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Non solo frodi: anche le omissioni tributarie possono integrare la bancarotta (Cass. Pen. n. 24692/25)

Aggiornamento: 9 ore fa


Non solo frodi: anche le omissioni tributarie possono integrare la bancarotta (Cass. Pen. n. 24692/25)

Indice:


1. Premessa

La sentenza della Corte di cassazione penale, Sez. V, 17 giugno 2025, n. 24692, offre l’occasione per tornare a riflettere su uno dei nodi più delicati del diritto penale fallimentare: la configurazione della bancarotta da operazioni dolose ex art. 223, comma 2, n. 2, L. fall., oggi trasfusa nell’art. 329 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII).

Il caso affronta il tema del mancato versamento sistematico di imposte e contributi come “operazione dolosa” idonea a cagionare il dissesto, nonché la controversa questione della linea di confine tra evento-fallimento ed aggravamento del dissesto.


2. Il caso e la decisione

Gli imputati, amministratori di una società, venivano condannati per avere cagionato il fallimento attraverso una strategia protratta di omissioni tributarie e previdenziali, accumulando un debito di oltre 3,8 milioni di euro.

La difesa contestava la ricostruzione, denunciando:

  • l’erronea estensione della fattispecie all’aggravamento del dissesto, con rischio di analogia in malam partem;

  • l’uso improprio della categoria del dolo eventuale;

  • la violazione dei principi di tassatività e determinatezza.

La Suprema Corte, tuttavia, ha respinto i ricorsi, riaffermando la compatibilità costituzionale dell’interpretazione ormai consolidata: il termine “fallimento” va letto in senso sostanziale come dissesto irreversibile, e anche le concause o gli aggravamenti sono idonei ad integrare l’evento del reato.


3. Dissesto, fallimento e concorso di cause

Uno dei passaggi più significativi della decisione riguarda la qualificazione dell’evento.

Se la lettera della legge fallimentare parlava di “fallimento”, la giurisprudenza da tempo ne ha offerto una lettura sostanziale: non il mero provvedimento giurisdizionale, ma la situazione oggettiva di decozione generata dalle operazioni dolose.

In questa prospettiva, la Cassazione ribadisce che:

  • il nesso causale non è interrotto dalla preesistenza di un dissesto;

  • anche l’aggravamento di un dissesto già in atto può costituire evento tipico;

  • l’art. 41 c.p. legittima il rilievo delle concause.

Ne risulta un modello di imputazione ampio, volto a colpire non solo la condotta che inaugura il dissesto, ma anche quella che lo intensifica irreversibilmente.


4. L’elemento soggettivo: dolo delle operazioni e prevedibilità del dissesto

Il cuore della pronuncia si colloca sul piano dell’elemento psicologico.

La Corte distingue nettamente tra:

  • la bancarotta dolosa “pura”, in cui l’evento-fallimento rientra nel fuoco del dolo;

  • la bancarotta da operazioni dolose, dove il dolo investe la condotta (operazioni antidoverose), mentre l’evento (dissesto) deve essere prevedibile in concreto.

È in questa nozione di prevedibilità che si gioca l’equilibrio costituzionale della fattispecie: la responsabilità penale richiede che l’agente potesse rappresentarsi, alla luce delle circostanze concrete, che le operazioni poste in essere erano destinate a condurre l’impresa verso un dissesto irreversibile.

La Cassazione richiama la giurisprudenza costituzionale (sent. n. 55/2021), che ha valorizzato la prevedibilità come criterio di imputazione soggettiva graduata, sufficiente a preservare il principio di colpevolezza senza scivolare nella responsabilità oggettiva.


5. La questione di legalità e il divieto di analogia

La difesa aveva sollevato anche un’eccezione di incostituzionalità, denunciando la violazione del divieto di analogia in malam partem.

Secondo i ricorrenti, estendere la fattispecie anche all’“aggravamento del dissesto” avrebbe tradito la lettera della legge, introducendo un nuovo reato senza base legale.

La Cassazione respinge l’argomento, osservando che:

  • la nozione sostanziale di “fallimento” come dissesto è ius receptum da decenni;

  • il legislatore del CCII ha confermato tale approccio, sostituendo espressamente il termine “fallimento” con “dissesto”;

  • l’area applicativa resta quindi dentro i confini semantici consentiti dal testo normativo, non oltrepassandoli.


