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Reati tributari

Fatture per operazioni inesistenti: evasione imposta non elemento costitutivo reato

Fatture per operazioni inesistenti: evasione imposta non elemento costitutivo reato

Cassazione penale , sez. fer. , 11/08/2022 , n. 31142

In tema di reati finanziari e tributari, l'evasione d'imposta non è elemento costitutivo del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ma caratterizza il dolo specifico normativamente richiesto per la punibilità dell'agente, essendo necessario che l'emittente delle fatture si proponga il fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo realizzi effettivamente l'illecito intento.

Norme di riferimento

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza 15.11.2021, la Corte d'Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza 9.03.2018 del tribunale di Ivrea, appellata da I.S., dichiarava non doversi procedere in relazione ai reati sub b) e c) della rubrica perché estinti per prescrizione, rideterminando la pena, con d concorso di attenuanti generiche, in 1 anno e mesi 4 di reclusione per i residui reati di cui ai capi a) (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8) e d) della rubrica (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5), riducendo la disposta confisca per equivalente ad Euro 63.436,05 e confermando nel resto l'appellata sentenza, con riferimento a fatti contestati come commessi tra il 2012 ed il 2013 quanto al capo a) e nel 2012 quanto al capo d). 2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo quattro motivi di seguito sommariamente indicati. 2.1. Deduce, con il primo motivo di ricorso, quanto al capo a), il vizio di motivazione e di violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8. In sintesi, si duole il ricorrente della carenza motivazionale del provvedimento impugnato in relazione all'elemento oggettivo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, posto che nessuna indagine sulla presunta evasione effettuata dal terzo destinatario delle fatture ( M.) è stata effettuata, come sarebbe stato confermato espressamente dagli agenti operanti. 2.2. Deduce, con il secondo motivo di ricorso, sempre in relazione al capo a), il vizio di motivazione e di violazione di legge in relazione al combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, e art. 43 c.p.. In sintesi, si duole il ricorrente della carenza motivazionale del provvedimento impugnato in relazione all'elemento soggettivo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, posto che non sarebbe stata effettuata alcuna ricerca che approfondisse la lamentata situazione di pericolo (in particolare un asserito stato di paura e soggezione che indusse l'imputato, secondo la difesa, a trasgredire la legge, per la necessità di salvare sé stesso da un pericolo), omettendo di prendere in considerazione anche i dati favorevoli all'imputato. 2.3. Deduce, con il terzo motivo di ricorso, il vizio di motivazione e di violazione di legge in merito alla determinazione del trattamento:sanzionatorio nonché con riferimento all'affermazione secondo cui il disvalore complessivo dei fatti non consentirebbe il riconoscimento nella massima estensione delle circostanze attenuanti generiche, in relazione agli artt. 62 bis, 132 e 133 c.p., e al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, comma 3. In sintesi, si duole il ricorrente della carenza motivazionale del provvedimento impugnato rispetto alle specifiche doglianze in punto di pena eccepite nell'atto di appello. In particolare, la sentenza impugnata si sarebbe limitata a rideterminare la pena base irrogata in capo al ricorrente con la sentenza di primo grado, senza esplicitare i criteri per la valutazione della non concedibilità delle circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione, se non attraverso una formula di stile, ossia affermando che "il disvalore complessivo dei fatti non consente il riconoscimento in massima estensione delle circostanze attenuanti generiche", oltre che con riferimento all'attenuante di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, comma 3. 2.4. Deduce, con il quarto ed ultimo motivo di ricorso, il vizio di motivazione e di violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p.. In sintesi, si duole il ricorrente della carenza motivazionale del provvedimento impugnato, laddove nulla si dice in merito alla richiesta sospensione condizionale della pena avanzata nel quarto motivo di appello. 