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Atti persecutori: la querela è valida anche se “tardiva” se c'è una nuova condotta (Cass. pen. n. 18868/25)

stalking

La sentenza della Corte di Cassazione, Sez. V penale, n. 18868 del 2025, offre l’occasione per ribadire alcuni fondamentali principi in tema di atti persecutori ex art. 612-bis c.p., con particolare riferimento alla natura dell’evento "per accumulo", alla procedibilità della querela, al divieto di bis in idem in relazione a precedenti provvedimenti di archiviazione, e infine ai limiti di sindacabilità in Cassazione della determinazione della pena.


1. La natura unitaria del reato di atti persecutori e la rilevanza della querela "tardiva"

Nel rigettare il motivo di ricorso che deduceva la tardività della querela rispetto a fatti commessi tra il 2015 e il 2020, la Corte ha richiamato il consolidato orientamento secondo cui il reato di atti persecutori, in quanto reato abituale, si consuma con il compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa (cfr. Cass. pen., Sez. V, n. 7899/2019; n. 17000/2020; n. 3781/2020).

La conseguenza è che, anche in presenza di una querela apparentemente tardiva rispetto ai primi episodi, la proposizione tempestiva in relazione ad atti successivi, ma parte della medesima campagna persecutoria, consente di ritenere l’intera condotta penalmente rilevante.

La Corte ha ribadito inoltre che la querela non richiede formule sacramentali: è sufficiente che si manifesti la volontà punitiva, anche in forma implicita (cfr. Cass. pen., Sez. 5, n. 2665/2022; Sez. 4, n. 46994/2011).


2. Sull’irrilevanza del decreto di archiviazione rispetto al divieto di bis in idem

Altro profilo rilevante è il rigetto del motivo fondato sull’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p., per presunta identità tra i fatti oggetto della querela del 2022 e quelli già archiviati nel 2019.

La Corte, seguendo il più recente orientamento (Cass. pen., Sez. 1, n. 39498/2023), ha chiarito che il decreto di archiviazione non ha effetti preclusivi assimilabili a una sentenza irrevocabile, in quanto non costituisce una pronuncia sul merito e non è suscettibile di acquisto del giudicato sostanziale. Pertanto, non integra una violazione del divieto di un secondo giudizio.


3. Sulla corretta determinazione della pena

È stato ritenuto infondato anche il motivo di ricorso fondato sulla presunta erronea individuazione della cornice edittale, con riferimento al fatto che il giudice di primo grado avrebbe calibrato la pena in misura più elevata rispetto al minimo edittale, assimilando i limiti sanzionatori del reato di maltrattamenti.

La Corte ha confermato la piena discrezionalità del giudice di merito nella dosimetria della pena, nei limiti dell’art. 133 c.p., e ha affermato l’insindacabilità in sede di legittimità della valutazione se sorretta da motivazione congrua e non illogica, come nel caso di specie.


La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V, 08/05/2025, (ud. 08/05/2025, dep. 20/05/2025), n.18868

RITENUTO IN FATTO


1. Con la sentenza impugnata la Corte d'Appello di Milano ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di Mu.Ad. per il reato di atti persecutori commesso ai danni di Ma.Si..


2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato deducendo vizi di motivazione e violazioni della legge processuale e di quella sostanziale.


2.1. Il ricorrente ripropone poi alcune eccezioni processuali già dedotte con i motivi d'appello, lamentando che la sentenza non le avrebbe confutate.


Con il primo motivo lamenta la mancanza della condizione di procedibilità, dal momento che la querela dell'11 luglio 2022 si riferisce a fatti compresi nell'arco temporale 2015-2020, con conseguente tardività della stessa.


Ad ogni modo, le condotte poste in essere dall'imputato in epoca successiva al 2020 sono descritte in termini generici.


Inoltre, nella querela dell'11 luglio 2022 difetterebbe ogni istanza punitiva.


2.2. Con il secondo motivo ed il terzo motivo invoca l'applicazione del ne bis in idem, nonché la manifesta illogicità della motivazione in ordine al rigetto del motivo difensivo su tale principio.


La querela dell'11 luglio 2022 ripropone i fatti oggetto della precedente querela del 13 agosto 2019, archiviata su richiesta del PM, circostanza che integra la violazione dell'art. 649 cod. proc. pen.


