l’insegnamento della Corte resta attuale: nessun diritto può dirsi effettivamente garantito, se manca un rimedio per farlo valere.