3. Con una prima requisitoria scritta del 6.06.2022, depositata telematica-mente in vista dell'udienza (poi rinviata) del 24.06.2022, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, conclusioni parzialmente rettificate con l'ulteriore requisitoria scritta del 6.07.2022, in cui il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto annullarsi il provvedimento impugnato limitatamente ad attenuanti generiche e sospensione condizionale della pena con rinvio alla Corte d'Appello di Torino, con inammissibilità nel resto, posto che, per il P.G., il primo motivo scende palesemente nel merito affrontando il discorso della carenza di prova, laddove, sul secondo motivo, c'e' sufficiente motivazione in ordine all'elemento soggettivo. 4. Con atto depositato in data 5.08.2022 la difesa ha reiterato le medesime conclusioni già rassegnate telematicamente in data 14.06.2022 in vista dell'udienza, rinviata, del 24.06.2022 e, nel richiamare i singoli motivi di ricorso, ha concluso per l'annullamento della sentenza impugnata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso, trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, è inammissibile. 2. Preliminarmente deve rilevarsi che la requisitoria scritta del Procuratore Generale presso questa Corte del 6.07.2022 è stata comunicata al difensore del ricorrente in data 10.08.2022, giorno antecedente all'udienza. Ciò non determina, tuttavia, alcuna necessità di rinvio dell'udienza, dovendosi invero fare applicazione del consolidato principio per cui in tema di disciplina emergenziale relativa alla pandemia da Covid-19 nei procedimenti innanzi alla Corte di cassazione, il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, convertito in L. 18 dicembre 2020, n. 176, non prevede alcuna sanzione processuale in caso di violazione del termine di comunicazione alle parti della requisitoria trasmessa dal procuratore generale alla cancelleria della Corte, sicché, l'eventuale ritardo nella comunicazione, può determinare il rinvio dell'udienza soltanto laddove abbia effettivamente pregiudicato l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato o delle altre parti del procedimento (Sez. 4, n. 35057 del 17/11/2020 - dep. 10/12/2020, Rv. 280388 - 01). Nella specie, nessun pregiudizio è derivato alla difesa dalla mancata tempestiva conoscenza della requisitoria del PG datata 6.07.2022, in quanto non solo la stessa risulta essere parzialmente riproduttiva, in meiius, delle conclusioni di cui alla precedente requisitoria del PG datata 6.06.2022 ritualmente comunicata, ma anche, e soprattutto, perché è la stessa difesa ad essersi avvalsa - depositando le conclusioni scritte in data 5.08.2022 in vista dell'udienza 11.08.2022.-, della facoltà al cui esercizio l'atto nullo è preordinato, versandosi quindi nell'ipotesi di sanatoria di cui all'art. 183 c.p.p., comma 1, lett. b). 3. Tanto premesso, come anticipato, il ricorso è inammissibile perché generico per aspecificità e comunque per manifesta infondatezza. E' generico in quanto ripropone, per la gran parte, le medesime censure svolte davanti ai giudici di appello le quali hanno trovato adeguata e logica risposta da parte dei giudici territoriali, senza tuttavia confrontarsi con le argomentazioni sviluppate dai giudici di merito. Il ricorso è inoltre inammissibile in quanto opera una denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione, rendendo così i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio (tra le tante: Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015 - dep. 25/09/2015, Rv. 2645:35 - 01). 4. Deve, poi, essere ricordato che ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013.- dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595 - 01). Ciò consente, pertanto, di integrare la motivazione della sentenza d'appello con quella del primo giudice, operazione come vedremo utile ai fini di ritenere prive di qualsiasi fondatezza parte delle argomentazioni difensive. 5. Tanto premesso, possono essere esaminati congiuntamente il primo ed il secondo motivo, attesa l'intima connessione dei profili di doglianza dedotti, che, come anticipato, sono inammissibili. 