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Abuso d'ufficio: sussiste in caso di rilascio titolo abilitativo edilizio in violazione del PRG


Corte di Cassazione

La massima

In tema di abuso di ufficio, il rilascio del titolo abilitativo edilizio avvenuto senza il rispetto del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici integra la violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge, così come richiesto dalla nuova formulazione dell' art. 323 c.p. ad opera dell' art. 16 d.l. 16 luglio 2020, n. 76 , conv. nella l. 11 settembre 2020, n. 120 , atteso che l' art.12, comma 1, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 prescrive espressamente che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi agli strumenti urbanistici ed il successivo art. 13 detta la specifica disciplina urbanistica che il direttore del settore è tenuto ad osservare.



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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. VI, 17/09/2020, (ud. 17/09/2020, dep. 12/11/2020), n.31873

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Firenze riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Siena che aveva condannato P.C. per il reato di cui agli artt. 81,110 e 323 c.p., dichiarando non doversi procedere perchè il reato estinto per prescrizione e confermando le statuizioni civili in favore della parte civile, il Comune di Monteriggioni.


All'imputato era stato contestato di aver, in qualità di responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Monteriggioni, in concorso con altri (committenti e direttore dei lavori), rilasciato permessi di costruire in violazione di legge, consentendo la costruzione di una rimessa in zona agricola non consentita dal Piano strutturale comunale e al Regolamento urbanistico Comunale, nonchè autorizzando la trasformazione d'uso dell'immobile, procurando intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale ai committenti e alle imprese esecutrici.


In sede di appello, la Corte territoriale assolveva i coimputati del P. per non aver commesso il fatto, in quanto difettava la prova del loro concorso nel reato.


Quanto alla posizione del P., la Corte di appello, nell'esaminare i motivi di appello ai fini dell'art. 578 c.p.p., rilevava che era infondata la censura con cui l'appellante aveva dedotto la carenza di motivazione della sentenza di primo grado in ordine ai suoi "previ contatti illeciti" con i coimputati. Sul punto la Corte territoriale rilevava che il reato contestato non richiedeva la prova dell'esistenza di un accordo collusivo con i soggetti favoriti, rilevando piuttosto nel caso in esame la macroscopica illegittimità degli atti posti in essere, evidentemente finalizzati a far conseguire ai predetti un vantaggio patrimoniale.


La Corte di appello riteneva inammissibile il secondo motivo di gravame, in quanto le deduzioni espresse si presentavano assolutamente generiche e aspecifiche rispetto alle argomentazioni della sentenza appellata.


2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, il difensore dell'imputato, denunciando i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..


2.1. Vizio di motivazione in relazione al primo motivo di appello.


La Corte di appello ha ritento inammissibile l'appello in ordine alla questione della regolarità dei permessi e non ha esaminato i medesimi rilievi sollevati dai coimputati ritenendo risolutiva per la loro posizione la mancanza di prova del concorso.


E' quindi viziata logicamente la decisione della Corte di appello là dove ritiene la macroscopica illegittimità degli atti posti in essere senza aver esaminato il punto.


La difesa con l'appello aveva anche contestato la mancanza del dolo e la Corte di appello nulla ha argomentato sul punto.


2.2. Violazione di legge in relazione al contestato reato ex art. 232 c.p. (rectius art. 323) in relazione al primo motivo di appello.


La Corte di appello ha dato per scontato il dolo dal comportamento non iure.


2.3. Violazione di legge in relazione al secondo motivo di appello.


La Corte di appello ha ritento inammissibile l'appello in ordine alla questione della regolarità dei permessi e non ha esaminato i medesimi rilievi sollevati dai coimputati ritenendo risolutiva per la loro posizione la mancanza di prova del concorso.


La Corte di appello se avesse esaminato i motivi di lagnanza avrebbe potuto rilevare la correttezza amministrativa dell'iter seguito (andavano applicate le norme del regolamento urbanistico e non della variante al PRG nè tanto meno della L. n. 122 del 1989).


I motivi svolti dai coimputati interessavano oggettivamente tutte le posizioni e avrebbero giovato il ricorrente ex art. 587 c.p.p..


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.


