Corte appello Napoli sez. III, 25/07/2023, (ud. 09/06/2023, dep. 25/07/2023), n.7804
In tema di reati di bancarotta, l'assunzione solo formale della carica gestoria non consente l'automatica esenzione dell'amministratore per i reati previsti dagli artt. 216, comma l n. 2), 217, comma 2 e 220 l.f., atteso che questi e non altri è il diretto destinatario, ex art. 2392 c.c., dell'obbligo relativo alla regolare tenuta e conservazione dei libri contabili. Ne consegue che, qualora egli deleghi ad altri in concreto la tenuta della contabilità o comunque consenta che altri assumano di fatto la gestione della società, egli non è esonerato dal dovere di vigilare sull'operato dei delegati o degli amministratori di fatto e, conseguentemente, dalla responsabilità penale, eventualmente in forza del disposto di cui all'art. 40, comma 2 c.p., se viene meno a tale dovere. Tuttavia, se non sussiste alcuna automatica esenzione di responsabilità per l'amministratore solo "formale", nemmeno può altrettanto automaticamente affermarsi la sua responsabilità dolosa per le condotte incriminate dalla legge fallimentare sulla base della mera carica ricoperta e dell'integrazione dell'elemento materiale del reato, essendo necessaria la dimostrazione, non solo astratta e presunta, ma effettiva e concreta, della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di procurare un ingiusto profitto a taluno, attentandosi altrimenti al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale.
Svolgimento del processo
Con la sentenza richiamata nel procedimento in epigrafe il giudice di primo grado condannava gli imputati appellanti per i reati indicati alla pena riportata.
Nei termini di legge gli imputati, a mezzo dei propri difensori, proponevano appello avverso la richiamata sentenza chiedendo:
Pe.Gi.
- assolversi l'imputato per non aver commesso il fatto
- applicarsi il minimo edittale Pa.Pa.
- assolversi l'imputato perché il fatto non sussiste ovvero non costituisce reato.
All'odierna udienza la Corte decideva la causa come da dispositivo allegato al verbale di udienza.
Motivi della decisione
Quanto al merito della decisione di condanna, va subito evidenziato che la sentenza del giudice di primo grado nella ricostruzione dei fatti si basa sull'acquisizione della documentazione nonché sull'esame del curatore fallimentare e dei vari testi escussi.
Veniva in tal modo attestato:
- che Pe.Gi. era socio ed amministratore dal 2007 della Gr. s.r.l. dichiarata fallita nel 2014;
- che presso la sede sociale in Napoli alla via (…) veniva trovato solo uno studio professionale di commercialisti (tra cui il dott. Ze.Ro.) il quale indicava come tenutario della contabilità il dott. Fa.Fa. con studio in Treviso che, contattato ha negato che la fallita sia mai stata propria cliente;
- che la sede operativa in Treviso alla via (…) era chiusa da tempo e l'immobile (di proprietà della In.) risultava locato alla Gl. s.r.l. amministrata dal figlio di Pa.Pa.;
- che Pe.Gi., amministratore della fallita, era contemporaneamente amministratore di altre quindici società;
- che Pa.Pa. veniva indicato come amministratore di fatto della società fallita in particolare da Pe.Fa., Pi.An., Sm.It., Vi.Vi..
Si tratta di elementi la cui valutazione ha consentito al giudice di primo grado di ritenere provata nei confronti di Pe.Gi. e Pa.Pa. le diverse ipotesi di bancarotta fraudolenta contestate.
Né a conclusioni differenti lo stesso perveniva alla luce delle produzioni difensive e degli esami dei testi indicati dalle difese finalizzate a dimostrare l'assenza di responsabilità in capo al singolo imputato personalmente assistito, ma che non venivano ritenute utili allo scopo.