La risposta data all'eccezione dalla Corte di appello è irragionevole in quanto cita un precedente di legittimità che si riferisce ai rapporti tra condanna ed archiviazione per particolare tenuità, evenienza non equiparabile all'archiviazione per remissione di querela come avvenuto nella presente vicenda.


2.3. Con il quarto motivo, la difesa censura la determinazione della pena in base alla cornice edittale di altro reato.


Invero, il giudice di primo grado, con motivazione confermata dai giudici di appello, dopo aver precisato di non volersi discostare di molto dai limiti edittali, tuttavia ha determinato la pena in anni tre, discostandosi di molto dal minimo, indicato in anni uno di reclusione.


In altri termini, erroneamente il Tribunale ha determinato la pena facendo riferimento alla cornice edittale di altro reato (maltrattamenti).


3. Con requisitoria scritta del 19 aprile 2025, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, dott. Ferdinando Lignola, chiede il rigetto del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.


2. Pregiudiziale è l'esame delle eccezioni processuali sollevate dal ricorrente.


In proposito è anzitutto necessario rilevare in via preliminare come il ricorso si limiti in tutti i casi ad enunciare vizi riconducibili all'art. 606, lette C) ed E), cod. proc. pen., sostenendo che la Corte territoriale non avrebbe confutato le argomentazioni difensive poste a sostegno delle singole eccezioni nel gravame di merito e riportate pedissequamente.


Si tratta di impostazione che invero non soddisfa il requisito di specificità richiesto per l'ammissibilità dell'impugnazione, posto che, contrariamente a quanto sostenuto, la sentenza impugnata ha preso in considerazione tutte le eccezioni articolate con i motivi d'appello, rigettandole con motivazione con la quale il ricorrente non si è confrontato, limitandosi per l'appunto ad asserire che le risposte dei giudici del merito non sarebbero in grado di superare i rilievi difensivi, ma omettendo di spiegare le ragioni che dovrebbero sostenere tale assunto.


Quanto poi all'eccepita tardività della querela rispetto ad alcuni degli atti invece ricompresi nel perimetro della contestazione, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità per cui il delitto previsto dell'art. 612-bis cod. pen., attesa la sua natura abituale, è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell'evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell'ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell'evento (ex multis Sez. 5, n. 7899 del 14/01/2019, P., Rv. 275381), con la conseguenza che non rileva la non punibilità o perseguibilità per difetto di querela dei singoli fatti-reato previsti dalla fattispecie incriminatrice e costituenti l'unitaria sequenza criminosa determinativa di uno degli eventi tipici (Sez. 5, n. 3776 del 24/11/2020, dep. 2021, G., Rv. 280416).


Deve essere evidenziato che l'evento o, meglio, gli eventi alternativi (ciascuno dei quali è idoneo a realizzare il reato cfr. Sez. 5, n. 29782 del 19/05/2011, L., Rv. 250399; Sez. 5, n. 34015 del 22/06/2010, De Guglielmo, Rv. 248412), che disegnano la tipicità oggettiva della fattispecie di atti persecutori si realizzano "per accumulo" di condotte reiterate, le quali integrano minacce e molestie verso taluno, tanto da provocargli un grave stato d'ansia o di paura, ovvero da ingenerare fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto ovvero ancora da costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.


Orbene, tale evento "per accumulo" rimane unico, ed unico si configura anche il reato, pur se, come nel caso di specie, di seguito al suo perfezionamento, la condotta prosegua ed arrivi ad ulteriore, definitiva consumazione, aggravandone le conseguenze, e cioè amplificando la dimensione dell'evento dannoso generato dalle condotte antecedentemente poste in essere (Sez. 5, n. 17000 del 11/12/2019, dep. 2020, A., Rv. 279081).


Ciò perché, nel caso in cui la condotta del ricorrente si inscrive nella medesima logica persecutoria e nel medesimo contesto di reato già delineato dall'imputazione, non può dirsi che essa sia manifestazione di una nuova e diversa "campagna persecutoria" contro la vittima, bensì piuttosto costituisce l'apoteosi di quella già in atto.