6. Il mancato versamento di imposte come “operazione dolosa”

Un profilo particolarmente rilevante riguarda la qualificazione delle sistematiche omissioni tributarie come operazioni dolose.

La Corte sottolinea che non ogni inadempimento fiscale rileva penalmente: ciò che conta è la scelta gestionale consapevole di sottrarsi sistematicamente agli obblighi verso l’erario, utilizzando il mancato versamento come forma surrettizia di autofinanziamento.

Si tratta dunque di una “strategia antidoverosa” intrinsecamente pericolosa per la salute economica dell’impresa, e per questo idonea a fondare la responsabilità penale per bancarotta da operazioni dolose.


7. Conclusioni: verso un’espansione silenziosa del penale fallimentare

La sentenza n. 24692/2025 conferma la parabola estensiva che la giurisprudenza di legittimità sta tracciando nel solco della bancarotta da operazioni dolose.

La sistematica omissione di versamenti tributari e contributivi, se frutto di una precisa strategia gestionale, non è più vista come mera irregolarità fiscale, ma come “operazione dolosa” idonea a determinare – in via diretta o per aggravamento – il dissesto societario.

Il cuore della decisione sta nell’aver ribadito che il dolo non deve necessariamente abbracciare l’evento fallimentare in sé, ma può concentrarsi sulle condotte gestorie “intrinsecamente pericolose”, purché il dissesto risulti prevedibile in concreto.

È una costruzione che, da un lato, preserva il principio di colpevolezza, evitando automatismi; dall’altro lato, tuttavia, amplia significativamente l’area della punibilità.

In questa prospettiva, la linea di confine tra scelte imprenditoriali azzardate e condotte penalmente rilevanti tende a farsi sempre più sottile.

L’ordinamento, nel valorizzare la prevedibilità del dissesto come criterio di imputazione soggettiva, finisce per ricondurre nel penale comportamenti che tradizionalmente appartenevano al terreno della responsabilità civile o amministrativa.

Il risultato è un progressivo slittamento del diritto penale fallimentare verso la sanzione non solo della frode manifesta, ma anche della gestione imprudente o negligente che si traduce in inadempimenti sistematici.

Una traiettoria che solleva interrogativi di politica criminale: fino a che punto è compatibile con il principio di offensività? E fino a che punto il diritto penale può farsi strumento di supplenza di fronte all’inefficacia dei controlli fiscali e civilistici?

Domande aperte, che rendono evidente come il terreno della bancarotta resti oggi un laboratorio di confine, dove si sta consumando – spesso silenziosamente – un aumento della punibilità penale.


8. La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V, 17/06/2025, (ud. 17/06/2025, dep. 04/07/2025), n.24692

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano ha confermato la condanna di Ba.Pa. e del figlio di questa, Bo.Pi., perché, nella qualità di amministratori (la prima di diritto, il secondo di fatto) della società Lorenz Srl ne cagionavano il fallimento per effetto di operazioni dolose (art. 223, comma secondo, n. 2 L.Fall.) consistite nella sistematica omissione dei versamenti erariali, così accumulando un debito nei confronti dello Stato di 3.821.781,11 euro;


mentre, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in favore di Bo.Pi., ha rideterminato, nei suoi confronti, la pena principale e la durata delle pene accessorie ex art. 216 u.c. L.Fall. revocando quella di cui all'art. 29 cod. pen. e concedendo i benefici della sospensione condizionale e della "non menzione".


2. Avverso la sentenza ricorrono gli imputati, con il medesimo atto a firma del comune difensore, articolando cinque motivi.


2.1. Con il primo si denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 223, comma secondo, n. 2 L.Fall., 42 e 43 cod. pen. in punto di elemento soggettivo del reato.


Si lamenta che la Corte di appello, dopo aver ricostruito il delitto in contestazione come ipotesi in cui l'evento del reato debba essere ascritto quantomeno a titolo di "dolo eventuale", fa riferimento alla categoria della "prevedibilità in concreto", che, però, esula dai caratteri della rappresentazione e volontà costitutivi del dolo secondo quanto consegnato agli artt. 25 e 27 Cost, art. 6 CEDU e secondo i parametri indicati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 2014.