Con un primo motivo, l'appellante Pe.Gi. lamentava di dovere essere assolto per non aver commesso il fatto in quanto all'interno della società fallita aveva un ruolo meramente formale (dal 21.3.2007 al fallimento nel luglio 2014) ed era inconsapevole della pesante esposizione debitoria fino al contatto con il curatore fallimentare. Ed infatti non lo conoscevano i precedenti amministratori Bo.El., St.Se. e Vi.Vi. e non lo conosceva l'autista Pi.An. (dipendente dal 2001 al 2005). Nemmeno lo conosceva Sm.It. proprietario dell'immobile in Treviso ove era la sede operativa della società che veniva restituita libera da persone e cose nel settembre 2007 a seguito di accordi presi da Pa.Pa.. Ebbene, pacificamente risulta dagli atti che Pe.Gi. era socio ed amministratore dal 2007 della Gr. s.r.l. dichiarata fallita nel 2014, nonché contemporaneamente amministratore di altre quindici società.
Altrettanto pacifica erano sia il consistente debito tributario accumulato per un totale di Euro 4.323.095,00 sia la mancata consegna delle scritture contabili da parte dell'appellante, amministratore della società per sette anni prima della dichiarazione di fallimento, il quale non forniva alcuna giustificazione nel merito e non produceva alcuna documentazione nemmeno nel corso dei diversi gradi di giudizio. Debito tributario e scritture contabili che, indipendentemente dalla ricezione dal precedente amministratore, avrebbe dovuto comunque rispettivamente evitare e tenere in considerazione del significativo tempo di assunzione della carica (sette anni).
In merito occorre premettere che deve ritenersi pacifico che l'assunzione solo formale della carica gestoria non consenta l'automatica esenzione dell'amministratore per i reati previsti dagli artt. 216 comma 1 n. 2), 217 comma 2 e 220 legge fall., atteso che questi e non altri è il diretto destinatario ex art. 2392 c.c. dell'obbligo relativo alla regolare tenuta e conservazione dei libri contabili (ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 43977 del 14/07/2017, Pa., Rv. 271754). Da qui il corollario per cui, qualora egli deleghi ad altri in concreto la tenuta della contabilità o comunque consenta che altri assumano di fatto la gestione della società, egli non è esonerato dal dovere di vigilare sull'operato dei delegati o degli amministratori di fatto e, conseguentemente, dalla responsabilità penale, eventualmente in forza del disposto di cui all'art. 40 comma 2 c.p., se viene meno a tale dovere (ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 36870 del 30/11/2020, Ma., Rv. 280133). Se non sussiste alcuna automatica esenzione di responsabilità per l'amministratore solo "formale", nemmeno può, però, altrettanto automaticamente affermarsi la sua responsabilità dolosa per le condotte incriminate dalla legge fallimentare sulla base della mera carica ricoperta e dell'integrazione dell'elemento materiale del reato. Ed è questo il senso dell'orientamento che è venuto consolidandosi nella giurisprudenza per cui è necessaria la dimostrazione, non solo astratta e presunta, ma effettiva e concreta della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o5 per le ipotesi con dolo specifico, di procurare un ingiusto profitto a taluno, attentandosi altrimenti al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale (ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 44293 del 17/11/2005, Li., Rv. 232816; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 642 del 30/10/2013, dep. 2014, De., Rv. 257950; Cass. Sez. 5, n. 40176 del 02/07/2018, Ma., non massimata; Cass. Sez. 5, n. 40487 del 28/05/2018, Br., non massimata; Cass. Sez. 5, n. 34112 del 01/03/2019, Alessio, non massimata).
Principio che non è contraddetto da quell'orientamento (come ad esempio Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19049 del 19/02/2010, Succi, Rv. 247251) secondo cui, mentre con riguardo a quella documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita, atteso il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture, non altrettanto può dirsi con riguardo all'ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell'amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell'imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto. Infatti, le pronunzie che si riconoscono in tale orientamento anzitutto solo incidentalmente si sono occupate del contenuto del dolo della bancarotta documentale ascritta all'amministratore formale, riguardando le rispettive decisioni contestazioni di bancarotta patrimoniale. In secondo luogo, ciò che affermano è che nei confronti dell'amministratore formale, sul piano della prova, sussista una presunzione semplice di conoscenza della situazione contabile, senza con questo voler negare l'irrilevanza della componente rappresentativa del dolo.
