top of page

Carabiniere sottrae il cellulare all'arrestato prima del sequestro: è furto non peculato

Furto, Peculato

Cassazione penale sez. VI, 28/03/2024, n.16955

Integra il delitto di furto, e non quello di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che, in occasione dell'esercizio dell'attività d'ufficio, si impossessi del denaro o della cosa mobile altrui "invito domino" e senza averne previamente conseguito la disponibilità per ragione d'ufficio o di servizio. (Fattispecie relativa alla sottrazione, da parte di un carabiniere, del telefono cellulare dell'arrestato prima che il bene fosse sequestrato o preso altrimenti in consegna per ragioni d'ufficio).

Carabiniere sottrae il cellulare all'arrestato prima del sequestro: è furto non peculato

Hai bisogno di assistenza legale?

Prenota ora la tua consulenza personalizzata e mirata.

 

Grazie

oppure

PHOTO-2024-04-18-17-28-09.jpg

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Sa.Gi. è stato rinviato a giudizio, con decreto del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma emesso in data 20 febbraio 2023, per rispondere del reato di cui all'art. 314 cod. pen., in quanto, quale carabiniere scelto in servizio presso la Stazione di T, si sarebbe appropriato di un telefono cellulare appartenente a Le.Sa. a seguito di un'operazione di polizia, riponendolo in un cassetto presso il proprio appartamento di servizio e utilizzandolo per chiamate private, fatto accertato in R il 17 novembre 2011. 2. Il Tribunale di Roma, con sentenza emessa in data 25 novembre 2016, all'esito del giudizio dibattimentale, ha dichiarato l'imputato colpevole del reato ascrittogli e, concessa la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis cod. pen. e le attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena sospesa di un anno e quattro mesi di reclusione, ha dichiarato l'imputato interdetto dai pubblici uffici per la durata di un anno e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali, disponendo la restituzione del telefono cellulare in favore della persona offesa. 3. La Corte di appello di Roma, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado, appellata dall'imputato, che ha condannato al pagamento delle ulteriori spese del grado. 4. L'avvocato Lorenzo Scarsellone, nell'interesse dell'imputato, ha presentato ricorso avverso tale sentenza e ne ha chiesto l'annullamento, deducendo cinque motivi. 4.1. Con il primo motivo il difensore deduce la nullità della sentenza di primo grado per violazione dell'art. 525 cod. proc. pen., in quanto nessun consenso, nemmeno tacito, sarebbe stato prestato alla lettura e all'utilizzabilità di atti istruttori assunti innanzi al collegio dibattimentale diversamente composto. Il difensore rileva che il Presidente del Tribunale, all'udienza del 20 ottobre 2016 avrebbe posto in essere una "forzatura", verbalizzando che le parti acconsentivano all'utilizzazione delle prove assunte da altro collegio, in "quanto se si ascoltano le fonoregistrazioni dibattimentali, a differenza dei verbali delle trascrizioni, dove vi sono moltissime omissioni, il Presidente non ha consentito a questo difensore di interloquire sul punto...". 4.2. Con il secondo motivo il difensore censura la violazione di legge e il vizio della motivazione rispetto alla ritenuta sussistenza del contestato delitto di peculato. Il delitto contestato sarebbe, infatti, insussistente, in quanto il telefono non sarebbe un bene della pubblica amministrazione, e l'imputato non avrebbe mai avuto la consapevolezza che il cellulare fosse di proprietà del cittadino albanese arrestato. 4.3. Con il terzo motivo il difensore lamenta la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato inquadramento del fatto nella ipotesi del peculato d'uso. La Corte di appello non avrebbe fornito una motivazione adeguata sul punto, ancorché fosse stato accertato il mero sfruttamento temporaneo della cosa da parte dell'imputato per una sola telefonata di pochi secondi. 4.4. Con il quarto motivo il difensore deduce la violazione di legge e il vizio di omessa motivazione rispetto alla mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell'art. 351 cod. pen., come richiesto nell'atto di appello. Il difensore rileva che il reato di violazione della pubblica custodia di cose sussiste anche ove non sia stato redatto un verbale di sequestro, ma la res sia stata comunque acquista dal pubblico ufficiale. Dall'istruttoria dibattimentale, del resto, sarebbe emerso che l'imputato non avrebbe mai perquisito il Le.Sa. e, dunque, la sottrazione del telefono sarebbe avvenuta in caserma. L'art. 351 cod. pen., del resto, dovrebbe trovare applicazione, in quanto il telefono cellulare non costituiva corpo del reato, ma solo un bene personale dell'arrestato; d'altra parte, tale reato può bene essere commesso anche dal pubblico ufficiale. 