Si rileva la sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità e si osserva che la ricostruzione della bancarotta da operazioni dolose come reato preterintenzionale, fatta propria da alcune pronunce della Corte di cassazione, entra in conflitto con i principi di tassatività, tipicità, proporzionalità, che fanno della preterintenzione una ipotesi eccezionale e recessiva, confinata ai delitti contro la vita e l'integrità fisica.


2.2. Con il secondo motivo si deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 223, comma secondo, n. 2 L.Fall., nonché la violazione del divieto di analogia in malam partem.


La sentenza impugnata avrebbe ricostruito in maniera erronea l'elemento oggettivo del reato in contestazione, ritenendo sufficiente, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, un aggravamento del dissesto.


La norma incriminatrice, vigente al momento del fatto, individua l'evento del reato nel dato formale del "fallimento", non nell'evento naturalistico del dissesto, termine impiegato invece, con effetto novativo, nel nuovo testo dell'art. 329 D.Lgs. n. 14 del 2019, di talché esulerebbero dalla fattispecie tipica le ipotesi di aggravamento del dissesto, vale a dire tutti i casi in cui la condotta dell'agente abbia concorso a cagionare il dissesto, senza esserne la causa unica.


Il prevalente orientamento, recepito dalla sentenza impugnata, che ritiene sufficiente il concorso causale, produce una inammissibile analogia in malam partem contrastante con l'art. 25 Cost.


Si sottolinea la diversità concettuale tra l'ipotesi di cause concomitanti (o precedenti) nella causazione del fallimento e cause che si innestano su un dissesto ormai prodottosi, limitandosi ad aggravarlo.


2.3. Il terzo motivo solleva eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 223, comma secondo, n. 2 L.Fall., come interpretato dal "diritto vivente", per contrasto con l'art. 25 Cost. lì dove equipara la causazione del fallimento all'aggravamento del dissesto.


2.4. Il quarto motivo contesta la mancata derubricazione del fatto nel delitto di bancarotta semplice ai sensi degli artt. 217, comma primo, n. 4 e 224 L.Fall., sulla scorta degli argomenti sviluppati con il primo motivo in tema di caratteri dell'elemento soggettivo del reato.


2.5. Il quinto denuncia vizio motivazionale in punto di affermazione di responsabilità.


Per Ba.Pa. si pone in luce lo scarto esistente tra gli elementi valutati dal giudice di merto (le qualifiche gestorie rivestite dall'imputata nella società sin dal 1989) rispetto alla contestazione che la chiama a rispondere del reato soltanto nella veste di liquidatrice dal 30 giugno 2016 fino alla data del fallimento.


Per entrambi gli imputati si rilevano fratture logiche alle pagine 16 e 18 circa: la ritenuta irrilevanza delle prospettive di risanamento nell'ottica della percezione soggettiva degli imputati; il confinamento dello scopo di risanamento a un mero movente della condotta, in assenza di motivazione sulla concreta previsione del fallimento; la equiparazione di due concetti giuridici ben distinti: prevedibilità in astratto e accettazione del rischio.


2.6. Nelle conclusioni i ricorrenti chiedono: in via preliminare, che il processo venga rimesso alle Sezioni Unite, in ragione del rilevato contrasto sull'elemento soggettivo del reato di bancarotta da operazioni dolose o, comunque, sulla questione di particolare importanza attinente alla equiparazione tra aggravamento del dissesto e causazione del fallimento; nel merito l'accoglimento dei motivi di ricorso.


3. Il ricorso, proposto in data successiva al 30 giugno 2024, è stato trattato in camera di consiglio ai sensi dell'art. 611 cod. proc. pen., nel testo riscritto dal D.Lgs. n. 150 del 2022 e successive modifiche.


Il Procuratore generale ha depositato una articolata requisitoria a sostegno delle conclusioni in epigrafe trascritte.


Il difensore degli imputati ha trasmesso una memoria volta a ribadire la fondatezza dei motivi di ricorso e a replicare alla requisitoria scritta della parte pubblica.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono infondati.


2. Possono essere esaminati congiuntamente i primi due motivi che denunciano, esclusivamente sotto il profilo giuridico, errori nella individuazione degli elementi costitutivi della bancarotta da operazioni dolose di cui all'art. 223, comma secondo, n. 2, seconda parte, L.Fall.


Le censure sono infondate.