2. Del tutto destituita di fondamento è la tesi sostenuta dal ricorrente in ordine al motivo di appello dallo stesso proposto - relativo al tema della legittimità degli atti amministrativi rilasciati - che la Corte di appello non ha esaminato in quanto generico.


Il ricorrente non contesta tale declaratoria di inammissibilità del motivo di appello, ma lamenta il mancato esame da parte della Corte di appello del motivo proposto dai coimputati vertente sulla medesima questione.


Un primo profilo di inammissibilità della censura proposta attiene alla sua genericità. Il ricorrente invero non illustra specificatamente il contenuto del motivo di appello dei coimputati, per stabilire la rilevanza della questione e consentire alla Suprema Corte di definire ammissibile tale punto del gravame (Sez. 6, n. 21739 del 29/01/2016, Tarantini, Rv. 266917).


Un secondo profilo di inammissibilità riguarda la richiesta dell'applicazione dell'art. 587 c.p.p. là dove il motivo di appello dei coimputati non era stato per nulla esaminato dalla Corte di appello.


Il principio previsto dall'art. 587 c.p.p., riguarda invero l'estensione, all'imputato non impugnante sul punto, degli effetti favorevoli derivanti dall'accoglimento del motivo di natura oggettiva dedotto dal coimputato, ma non implica l'estensione da un coimputato all'altro dei motivi di impugnazione, con conseguente dovere da parte del giudice di esaminarli (Sez. 1, n. 44319 del 30/09/2014, Gargiulo, Rv. 261697, fattispecie in cui la Corte di legittimità ha escluso che un motivo di ricorso per cassazione dedotto da un imputato, dichiarato assorbito per l'accoglimento di altra censura, dovesse essere comunque deciso nell'interesse di altro coimputato che non aveva proposto analoga doglianza).


3. Inammissibili sono anche le critiche relative al dolo.


Va osservato che il relativo motivo di appello è stato definito generico e aspecifico dalla Corte di appello.


A tal riguardo è sufficiente osservare che la Corte territoriale, nell'affrontare la questione sottoposta dal ricorrente nel primo motivo di appello della mancanza della prova di un accordo collusivo tra gli imputati, aveva ritenuto correttamente che tale aspetto non rilevasse al fine della prova del dolo del reato in rassegna.


La prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 c.p., prescinde infatti dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento "non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (tra le tante, Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma, Rv. 272331).


Ebbene, quanto alla macroscopicità illegittimità degli atti assunti dal ricorrente, la Corte di appello, nel ritenere aspecifica la censura proposta sul punto dal ricorrente, aveva rinviato alle argomentazioni della sentenza di primo grado, che davano effettiva contezza non solo della obiettiva macroscopicità delle violazioni di legge, ma anche la loro reiterazione, indice plausibile della direzione della azione.


4. Alla stregua di tali rilievi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. L'inammissibilità del ricorso non esime la Corte di cassazione dall'esaminare la questione della rilevanza nel caso in esame della nuova formulazione dell'art. 323 c.p., a seguito della novella introdotta dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, conv. dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, recante: "Misure urgenti per la semplificazione l'innovazione digitale", che ha sostituito le parole "di norme di legge o di regolamento," con quelle "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".


Aderendo ad analoga conclusione cui è pervenuta questa Corte (Sez. 3, n. 26834 del 08/09/2020, Campolattano, in motivazione), il Collegio ritiene che l'interpretazione della nozione di "violazione di legge" come delineata dalla citata giurisprudenza sia pienamente condivisibile anche nel mutato quadro normativo.


Come più volte affermato da questa Corte, il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi - ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1, - "alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente". Dall'espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una "violazione di legge", rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 323 c.p. (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo, Rv. 254015; Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147).


Seguendo questa elaborazione giurisprudenziale, deve ribadirsi che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell'indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 12 e 13) (tra tante, Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147), normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la "violazione di legge", quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 c.p. anche seguito della modifica normativa.


La normativa in questione integra inoltre l'ulteriore requisito richiesto dalla modifica normativa, in quanto si tratta di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità: l'art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire e il successivo art. 13 cit. detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.


Pertanto, deve escludersi che nel caso in esame assuma rilievo la modifica normativa.


5. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.


In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila Euro, in favore della Cassa delle Ammende.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.


Così deciso in Roma, il 17 settembre 2020.


Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2020

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