Con riguardo alla fattispecie di bancarotta fraudolenta ritenuta nella sentenza impugnata - per la sussistenza del dolo - che è quello generico - non è dunque necessario che l'amministratore formale si sia rappresentato ed abbia voluto gli specifici interventi da altri realizzati, ma è necessario che l'abdicazione dagli obblighi da cui è gravato sia accompagnata quantomeno dalla rappresentazione della significativa possibilità che i soggetti a cui ha consentito di gestire la società alterino fraudolentemente la contabilità impedendo o rendendo più difficile agli organi fallimentari la ricostruzione del patrimonio e del volume d'affari della fallita e ciononostante decida di non esercitare anche solo i suoi poteri-doveri di vigilanza e controllo per evitare che ciò accada.
Sul piano della prova, è ovvio che l'assunzione solo formale della carica costituisce un importante indizio della configurabilità del dolo richiesto per la sussistenza del reato menzionato. Le concrete circostanze in cui tale carica di amministratore è stata mantenuta (per sette anni da parte di soggetto che apparentemente assume incarichi formali a livello professionale se solo si considera che risulta contemporaneamente amministratore di altre quindici società), consentono di trasformare l'indizio in prova diretta dell'elemento psicologico tipico del reato per cui si procede.
Né a conclusioni diverse può pervenirsi in merito alla mancata conoscenza dell'attuale appellante da aperte di diversi altri soggetti coinvolti nella vita societaria trattandosi di soggetti o coinvolti in precedenti fasi che ben potevano non avere avuto rapporti con Pe.Gi. (vedi in particolare i precedenti amministratori) ovvero che comunque avendo rapporti solo con l'amministratore di fatto della società non per questo facevano venire meno l'obiettivo ruolo formale assunto proprio da Pe.Gi.. Il motivo di impugnazione in questione, pertanto, deve essere rigettato confermando le conclusioni a cui è pervenuto il giudice di primo grado.
Con un unico motivo, l'appellante Pa.Pa. lamentava di dovere essere assolto perché il fatto non sussiste ovvero non costituisce reato, in primo luogo, in quanto il curatore fallimentare Pa.Do., precisato che al momento del fallimento l'amministratore era Pe.Gi. e socio era Pe.Fa., riferiva che nella propria attività di indagine non era mai emerso il nome di Pa.Pa.. La difesa, inoltre, nel commentare la deposizione resa da Pe.Fa. (che dichiarava: di avere lavorato per la fallita dal 2001 al 2005-2006 in quanto assunto da Pa.Pa. da cui riceveva lo stipendio e le direttive, di avere visto solo una volta Pe.Gi. quando si recava dal notaio per cedergli le quote, di essersi intestato le quote della fallita su richiesta di Pa.Pa. che le voleva intestare al figlio una volta che lo stesso avesse raggiunto la maggiore età) riteneva lo stesso inattendibile in quanto socio della fallita e per alcuni mesi nel 2003 anche amministratore unico. Lo stesso, a dire dell'appellante, era pure contraddetto dagli atti in quanto a dimostrazione del proprio ruolo di responsabilità era lui stesso ad incontrare gli autisti alle 4 del mattino per impartire direttive (attività che il teste ammetteva di fare ma su ordine di Pa.Pa.). Ancora la difesa nel commentare la deposizione resa da Fi.Ni. (rappresentante della Tn., che indicava come Pa.Pa. risultasse rappresentante della fallita fino al 2007 quando veniva sostituito da Pe.Gi., evidenziava che la stessa risultava smentita dalla visura camerale da cui non emergeva il nome di Pa.Pa. come amministratore. E poi la difesa nel commentare la deposizione di Vi.Vi. (che dichiarava: di avere ricevuto nel 2010-2011 da Pa.Pa. la proposta di occuparsi per qualche mese dell'amministrazione della fallita a titolo di favore personale; di accompagnare in banca Pa.Pa. il quale materialmente effettuava le operazioni; di ricordare che Pe.Fa. avrebbe inviato una raccomandata a Pa.Pa. asserendo di non volere più rivestire la carica di amministratore unico) ne evidenziava la reticenza e contraddittorietà emergente all'esito delle domande e contestazioni (allorquando dichiarava: di essere stato amministratore unico dal giugno 2003 al luglio 2005 quando lasciava la carica perché non aveva guadagnato nulla nonostante un accordo economico fatto con Pa.Pa.; di avere acquistato il 30% delle quote sociali poi cedute a Pe.Gi., che non ricordava; di conoscere Pe.Fa. come autista).