2.1. In ottica ricostruttiva è utile collocare la fattispecie di reato in esame nel contesto della norma incriminatrice, così da tracciarne i confini anche in rapporto alle altre ipotesi di reato contemplate dalla medesima disposizione di legge.


L'art. 223 L.Fall., rubricato "fatti di bancarotta fraudolenta", disciplina i casi di bancarotta fraudolenta c.d. "impropria", addebitabile a componenti degli organi gestori e di controllo delle società di capitali dichiarate fallite: amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori.


Il primo comma estende a coloro che rivestono le ridette qualifiche la punibilità per i medesimi fatti ascritti all'imprenditore individuale dall'art. 216 L.Fall.


Il secondo comma punisce, invece, le medesime persone, se:


1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621,2622,2626,2627,2628,2629,2632,2633 e 2634 del codice civile;


2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.


Nelle ipotesi di cui al secondo comma il fallimento è evento del reato; "cagionare il fallimento" significa provocare il dissesto destinato a sfociare, anche se non con immediatezza, nella pronuncia dichiarativa di fallimento.


Vengono in rilievo condotte depauperative, a matrice dolosa, in cui, però l'elemento soggettivo si atteggia diversamente secondo la diversa ricostruzione fornitane dal legislatore.


In particolare, all'interno del n. 2, si rinviene la fattispecie del fallimento cagionato con dolo (caratterizzata dal fatto che l'evento del reato entra nel fuoco del dolo dell'agente) e quella del fallimento da operazioni dolose, in cui il dolo deve sorreggere i comportamenti che hanno condotto la società al fallimento.


2.2. In una prima e generale analisi, si può osservare che l'articolo 223, comma secondo, n. 2, seconda ipotesi, L.Fall. incrimina come reato doloso ogni comportamento di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori che costituisca inosservanza dei doveri ad essi rispettivamente imposti dalla legge e che abbia cagionato (o contribuito a determinare) il fallimento.


Le operazioni dolose che hanno cagionato il fallimento devono comportare un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa, laddove la nozione di "operazione" postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti Spa, Rv. 247313-01, 247314-01).


La giurisprudenza di legittimità ha poi chiarito che le "operazioni dolose" possono anche non determinare un'immediata diminuzione dell'attivo e possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria dell'impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa, sicché anche il protratto e sistematico omesso versamento di imposte e contributi previdenziali, da parte dell'amministratore, costituisce comportamento rilevante come scelta imprenditoriale dolosa, capace di determinare uno stato di gravissima e irrevocabile esposizione debitoria della società, tale da comportare il fallimento della società (Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013, dep. 21014, Beretta, Rv. 259997; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, Belleri, Rv. 260492, in motivazione).


L'incriminazione di cui si tratta non intende, però, sanzionare l'evasione fiscale e previdenziale di per sé, bensì la conseguenza di tali comportamenti, ossia la causazione o l'aggravamento del dissesto della società, e sempre che le violazioni fiscali e/o previdenziali possano qualificarsi come vere e proprie operazioni dolose, siano cioè espressione di specifiche e selettive scelte gestionali preordinate alla sistematica omissione dei relativi adempimenti (così Sez. 5, n. 26862 del 29/02/2024, Francescato, non massimata).


Deve rifuggirsi, inoltre, dalla tentazione di affidarsi a un rigido automatismo: il mancato versamento dei tributi o degli oneri previdenziali, che abbiamo condotto la società al dissesto, non integra, per ciò solo, il reato, essendo necessario, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, la prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (così Sez. 5, n. 26862 del 29/02/2024, cit.).


2.3. Il ricorrente appunta la propria critica sulla ricostruzione giuridica de: l'evento del reato (testualmente "fallimento" e non "dissesto"); il nesso di causalità (con l'irrilevanza delle concause, pena la violazione del principio di legalità e la necessità di sollevare incidente di costituzionalità); l'elemento soggettivo (rispetto al quale sollecita un intervento delle Sezioni Unite per dirimere un contrasto nella giurisprudenza di legittimità).


2.4. Evento e nesso di causalità.


Le questioni devolute con il ricorso si trovano tutte ampiamente trattate e sapientemente confutate nella sentenza n. 15613 del 05/12/2014, dep. 2015, G., i cui passaggi argomentativi verranno di seguito ripercorsi.


2.4.1. Anzitutto occorre indagare il corretto significato da attribuire al termine "fallimento" utilizzato dal legislatore.