Il delitto di atti persecutori, infatti, si consuma al compimento dell'ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, cosicché l'unitarietà della condotta di atti persecutori non può essere interrotta dall'essersi realizzato prima l'uno o l'altro dei plurimi eventi previsti dalla disposizione incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 3781 del 24/11/2020, dep. 2021, S., Rv. 280331), né dalla presentazione della querela, la cui funzione è solo quella di rimuovere l'ostacolo alla procedibilità del reato e non già quella di segnare il momento consumativo del reato (ex multis, Sez. 5, n. 15651 del 10/02/2020, T., Rv. 279154).


In definitiva, qualora i diversi atti posti in essere dall'agente si rivelino essere i segmenti della medesima ed unitaria condotta persecutoria, la circostanza che alcuni di essi siano stati posti in essere successivamente alla proposizione della querela non consente di ritenere che questi ultimi integrino un nuovo ed autonomo reato (Sez. 5, n. 41431 del 11/07/2016, R., Rv. 267868 e Sez. 5, n. 31996 del 15/03/2018, S., Rv. 273640, in motivazione). Né rileva che la sequenza di comportamenti realizzati anteriormente alla presentazione della querela abbia già causato uno degli eventi tipici, se gli atti successivi lo hanno prolungato o aggravato.


Nel caso di specie, dalla piana lettura della querela dell'11 luglio 2022 e delle successive integrazioni del 14 luglio 2022, 4 agosto 2022, 26 agosto 2022, 5 settembre 2022 e 24 ottobre 2022 emergono plurime condotte (che si collocano tra il 9 luglio ed il 15 ottobre 2022) dimostrative della prosecuzione della condotta persecutoria, attraverso il compimento di ulteriori atti tipici che hanno spostato il momento consumativo di quello che è rimasto un unico reato, risultando dunque corrette le conclusioni assunte sul punto dalla Corte territoriale.


Inoltre, dagli atti prima ricordati emergono con specifica e puntuale descrizione le plurime condotte persecutorie realizzate dall'odierno ricorrente.


Anche la doglianza con la quale si contesta che la querela dell'11 luglio 2022 difetterebbe ogni istanza punitiva è infondata.


Le deduzioni difensive sono manifestamente infondate in presenza della prima denuncia proposta da Ma.Si. dell'11 luglio 2022 (che riporta come oggetto il riferimento al verbale di ricezione di denuncia orale) e in cui viene espressamente dato atto che è presente la persona in epigrafe compitamente generalizzata, la quale denuncia quanto segue.


È costante principio di diritto espresso da questa Corte che, ai fini della validità di una querela, non è necessario l'uso di formule sacramentali, essendo sufficiente la denuncia dei fatti e la chiara manifestazione della volontà della persona offesa di voler perseguire penalmente i fatti denunciati (ex multis, Sez. 5, n. 18267 del 29/01/2019, Crocetti, Rv. 275912; Sez. 4, n. 46994 del 15/11/2011, Bozzetto, Rv. 251439); ove tale intendimento non emerga in modo univoco dal contenuto della dichiarazione raccolta dalla polizia giudiziaria, è possibile fare ricorso ad altri fatti dimostrativi del medesimo intento (Sez. 3, n. 10254 del 12/02/2014, Q., Rv. 258384); la volontà di punizione può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione, i quali, ove emergano situazioni di incertezza, debbono, comunque, essere interpretati alla luce del favor querelae (da ultimo, Sez, 5, n. 2665 del 12/10/2021, dep. 2022, PmT c/ E., Rv. 282648; Sez. 5, n. 2665 del 1210/2021, Baia, Rv. 282648).


Si è affermato altresì che, in tema di reati perseguibili a querela, la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengano la sua esplicita manifestazione; tale volontà può essere riconosciuta anche nell'atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile, nonché nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio (Sez. 5, n. 43478 del 19/10/2001, Cosenza, Rv. 220259; Sez. 2, n. 19077 del 03/05/2011, Maglia, Rv. 250318; Sez. 5, n. 15691 del 06/12/2013, dep. 2014, Anzalone, Rv. 260557).