Di contro l'appellante evidenziava il tenore delle deposizioni rese da:
- Bo.El. (amministratore della fallita dall'inizio e per un paio di anni) la quale dichiarava: che Pa.Pa. era un consulente esterno della fallita che metteva in contatto la società con i clienti; che Pe.Fa. e Vi.Vi. erano autisti della fallita ed il primo la coadiuvava nell'attività di organizzazione della parte operativa e di gestione degli impegni con banca commercialisti e clienti al punto che al termine del proprio incarico cedeva a questi, il quale spontaneamente si era reso disponibile, le proprie quote; che non aveva mai pensato di assumere Pa.Pa. ovvero di entrare in società con questi in quanto non le dava sicurezza anche se era perfetto come intermediario.
- St.Se. (amministratore della fallita dopo Bo.El.) il quale dichiarava: di avere accettato l'incarico invogliato dalla presenza attiva di Pa.Pa. che aveva un ruolo di organizzazione e gestiva i rapporti con alcuni fornitori, ma non aveva un ruolo decisionale in quanto le firme in banca le aveva il teste che pagava gli stipendi; che al suo posto subentrava Vi.Vi. al quale consegnava le scritture contabili (e ciò nonostante dalla visura camerale il suo posto fosse passato a Pe.Fa.).
La tesi dell'appellante risultava, infine, ancorata alle dichiarazioni rese dallo stesso Pa.Pa. il quale, in sede di interrogatorio, ricostruiva il proprio ruolo nella fallita come quello di un soggetto incaricato di mettere in contatto la fallita con le società di trasporto (DHL, UPS, SDA) per trasporti dal punto di arrivo (aeroporto di Treviso) al punto di raccolta; ciò avveniva dietro compenso pattuito ma non sempre rispettato; Pa.Pa. per dovere di diligenza nei confronti delle società di trasporto monitorava il lavoro della fallita e dava dritte per portare a buon fine l'incarico;
Pa.Pa. alle volte portava le buste paga ai dipendenti ma lo faceva a titolo di cortesia con soldi non suoi ma dell'azienda; Pa.Pa. collaborava con la fallita fino al 2003-2004 ma senza mai avere un contratto ed uno stipendio e non venendo pagato con regolarità fino a quando non è diventato amministratore Vi.Vi. (al quale aveva chiesto di continuare la collaborazione ma questi aveva rifiutato) e non era andato a lavorare come direttore commerciale con la ditta del figlio Pa.Pa. Ma. (Gl.); Pa.Pa. conosceva come amministratori Bo.El. e St.Se., nonché Pe.Fa. come dipendente.
Di contro occorre in primo luogo evidenziare che le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio dall'imputato lungi dal sostenerne l'estraneità ai fatti per cui si procede ne accreditano piuttosto la piena responsabilità come gestore di fatto della società fallita. Ed infatti, era proprio Pa.Pa. a confermare di monitorare il lavoro della fallita e dare dritte ai dipendenti per portare a buon fine l'incarico nonché di portare alle volte le buste paga ai dipendenti. Avevano così una conferma le circostanze fattuali riferite dal teste Pe.Fa., dall'appellante ritenuto inattendibile ma le cui dichiarazioni, unitamente alle complessive emergenze dibattimentali, impongono di riconoscere il ruolo di amministratore di fatto in capo a Pa.Pa..