L'art. 216 L.Fall., richiamato dal primo comma dell'art. 223, si riferisce al "fallimento" in senso formale (ossia al provvedimento giurisdizionale); il secondo comma dell'art. 223 L.Fall. fa riferimento, invece, al "fallimento" in senso sostanziale, cioè alla "situazione obiettiva di dissesto nella quale la società si viene a trovare per effetto delle operazioni poste in essere dal suo ceto gestorio".


Infatti, se per "fallimento" nell'art. 223 L.Fall. non si intendesse la situazione sostanziale di dissesto, si avrebbe una inutile duplicazione del riferimento alla dichiarazione di insolvenza già contenuto nel rinvio all'art. 216 L.Fall. operato dal primo comma della norma.


Inoltre, poiché l'art. 223 L.Fall. richiede la sussistenza del nesso causale tra condotta e fallimento, estremo della relazione eziologica deve essere proprio il dissesto e non il provvedimento giurisdizionale che accerta il fallimento.


2.4.2. La difesa dell'imputato ritiene, poi, che l'art. 223 L.Fall. incrimini non il mero aggravamento della situazione di decozione, bensì la causazione stessa del dissesto. Tesi che troverebbe fondamento anche nel raffronto tra le diverse formulazioni letterali degli artt. 223 e 224 L.Fall.


Siffatta prospettazione ermeneutica non può essere accolta.


Secondo ius receptum, non interrompono il nesso di causalità tra l'operazione dolosa e l'evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, né il fatto che l'operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l'aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in sé reversibile (cfr. Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu, Rv. 262189 - 01; Sez. 5, n. 8413 del 16/10/2013, dep. 2014, Besurga, Rv. 259051 - 01; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti Spa, Rv. 247316-01)


Militano in tal senso sia la disciplina generale sul concorso di cause dettata dall'art. 41 cod. pen., sia la fenomenologia stessa del dissesto, in quanto è situazione che non si verifica istantaneamente ma con progressione e durata nel tempo.


2.4.3. Nessun diverso apporto interpretativo può trarsi dall'art. 329 del Codice della crisi d'impresa, il quale riproduce testualmente l'art. 223 L.Fall.


La circostanza che, nella descrizione della fattispecie di cui al n. 2 del secondo comma, il termine "fallimento" sia stato sostituito da "dissesto" non sottende alcuna volontà innovativa, ma costituisce mero recepimento della consolidata elaborazione giurisprudenziale formatasi sul punto, onde conferire ulteriore precisione semantica al precetto.


2.5. L'elemento soggettivo.


La costruzione dei caratteri dell'elemento psicologico della fattispecie in rassegna si trae, come anticipato, dal confronto con l'altra ipotesi delittuosa contenuta all'interno del medesimo numero 2, comma secondo, art. 223 L.Fall.


2.5.1. Il delitto di bancarotta fraudolenta rappresentato dalla causazione "dolosa" del fallimento concentra la volizione e rappresentazione sull'evento del reato, disinteressandosi della condotta prodromica; invece, nella diversa ipotesi della bancarotta fraudolenta da operazioni dolose, il dolo, nella caratterizzazione tipica voluta dal legislatore, si sposta sui comportamenti che hanno condotto la società al fallimento, quale evento non voluto.


La matrice dolosa della condotta è imperniata sulle operazioni prodromiche al dissesto; mentre l'evento non cade nel fuoco del dolo, neppure nella forma del dolo eventuale (atteggiamento psicologico che richiede "oltre all'accettazione del rischio o del pericolo" anche "l'accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno, della lesione, in quanto essa rappresenta il possibile prezzo di un risultato desiderato", così Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).


In questa prospettiva la giurisprudenza di legittimità è salda nell'affermare che il dolo deve colpire le operazioni - nel senso che è necessaria la consapevolezza e volontà dell'amministratore di porre in essere la complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici in contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società-ma non anche il dissesto, che deve essere "soltanto" prevedibile (Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina, Rv. 265510 - 01; Sez. 5, n. 38728 del 03/04/2014, Rampino, Rv. 262207 - 01; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti Spa, Rv. 247315-01).