4.5. Con il quinto motivo il difensore deduce il vizio di motivazione rispetto alla mancata applicazione dell'art. 131 bis cod. pen., censurando che la Corte di Appello si sia soffermata solo sulla materialità del fatto e non anche sugli indici di cui all'art. 133 cod. pen. e non abbia considerato l'occasionalità della condotta e l'assenza di alcun danno per la pubblica amministrazione. 5. Non essendo stata richiesta la trattazione orale del procedimento, il ricorso è stato trattato con procedura scritta. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 12 marzo 2024, il Procuratore generale, nella persona di Vincenzo Senatore, ha chiesto di rigettare il ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere accolto nei limiti che di seguito si precisano. 2. Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza di primo grado per violazione dell'art. 525 cod. proc. pen., in quanto nessun consenso, nemmeno tacito, sarebbe stato prestato alla lettura e all'utilizzabilità di atti istruttori assunti innanzi al collegio dibattimentale diversamente composto. 3. Il motivo è infondato. Non sussiste la nullità della sentenza qualora le prove siano valutate da un collegio in composizione diversa da quella davanti al quale le stesse siano state acquisite e le parti presenti non si siano opposte, né abbiano esplicitamente richiesto di procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, in quanto, in tal caso, si deve intendere che esse abbiano prestato consenso, sia pure implicitamente, alla lettura degli atti suddetti (Sez. 5, n. 36813 del 23/05/2016, Renzulli, Rv. 267911-01). Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il consenso delle parti all'acquisizione mediante lettura delle dichiarazioni dibattimentali rese nello stesso procedimento dinnanzi al giudice in diversa composizione può essere manifestato anche attraverso accettazione tacita (Sez. 3, n. 17692 del 14/12/2018, T., Rv. 275172-01; Sez. 5, n. 36813 del 23/05/2016, Renzulli, Rv. 267911-01) o, comunque, comportamenti di acquiescenza (Sez. 1, n. 18308 del 14/01/2011, Bellarosa, Rv. 250220-01, conf. Sez. 5, n. 5581 del 30/09/2013 (dep. 2014), Righi, Rv. 259518-01; Sez. 2, n. 34723 del 04/06/2008, Rotondi, Rv. 241000-01, nella fattispecie, le parti avevano prestato acquiescenza rispetto all'assunzione delle prove già ammesse e si erano astenute dal proporre nuovamente richieste istruttorie). Le Sezioni unite hanno, inoltre, ribadito questo orientamento, statuendo che in caso di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice, il consenso delle parti alla lettura degli atti già assunti dal giudice di originaria composizione non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non richiesta, non ammessa o non più possibile (Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019, Bajrami, Rv. 276754-03). Le Sezioni unite sul punto hanno chiarito che "Ferma l'irrilevanza (ai sensi del combinato disposto degli art. 525, comma 2, prima parte, e 179 cod. proc. pen.) del consenso eventualmente prestato alla violazione del principio d'immutabilità del giudice, sanzionata a pena di nullità assoluta, e quindi insanabile, è, infatti, legittimo, ed anzi doveroso, valorizzare l'inerzia delle parti che non si siano attivate nei modi di rito, ovvero che non abbiano formulato la richiesta ex art. 493 cod. proc. pen., oppure non abbiano compiuto le attività preliminari alla richiesta di ammissione/rinnovazione degli esami di testimoni, periti o consulenti tecnici, nonché delle persone indicate dall'art. 210 cod. proc. pen., non depositando la prescritta lista. Alla mancata rinnovazione dei predetti esami non si può prestare tout court consenso; essa non è, tuttavia, dovuta se non chiesta dalla parte legittimata, tale essendo soltanto quella che abbia inserito il nominativo del dichiarante in lista ex art. 468, ove ciò sia necessario". La Corte di Appello ha, dunque, fatto buon governo di tali consolidati principi, rilevando come dai verbali delle udienze del 10 ottobre 2016 e del 28 febbraio 2015 "non emerga alcuna iniziativa di parte rappresentativa di un dissenso o dell'opportunità di una rivisitazione del precedente accordo perfezionatosi tra per parti alla utilizzazione delle prove già assunte dai due precedenti collegi giudicanti" (pag. 7 della sentenza impugnata). Il vizio di inosservanza della legge processuale denunciato dal ricorrente è, dunque, insussistente. 4. Con il secondo motivo il ricorrente censura l'inosservanza dell'art. 314 cod. pen., in quanto il telefono sottratto al Le.Sa. non sarebbe un bene della pubblica amministrazione, e l'imputato non avrebbe mai avuto la consapevolezza che il cellulare fosse di proprietà del cittadino albanese arrestato. 