5.1. Anzitutto, sotto il profilo oggettivo, non v'e' dubbio in ordine alla configurabilità del reato sub a) Come puntualmente evidenziato dai giudici di merito, è emerso che l'imputato, per consentire alla SGCM s.a.r.l. di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto ha ammesso che tra il 20111 ed il 2013 aveva emesso 23 fatture per operazioni inesistenti a favore della predetta società francese di cui 12 fatture nel 2011 per oltre 153 mila Euro, 10 fatture nel 2012 per oltre 62 mila Euro ed 1 fattura nel 2013 per 2500 Euro. I fatti, ammessi dall'imputato, come emerge dalla sentenza impugnata, trovano conferma nel dato che tutte le causali delle fatture sono estremamente generiche e non consone all'attività di consulente del lavoro effettuata dal ricorrente; inoltre, le movimentazioni bancarie dei conti correnti dell'imputato confermano il ricevuto pagamento e, pochi giorni dopo, i bonifici in favore del M. ovvero i prelievi in contanti delle somme che poi il ricorrente avrebbe restituito, a dimostrazione dell'inesistenza delle operazioni rappresentate nelle fatture in oggetto. L'intervenuta ammissione dei fatti da parte del ricorrente (che, peraltro, ben può costituire prova sufficiente della responsabilità del confidente, indipendentemente dall'esistenza di riscontri esterni,, avendo i giudici di merito preso complessivamente in esame le circostanze obiettive e subiettive che hanno determinato e accompagnato la dichiarazione, in assenza di intendimenti autocalunnia-tori o di una possibile intervenuta costrizione dell'interessato: tra le tante, Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013 - dep. 20/03/2014, Rv. 259489 - 01), peraltro adeguatamente riscontrati da parte dei giudici di merito, rendono ragione della sicura configurabilità del reato, rendendo prive di spessore argomentativo le obiezioni difensive circa la presunta carenza di prova della carenza probatoria circa la presunta evasione effettuata dal terzo destinatario delle fatture. Deve, infatti, a tal proposito essere ricordato che in tema di reati finanziari e tributari, l'evasione d'imposta non è elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice del delitto d'emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ma configura un elemento del dolo specifico normativamente richiesto per la punibilità dell'agente, in quanto per integrare il reato è necessario che l'emittente delle fatture si proponga il fine di consentire a terzi l'evasione dell'imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ma non anche che il terzo consegua effettivamente la programmata evasione (Sez. 3, n. 39359 del 24/09/2008 - dep. 21/10/2008, Rv. 241040 - 01). 5.2. Peraltro, è la stessa prospettazione difensiva articolata con riferimento al secondo motivo (fondato su un asserito pericolo che lo avrebbe spinto a delinquere se non avesse fatto quanto richiestogli, proipettazione che già il primo giudice aveva evidenziato essere destituita di fondamento sottolineando come non fossero emersi elementi sufficienti per poter ritenere anche solo verosimile che il reo, per ignote ragioni, fosse stato costretto a porre in essere tali reiterate attività delittuose, cosa che la difesa aveva provato a sostenere in primo grado in sede di discussione, senza tuttavia ancorare tali convinzioni ad un elemento istruttorio: cfr. pagg. 5/6 sentenza primo grado) a costituire la prova più evidente del fatto che ben sapesse il ricorrente che l'emissione delle fatture fosse stata finalizzata a consentire al beneficiario di esse l'evasione delle imposte. 5.3. Nessun dubbio, poi, è configurabile sotto il profilo dell'elemento psicologico del reato, come invero emerge chiaramente dalla stessa sentenza impugnata in cui si chiarisce come fosse di tutta evidenza la consapevolezza dell'imputato in ordine alle finalità delle operazioni poste in essere, avendo il reo agito per rendere possibile al soggetto terzo destinatario delle fatture di poter evadere le imposizioni fiscali sui redditi e sull'Iva in quanto quest'ultimo, qualora le avesse inserite nelle dichiarazioni dei redditi, ben avrebbe potuto simulare passività inesistenti con conseguenti vantaggi fiscali. L'elevato numero delle fatture e gli importi fatturati, come bene sottolinea la sentenza d'appello, costituiscono poi ulteriore elemento comprovante la piena volontarietà della condotta e, dunque, la sussistenza del prescritto elemento soggettivo richiesto per l'integrazione della fattispecie. 