2.5.2. In alcune isolate pronunce si assiste a mere imprecisioni definitorie che evocano anche la categoria del "dolo eventuale" (cfr. Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, Leoni), ma, nella sostanza, non si rilevano effettive conclusioni difformi, tanto che quelle stesse sentenze dichiarano espressamente di porsi in linea con gli arresti giurisprudenziali che le hanno precedute.


Non vi è spazio per rilevare un maturato contrasto nelle decisioni di legittimità e, dunque, il collegio ritiene di non dover rimettere la questione alle Sezioni Unite.


I motivi di ricorso, tuttavia, richiedono una puntualizzazione sul coefficiente psicologico che deve investire l'evento "dissesto" nel delitto di bancarotta fraudolenta da operazioni dolose.


2.5.3. In sintesi, occorre la consapevolezza di porre in essere un'operazione che, concretandosi in un abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società, determini la prevedibilità della decozione, quale effetto della condotta antidoverosa.


Nelle pronunce di questa Corte è ricorrente l'affermazione per cui dal sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell'erario e degli enti previdenziali, con ogni conseguenza ipotizzabile in termini di dissesto dell'impresa a seguito delle iniziative del creditore pubblico tese alla riscossione di quanto non versato, degli interessi e delle sanzioni (Sez. 5, n. 30735 del 05/04/2019, Cassano, Rv. 276996; Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, De Mattia e altri, Rv. 273337; Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, Bottiglieri, Rv. 270046; Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina, non massimata sul punto; Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini, Rv. 261684; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, Belleri, Rv. 260492; Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013, dep. 2014, Beretta, Rv. 259997).


Nei casi indicati, dunque, le specifiche connotazioni delle operazioni dolose offrono fondamento al giudizio di prevedibilità dell'emersione delle operazioni stesse e, di conseguenza, dell'attivazione delle iniziative risarcitorie e/o sanzionatorie destinate a sfociare nel depauperamento e, quindi, nel dissesto della società (cfr. tra le ultime Sez. 5, n. 21484 del 09/05/2025, Mancuso, non massimata).


2.5.4. Va aggiunto che, in ossequio ai principi costituzionali, la prevedibilità dell'evento non voluto deve essere declinata non in astratto ma in concreto, valorizzando quindi tutti gli elementi del caso specifico, dovendosi bandire meccanismi automatici e generalizzanti dietro cui può nascondersi lo spettro di una responsabilità oggettiva.


Sul punto è utile richiamare quanto espresso dalla giurisprudenza costituzionale a partire dagli anni sessanta (cfr. in particolare sent. n. 42 del 1965) sino all'attualità sull'art. 116 cod. pen.).


Anche di recente la Consulta, nell'occuparsi del concorso anomalo, ha affermato che l'imputazione soggettiva di un reato al suo autore deve rispondere a un criterio di riferibilità soggettiva, aggiungendo, però, che tale criterio può formare oggetto di graduazione. In tale ottica ha ritenuto compatibile con il dettato costituzionale anche la "prevedibilità in concreto, tenuto conto di tutte le peculiarità del caso di specie" e ha spiegato che il reato non voluto deve "potere rappresentarsi alla psiche dell'agente, nell'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto" (sentenza n. 55 del 2021).


Se ne trae il convincimento che, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta da operazioni dolose, deve sussistere non solo un rapporto di causalità materiale, ma anche un rapporto di causalità psichica, e cioè l'agente deve potersi rappresentare il dissesto (non voluto) secondo l'ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile delle operazioni dolosamente compiute; in tal modo si richiede una partecipazione psichica dell'agente al fatto e quindi un coefficiente di colpevolezza che tiene il reato indenne da dubbi di costituzionalità.


Il che consente di inquadrare, in aderenza effettiva al principio previsto dall'art. 27 Cost., la responsabilità penale derivante dal delitto in rassegna nell'ambito delle forme dolose previste dagli artt. 42 e 43 cod. pen.


2.5.5. In definitiva va affermato che, ai fini della integrazione dell'elemento soggettivo della bancarotta fraudolenta da operazioni dolose, si richiede, in capo all'agente, la consapevolezza e volontà della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri connessi alla carica, nonché la prevedibilità in concreto del dissesto quale effetto dell'azione antidoverosa, non essendo invece necessarie la rappresentazione e la volontà dell'evento fallimentare.