Ne viene che l'orientamento della Corte di legittimità deponga indubitabilmente per la più ampia esegesi dell'intento querelatorio, dal momento che anche in caso di assenza di esplicite manifestazioni di volontà la pretesa punitiva è suscettibile di riconoscimento sulla base di indicatori di natura equipollente, la cui ricorrenza, pur nella ipotesi di possibile ambiguità, deve in ogni caso privilegiare l'interpretazione favorevole all'intendimento a che si proceda contro il responsabile.


Nel caso di specie, peraltro, l'impulso querelatorio è di lampante nettezza, dal momento che la volontà punitiva, enunciata con inequivoca esplicitazione, emerge: --a) dalla proposizione di formale denuncia (cui si aggiungono le successive denunce orali ovvero integrazioni di denuncia orale); -b) dalla integrazione di denuncia querela del 24 ottobre 2022, con la quale la persona offesa chiedeva l'accertamento e la punizione di tutti i reati che venissero raffigurati oltre la contestuale richiesta di adozione di provvedimenti di cui all'art. 282 ter cod. proc. pen.


3. Il secondo ed il terzo motivo sono infondati.


La questione della contemporanea pendenza, per il medesimo fatto, di un decreto di archiviazione e di una sentenza di condanna è rilevante, dovendosi valutare l'applicabilità o meno - in tale situazione - del disposto dell'art. 649 cod. proc. pen.


L'accertamento della violazione del divieto di un secondo giudizio, infatti, conduce all'emissione, in ogni stato e grado del giudizio, di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, ovvero al rilievo dell'esistenza di una situazione di litispendenza e, correlativamente, alla declaratoria di improcedibilità dell'azione penale, eventualmente esercitata una seconda volta.


Ciò in ossequio al principio secondo cui "non può essere nuovamente promossa l'azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M., di talché nel procedimento eventualmente duplicato dev'essere disposta l'archiviazione oppure, se l'azione sia stata esercitata, dev'essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità" (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231800; conforme Sez. 3, n. 17917 del 10/03/2016, Andreini, Rv. 266582).


Del resto, l'art. 4 del Protocollo n. 7 C.E.D.U. prevede che "Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato"; nel diritto interno il divieto di un secondo giudizio, come conseguenza dell'irrevocabilità della sentenza e degli altri provvedimenti giurisdizionali ad essa assimilati, è previsto dall'art. 649 cod. proc. pen., ed è ricondotto dalla giurisprudenza costituzionale agli artt. 24 e 111 Cost. (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 501/2000, 284/2003, 129/2008 e 200/2016): la Corte costituzionale ha in particolare osservato - nelle motivazioni della sentenza da ultimo citata - che tra le garanzie processuali del "giusto processo" vi è il principio di civiltà giuridica espresso dal divieto di bis in idem, "grazie al quale giunge un tempo in cui, formatosi il giudicato, l'individuo è sottratto alla spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. In caso contrario, il contatto con l'apparato repressivo dello Stato, potenzialmente continuo, proietterebbe l'ombra della precarietà nel godimento delle libertà connesse allo sviluppo della personalità individuale, che si pone, invece, al centro dell'ordinamento costituzionale".


Il divieto di un secondo processo è, dunque, principio generale, avente valenza sostanziale e processuale, che, in quest'ultima dimensione, assicura l'esigenza di certezza del diritto e di economia dei giudizi, mentre nella sua accezione sostanziale mira a evitare l'irrazionale ingiustizia di una pluralità di condanne per il medesimo fatto: ne consegue che se il fatto storico oggetto del secondo giudizio coincide, in tutti gli elementi della triade "condotta - nesso causale - evento naturalistico", con quello già accertato dalla sentenza definitiva, la prosecuzione del processo è preclusa dalla previsione dell'art. 649 cod. proc. pen.