5. Il motivo è fondato nei limiti che di seguito si precisano. Il fatto accertato dalle sentenze di merito deve, infatti, più propriamente essere qualificato come furto, in quanto le modalità di acquisizione del telefono cellulare da parte dell'imputato (e, segnatamente, la mancanza dell'affidamento del telefono cellulare dell'arrestato al Sa.Gi.) non consentono di ravvisare la ragione dell'ufficio o del servizio necessario per configurare il peculato. L'art. 314 cod. pen. punisce, infatti, l'appropriazione del denaro o della cosa mobile altrui che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio possiede, o di cui ha comunque la disponibilità, "per ragione del suo ufficio o servizio" e non già "nell'esercizio delle funzioni o del servizio", come invece prevede l'art. 316 cod. pen., con riferimento al peculato mediante profitto dell'errore altrui. Ai fini dell'integrazione del delitto di peculato, il pubblico ufficiale, ovvero l'incaricato di pubblico servizio, deve, dunque, appropriarsi del denaro o della cosa mobile di cui dispone per una ragione legata all'esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l'appropriazione (Sez. 6, n. 23792 del 10/03/2022, Negro, Rv. 283274-01; Sez. 6, n. 21314 del 05/04/2018, Prospero, Rv. 272949; Sez. 6, n. 35988 del 21/05/2015, Berti, Rv. 264578). La sentenza di primo grado, non smentita sul punto dalla sentenza impugnata, ha, tuttavia, ritenuto "più ragionevolmente sostenibile", rispetto alle ipotesi ricostruttive antagoniste, "che il Sa.Gi., essendo venuto in possesso dell'apparecchio sin dal momento dell'arresto (verosimilmente raccogliendolo da terra dopo la fuoriuscita dalla tasca dell'arrestato), lo avesse conservato presso di sé, evidentemente riservandosi di farne uso alla bisogna". Il Tribunale di Roma ha, infatti, rilevato che il teste Se.An., agente del Nucleo radiomobile di R, ha ricordato che, nella concitazione dell'arresto, dalla tasca di uno degli arrestati era caduto un cellulare. La sentenza di primo grado ha, inoltre, chiarito che il ricorrente non ha eseguito personalmente la perquisizione di Le.Sa., proprietario del telefono cellulare, all'esito del suo arresto in flagranza del reato di furto in appartamento. Il telefono cellulare, del resto, non era corpo del reato o cosa pertinente al reato e non risulta che sia stato sequestrato o preso in consegna dagli operanti. Secondo quanto accertato in fatto dalle sentenze di merito, dunque, il Sa.Gi. si è impossessato del telefono cellulare dell'arrestato invito domino e prima che la sua disponibilità venisse acquisita dagli agenti operanti per una ragione legata all'esercizio di poteri o doveri funzionali. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, il reato di peculato e quello di furto sono strutturalmente diversi quanto ad elementi costitutivi; infatti, nel furto l'impossessamento della cosa altrui avviene invito domino, vale a dire, attraverso la sottrazione della res a chi la detiene; nel peculato, viceversa, l'agente ha la disponibilità del bene per ragioni del suo ufficio, senza distinzione, dopo l'entrata in vigore della legge 26 aprile 1990 n. 86, tra beni di proprietà dei privati e beni della pubblica amministrazione (ex plurimis: Sez. 6, n. 467 del 26/01/1999, Tavagnacco, Rv. 213186-01, che ha rilevato che l'impiegato postale che si impossessa di una lettera, della quale non ha la disponibilità per ragioni del suo ufficio, commette il reato di furto, mentre, se si impossessa di una lettera rientrante nella corrispondenza a lui affidata (sia per la consegna ai destinatari, sia per lo smistamento tra i vari portalettere) commette il reato di peculato; conf. Sez. 6, n. 49843 del 25/09/2018, Galdo, Rv. 274205-1). L'accoglimento di questo motivo di ricorso, in ragione della propria valenza assorbente, esime dall'esaminare le ulteriori censure proposte dal ricorrente. 6. Alla stregua di tali rilievi, qualificato il fatto come furto, la sentenza impugnata deve essere annullata perché il reato non è procedibile per difetto di querela, atteso che non ricorre alcuna delle ipotesi nelle quali tale reato è procedibile d'ufficio ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 624 cod. pen., come riformulato dall'art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a decorrere dal 30 dicembre 2022. P.Q.M. Qualificato il fatto ai sensi dell'art. 624 cod. pen., annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato non è procedibile per mancanza di querela. Cosi deciso in Roma, il 28 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2024.
bottom of page