Non spetta a questa Corte fornire una elencazione analitica circa i parametri da cui ricostruire il coefficiente psicologico appena indicato; mentre sarà compito dei giudici di merito enucleare, dalle concrete modalità della vicenda, la presenza di indici - considerati singolarmente o in combinazione tra loro - eloquenti di un pericolo per la salute economica della società che l'autore del fatto avrebbe potuto percepire ma che ha ignorato, non astenendosi dal compiere e/o dal protrarre le operazioni dolose.


2.6. La decisione impugnata aderisce perfettamente alle coordinate appena tracciate, sicché non è ravvisabile alcuna inosservanza delle norme penali sostanziali, in cui si sostanzi il denunciato vizio di violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.


La Corte di appello svolge una puntuale analisi sull'efficacia causale delle omissioni tributarie e previdenziali, che, in sintonia con la decisione di primo grado, individua quali concause del dissesto (unitamente all'esposizione debitoria verso gli istituti bancari). In tale prospettiva valorizza la sistematicità degli inadempimenti, protrattisi dal 2013 sino al fallimento (nel 2017), ispirati da una logica di autofinanziamento surrettizio che ha portato la società ad accumulare un debito verso l'erario, via via sempre più ingente, sino a raggiungere 3.821.782,11 euro: seconda voce, per consistenza, tra quelle ammesse al passivo (cfr. pag. 12 e pag. 15).


La medesima Corte indica espressamente gli indici della prevedibilità del dissesto, tenuto conto che - a seguito dell'aumento esponenziale delle passività conseguente alla scelta deliberata e sistematica di autofinanziarsi disattendendo gli obblighi tributari e previdenziali - il fallimento era l'unica conseguenza ipotizzabile, in mancanza di possibilità alternative di salvataggio dell'impresa, alla luce della concreta situazione di grave crisi in cui la stessa versava (cfr. paragrafo 4.2.3, pagg. 16-18).


3. È manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità, per contrasto con il principio di legalità, sollevata con il terzo motivo di ricorso.


Pur se non esplicitato con la necessaria precisione, sembra di capire che il ricorrente lamenti l'inosservanza dell'art. 25, comma secondo, Cost. in relazione al principio di tassatività e a quello, direttamente connesso, del divieto di analogia in malam partem.


3.1. Come si legge ripetutamente nelle decisioni della Consulta (cfr. tra le ultime sent. n. 98 del 2021): "Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l'ovvio pendant dell'imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di "formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intellegibilità dei termini impiegati" (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch'esso a "evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l'illecito" (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma "una percezione sufficientemente chiara ed immediata" dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004)".


Rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice la Consulta ha recentemente rammentato che "l'ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d'ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell'arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo" (sentenza n. 115 del 2018).


"Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo.


E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge - non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza - che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore" (così Corte Cost. n. 98 del 2021, cit.).


3.2. L'art. 223, comma 2, n. 2, seconda parte, L.Fall. non suscita alcun dubbio di compatibilità costituzionale rispetto ai profili evidenziati dal ricorrente (quello della colpevolezza è già stato trattato al paragrafo 2.5.).


3.2.1. Quanto alla determinatezza, va osservato che la ridetta norma incriminatrice è funzionale a "chiudere il sistema" della bancarotta fraudolenta impropria; essa disegna un reato causale a forma libera la cui condotta è sufficientemente definita da una serie di parametri che rendono conoscibile il precetto (Sez. F, n. 39192 del 20/08/2015, Pandolfi, Rv. 264606 - 01).


Come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità la fattispecie in parola: "configura un reato la cui condotta è certamente a forma libera, ma sufficientemente definita nella sua identità da una serie di adeguati indici forniti dal legislatore. Innanzi tutto, la scelta terminologica effettuata nella definizione dell'elemento materiale, in connessione alla configurazione di un reato proprio del ceto gestorio di una società commerciale, evidenzia come le "operazioni" rilevanti siano esclusivamente quelle che si traducono in una attività attinente alla funzione che qualifica i soggetti attivi selezionati dalla norma incriminatrice.


In secondo luogo, il fatto che le operazioni debbano esse "dolose" evoca immediatamente come l'atto di gestione debba essere posto in essere dall'autore tipico con abuso della propria carica ovvero contravvenendo ai doveri che la stessa gli impone, atteso che tale attributo - altrimenti del tutto inutile sotto il profilo tecnico-penalistico alla luce dell'art. 43 cod. pen. - evidenzia un connotato d'intrinseca illiceità della condotta, anche a prescindere dai suoi effetti.