3.1. Occorre però ricordare che - secondo i principi maturati nella giurisprudenza di legittimità, in tema di divieto di bis in idem - l'emissione di una sentenza o di un decreto penale di condanna non è preclusa dall'esistenza, relativamente al medesimo fatto storico, di un precedente decreto di archiviazione, non essendo questo un provvedimento suscettibile di esecuzione o di conseguire l'irrevocabilità (si veda, da ultimo, Sez. 1, n. 39498 del 07/06/2023, Mauro, Rv. 285053, nella cui parte motiva può leggersi quanto segue: "dirimente, per valutare se sussista una violazione del divieto di bis in idem quando il medesimo fatto sia stato, in tutto o in parte, oggetto di una sentenza di condanna e di un decreto di archiviazione, in particolare se emesso ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., è la natura da attribuire a quest'ultimo. Gli artt. 649 e 669 cod. proc. pen., infatti, individuano tale violazione solo con riferimento all'avvenuta emissione di 'sentenze o 'decreti penali di condanna'. Il tenore letterale di queste norme impone, quindi, di escludere che un decreto di archiviazione possa costituire un provvedimento equiparabile alla sentenza o al decreto penale di condanna, con riferimento al rispetto del divieto di un secondo giudizio stabilito dall'art. 649 cod. proc. pen., e che possa sollevarsi questione di litispendenza tra un decreto di archiviazione e una sentenza o un decreto penale di condanna, salvo il caso della preclusione all'esercizio dell'azione penale derivante dalla violazione dell'art. 414 c.p.p."; si vedano anche Sez. 6, n. 6241 del 29/01/2020, S., Rv. 278709 e Sez. 5, n. 663 del 28709/2021, dep. 2022, Leto, Rv. 282529, che ha statuito quanto segue: "in tema di divieto di un secondo giudizio, le nozioni di bis in idem processuale e di bis in idem sostanziale non coincidono in quanto la prima, più ampia, ha riguardo al rapporto tra il fatto storico, oggetto di giudicato ed il nuovo giudizio e, prescindendo dalle eventuali differenti qualificazioni giuridiche, preclude una seconda iniziativa penale là dove il medesimo fatto, nella sua dimensione storico-naturalistica, sia stato già oggetto di una pronuncia di carattere definitivo; la seconda, invece, concerne il rapporto tra norme incriminatrici astratte e prescinde dal raffronto con il fatto storico").


Ad ogni buon conto, l'art. 612-bis, comma quarto, cod. pen., facendo riferimento alla necessità di una remissione processuale, evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli artt. 152 cod. pen. e 340 cod. proc. pen.


L'art. 340 cod. proc. pen., che disciplina la remissione processuale, stabilisce che "la remissione della querela è fatta e accettata personalmente o a mezzo di procuratore speciale, con dichiarazione ricevuta dall'autorità procedente o da un ufficiale di polizia giudiziaria che deve trasmetterla immediatamente alla predetta autorità".


Dal chiaro tenore letterale della norma, emerge che la remissione processuale non richiede una sua prestazione direttamente al giudice o al pubblico ministero, durante lo svolgimento della fase processuale vera e propria, ma esige unicamente che l'atto sia prestato davanti ad un'autorità giudiziaria o di polizia giudiziaria, nel corso della più ampia fase procedimentale.


In altri termini, la remissione processuale va identificata in una formale espressione della volontà della parte querelante che interviene nel processo, direttamente o a mezzo di procuratore speciale, ricevuta dall'autorità giudiziaria che procede.


Nel caso di specie, al fine di accertare la sussistenza della libertà di autodeterminazione della parte offesa che la previsione della dimensione esclusivamente processuale della remissione sottende, il ricorrente nulla ha provato non avendo depositato l'intervenuta remissione, deposito necessario a verificare il requisito dell'assenza di coartazione già richiamato.


Ad ogni modo, nel caso di specie, come evincibile dalla lettura della denuncia orale dell'11 luglio 2022 e successive integrazioni di denuncia, sono descritte altre e diverse condotte rispetto a quelle della precedente querela del 13 agosto 2019.


4. Anche il quarto motivo è manifestamente infondato.


Invero, la difesa non si confronta con la motivazione offerta dalla Corte di appello in tema di trattamento sanzionatorio, tenuto conto che la pena è considerata congrua ai sensi dell'art. 133 cod. pen., attesa la obiettiva gravità degli atti persecutori, cessati solo a fronte


della misura cautelare, cosicché, in assenza di elementi specifici a sostegno di una valutazione più favorevole, salvo indimostrati riferimenti ad erronea individuazione della cornice edittale, che non vengono spesi nemmeno nel ricorso in esame, la motivazione di congruità della Corte territoriale non è censurabile.


5. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al rigetto del ricorso, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.


P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli atti dati identificativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003, in quanto imposto dalla legge.


Così deciso in Roma l'8 maggio 2025.


Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2025.

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