6. Ad analogo approdo deve pervenirsi per gli ulteriori due motivi di ricorso. 7. Ed invero, quanto al terzo motivo, con cui si censura la sentenza impugnata per non aver esplicitato i criteri per la valutazione della non concedibilità delle attenuanti generiche nella loro massima estensione, è sufficiente rilevare come l'argomentazione sviluppata dalla sentenza impugnata ("il disvalore complessivo dei fatti non consente il riconoscimento in massima estensione delle circostanze attenuanti generiche") deve ritenersi sufficiente a giustificare la mancata estensione nella misura massima della riduzione per le riconosciute attenuanti, essendo stato infatti affermato da questa Corte che la mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione di un terzo non impone al giudice di considerare necessariamente gli elementi favorevoli dedotti dall'imputato, sia pure per disattenderli, essendo sufficiente che nel riferimento a quelli sfavorevoli di preponderante rilevanza, ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti nella massima estensione, abbia riguardo al trattamento sanzionatorio nel suo complesso, ritenendolo congruo rispetto alle esigenze di individualizzazione della pena, ex art. 27 Cost. (Sez. 7, n. 39396 del 27/05/2016 dep. 22/09/2016, Rv. 268475 - 01). Del resto, il ricorrente, nel dolersi di tale statuizione, non pone in evidenza elementi oggettivi su cui ancorare una presunta meritevolezza giustificatrice della massima riduzione della pena per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, dolendosi genericamente della "formula ch stile" (invero non qualificabile come tale, perché ancorata ad un giudizio di disvalore complessivo dei fatti, oggetto quindi della valutazione operata ex art. 133 c.p., comma 1), non potendo ritenersi tali quelli indicati nell'atto di appello quali l'incensuratezza o l'atteggiamento- collaborativo dell'imputato al limite dell'autodenuncia, elementi evidentemente già valutati dai giudici di appello all'atto del riconoscimento delle invocate attenuanti, ma considerati come minusvalenti rispetto al disvalore complessivo dei fatti. 7.1. Quanto, poi, all'attenuante di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, comma 3, è sufficiente rilevare come nessuna censura specifica circa il mancato riconoscimento della predetta attenuante fosse stata dedotta nei motivi di appello, configurandosi pertanto la relativa doglianza come inammissibile ex art. 606 c.p.p., comma 3, (Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017 - dep. 14/06/2017, Galdi, Rv. 270316 - 01). 8. In merito, infine, al quarto motivo di ricorso, è ben vero che i giudici di appello, pur avendo ridotto la pena al di sotto dei limiti edittali per i quali è consentito astrattamente il riconoscimento del beneficio, non si sono confrontati con la richiesta prospettata nello specifico motivo di appello. E' tuttavia altrettanto vero che il relativo motivo si appalesava inammissibile, alla luce della motivazione sviluppata dal primo giudice (che, come detto, integra quella di appello) il quale, pur escludendo il riconoscimento del beneficio per la pena (allora) incompatibile con i limiti edittali, purtuttavia aveva comunque motivato sulla non riconoscibilità in concreto dell'invocato beneficio, osservando in particolare come "le numerose violazioni della normativa penale accertate in questa sede impedirebbero comunque di ritenere soddisfatto il giudizio prognostico di non recidivanza", così soddisfacendo, con tale ratio decidendi, il diniego del beneficio della sospensione condizionale della pena. Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui in tema di impugnazioni è inammissibile, per carenza d'interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, che non abbia preso in considerazione un motivo di appello, che risulti ab origine inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto l'eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014 - dep. 11/03/2015, Rv. 263157 - 01). 9. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 11 agosto 2022. Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2022
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