Infine, la tipicità della condotta medesima è fortemente caratterizzata (e dunque definita) dalla necessaria causazione del "fallimento" e cioè dalla esistenza di un rapporto eziologico tra la stessa e il dissesto della società. In tal senso deve ritenersi che la norma abbia selezionato una serie di parametri in grado di rendere conoscibile il precetto, tanto più nel contesto in cui la fattispecie di cui si tratta è inserita. Deve osservarsi infatti come essa assuma un carattere eminentemente residuale, una volta proiettata sullo schermo del sistema di incriminazioni configurato dalla legge fallimentare. In altri termini, è da escludersi la tipicità di condotte già espressamente previste da altre specifiche disposizioni incriminatrici in tema di bancarotta" (così in motivazione Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, dep. 2015, Favale).


3.2.2. Quanto al divieto di interpretazione analogica in malam parte, come si è già osservato al paragrafo 2.3., il legislatore ha concepito l'art. 223 L.Fall. sì da rendere palese la volontà di assegnare al termine "fallimento" il suo significato sostanziale di: "situazione obiettiva di dissesto nella quale la società si viene a trovare per effetto delle operazioni poste in essere dal suo ceto gestorio".


Soltanto così si evita una inutile duplicazione e si può attribuire valore al rapporto che, sul piano della causalità materiale, deve legare la condotta al dissesto, quale evento naturalistico (non giuridico).


Il che consente di restare entro i confini del significato letterale del testo normativo e non svilisce, ma semmai incrementa la garanzia, posto che il reato di cui all'art. 223 comma 2, n. 2 L.Fall., al pari di quelli di cui al primo comma del medesimo articolo, è caratterizzato da una matrice dolosa della condotta - dovendo essere le operazioni "dolose" sorrette da coscienza e volontà - rispetto alla quale l'aggiunta della causalità materiale e del coefficiente di prevedibilità del "dissesto" assolve alla funzione di circoscrivere ulteriormente l'area del penalmente rilevante (cfr. Sez. 5, n. 15815 del 12/02/2025, Pede, in motivazione).


Infine, nessuna torsione del principio di legalità è ravvisabile nella rilevanza delle "concause", dato che sulla lettera della norma incriminatrice si innesta la previsione di carattere generale di cui all'art. 41 cod. pen., così come accade per regole di analoga portata, quali, ad esempio, il concorso di persone nel reato (art. 110 cod. pen.), oppure il reato omissivo improprio (art. 40, comma secondo, cod. pen.).


4. Gli argomenti appena esposti, che suffragano la costruzione giuridica degli istituti posta a base della decisione impugnata, rendono ragione dell'infondatezza del quarto motivo concernente la riqualificazione dei fatti nel delitto di bancarotta semplice.


5. Il quinto motivo è infondato.


La censura presuppone l'accoglimento della prospettazione difensiva sugli elementi caratterizzanti la fattispecie delittuosa oggetto di addebito.


Si sostanzia, inoltre, nella individuazione di ipotetici vizi riferiti a singoli passaggi argomentativi, senza alcuna indicazione della incidenza che gli stessi possano aver avuto nella complessiva tenuta logica della struttura motivazionale.


Circa la posizione della Ba.Pa. va solo aggiunta un'ultima notazione.


Il capo di imputazione chiama l'imputata a rispondere del reato nella veste di "liquidatrice", tuttavia fin dal primo grado di giudizio Ba.Pa. è stata ritenuta responsabile in ragione della sua qualità di amministratrice e partecipe delle decisioni sulla vita della società sin dal 1989 quando assunse la carica di presidente del consiglio di amministrazione per rimanere poi con compiti gestori sino al fallimento; questa valutazione - che, in ipotesi, avrebbe potuto tacciarsi di dare luogo a una nullità (a regime intermedio) per diversità del fatto - non ha formato oggetto di tempestiva eccezione con l'atto di appello, che, invece, si è concentrato sul diverso aspetto della modifica del titolo della responsabilità dell'imputata (da attiva ad omissiva), ritenuto, però, non rilevante dalla Corte di appello (cfr. paragrafo 4.1. pagg. 9-11 sentenza impugnata) e non riproposto in questa sede.


6. Discende il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 17 giugno 2025.


Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2025.








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