Del tutto risibili si presentano, infatti, le giustificazioni addotte dall'imputato ai predetti comportamenti ovvero di avere monitorato i dipendenti e dato loro direttive in quanto soggetto incaricato di mettere in contatto la fallita con le società di trasporto (DHL, UPS, SD A) che agiva in tal guisa per dovere di diligenza verso le società di trasporto; a maggior ragione se si considera che lo stesso Pa.Pa. asseriva di non ricevere il compenso pattuito. Ed ancora più risibili erano le ragioni di cortesia che lo avrebbero indotto a portare le buste paga ai dipendenti mentre personalmente non veniva retribuito con regolarità, ma, ciò nonostante, aveva chiesto di continuare la collaborazione. L'avere riconosciuto di procedere al pagamento degli stipendi (facendo ricorso a danaro della società) e di impartire direttive ai dipendenti, come indicato da Pe.Fa. rende vieppiù credibile la deposizione dello stesso nella parte in cui riferisce di essere stato assunto proprio da Pa.Pa., nonché la deposizione di Vi.Vi. nella parte in cui asseriva di recarsi presso gli istituti di credito unitamente all'attuale imputato.
Deposizioni ancora più credibili e riscontrate se si considera, altresì, quanto riferito dal dipendente della fallita, Pi.An., che assumeva di essere stato assunto da Pa.Pa. vero e proprio factotum della società il quale, ad onta della presenza di amministratori formali, provvedeva a conferire direttive ed a pagare gli stipendi.
Né argomenti di segno contrario possono trarsi dalle deposizioni rese dagli iniziali amministratori della società (Bo.El. e St.Se.) i quali comunque, sia pure escludendone il ruolo di amministratore di fatto, attribuivano un incarico rilevante a Pa.Pa., soggetto che a dire di Bo.El. arrivava a fornire alla stessa finanche il nominativo del proprio socio al 50% St.Se.. Incarico che diveniva col tempo sempre più significativo, man mano che si succedevano i diversi amministratori formali, con ruoli sempre più defilati come da ultimo quello assunto da Pe.Gi. (durato in carica per sette anni e soggetto che apparentemente assume incarichi formali a livello professionale se solo si considera che risulta contemporaneamente amministratore di altre quindici società). Ed infatti, da ultimo è possibile constatare che finanche Sm.It., proprietario dell'immobile in Treviso ove era la sede operativa della società, nemmeno conosceva l'amministratore formale (all'epoca Pe.Gi.) ricevendo la restituzione della sede, libera da persone e cose, nel settembre 2007 a seguito di accordi presi con Pa.Pa.
Il motivo di impugnazione in questione, pertanto, deve essere rigettato confermando le conclusioni a cui è pervenuto il giudice di primo grado.
Con un ultimo motivo, l'appellante Pe.Gi. lamentava applicarsi il minimo edittale.
In realtà nel caso di specie, anche tenendo conto dell'intervenuto riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto alle contestate aggravanti, la valutazione dei parametri normativi consente di ritenere già determinata nei minimi termini (anche inferiori a quelli congrui nella fattispecie) la pena irrogata in considerazione delle circostanze di fatto (plurime ipotesi di bancarotta patrimoniali e documentali) nonché della personalità degli agenti (Pe.Gi. amministratore di diritto asseritamente inconsapevole di molteplici società; Pa.Pa. che continuava ad operare di fatto nella società destinata al fallimento in cui altri soggetti assumevano il ruolo formale). Il motivo di impugnazione in questione, pertanto, deve essere rigettato confermando le conclusioni a cui è pervenuto il giudice di primo grado.
Alla luce di quanto fin qui indicato, tenuto conto dei dati emergenti dagli atti e delle argomentazioni fin qui esposte, deve confermarsi la sentenza del giudice di primo grado da ritenersi corretta sia in ordine alla qualificazione giuridica operata, sia in ordine alla pena irrogata.
Alla conferma della sentenza di primo grado segue per legge la condanna degli appellanti al pagamento delle maggiori spese processuali.
P.Q.M.
Letto l'art. 605 c.p.p., conferma la sentenza emessa in data 6.7.2022 dal Tribunale di Napoli nei confronti di Pe.Gi. e Pa.Pa., ed appellata dagli imputati.
Condanna gli appellanti al pagamento delle maggiori spese processuali. Giorni 90 per il deposito delle motivazioni.
Così deciso in Napoli il 9 giugno 2023.
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2023.