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Codice di procedura penale

Art. 210 c.p.p. - Esame di persona imputata in un procedimento connesso

1. Nel dibattimento, le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12, comma 1, lettera a), nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente e che non possono assumere l'ufficio di testimone, sono esaminate a richiesta di parte, ovvero, nel caso indicato nell'articolo 195, anche di ufficio.


2. Esse hanno obbligo di presentarsi al giudice, il quale, ove occorra, ne ordina l'accompagnamento coattivo. Si osservano le norme sulla citazione dei testimoni.


3. Le persone indicate nel comma 1 sono assistite da un difensore che ha diritto di partecipare all'esame. In mancanza di un difensore di fiducia è designato un difensore di ufficio.


4. Prima che abbia inizio l'esame, il giudice avverte le persone indicate nel comma 1 che, salvo quanto disposto dall'articolo 66 comma 1, esse hanno facoltà di non rispondere.


5. All'esame si applicano le disposizioni previste dagli articoli 194, 195, 498, 499 e 500.


6. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche alle persone imputate in un procedimento connesso ai sensi dell'articolo 12, comma 1, lettera c), o di un reato collegato a norma dell'articolo 371, comma 2, lettera b), che non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato. Tuttavia a tali persone è dato l'avvertimento previsto dall'articolo 64, comma 3, lettera c), e, se esse non si avvalgono della facoltà di non rispondere, assumono l'ufficio di testimone. Al loro esame si applicano, in tal caso, oltre alle disposizioni richiamate dal comma 5, anche quelle previste dagli articoli 197-bis e 497.



 

Commento

1. Natura e funzione dell’articolo 210 c.p.p.: la prova dichiarativa “ibrida”

L’art. 210 c.p.p. occupa una posizione di snodo tra la disciplina delle prove dichiarative e la tutela del diritto al silenzio dell’imputato. Esso consente l’acquisizione, nel dibattimento, di dichiarazioni rese da soggetti che, pur non rivestendo la qualifica di testimoni, possono offrire un contributo decisivo all'accertamento dei fatti di causa. La figura che ne scaturisce è quella del "dichiarante atipico", il cui statuto probatorio si colloca in una zona intermedia fra testimone e imputato.

La finalità della norma è duplice:

  • da un lato, consentire l’ingresso nel processo delle dichiarazioni rese da chi non può assumere la qualità di testimone per incompatibilità soggettiva, ma il cui contributo è rilevante;

  • dall’altro, tutelare il diritto di difesa e il principio nemo tenetur se detegere, offrendo la facoltà di non rispondere e imponendo sempre l’assistenza difensiva.


2. Il presupposto applicativo: la connessione o il collegamento probatorio

La norma trova applicazione in presenza di una connessione tra procedimenti, definita dall’art. 12 c.p.p., ovvero di un collegamento probatorio ex art. 371, comma 2, lett. b).

La giurisprudenza distingue due ipotesi:

  • Connessione forte: quando i reati sono stati commessi da più persone in concorso o cooperazione (art. 12, co. 1, lett. a)). In tal caso, il soggetto mantiene la veste di imputato e, se escusso, non assume mai quella di testimone, rimanendo titolare del diritto al silenzio.

  • Connessione debole o collegamento probatorio: nei casi in cui la relazione tra i reati sia solo strumentale o finalistica (art. 12, lett. c), art. 371, co. 2, lett. b)), il dichiarante può diventare testimone assistito, ma solo se non ha già reso dichiarazioni sulla responsabilità altrui e viene formalmente avvertito della facoltà di non rispondere.

È fondamentale, pertanto, che il giudice valuti in concreto se sussistano gli elementi per applicare l’art. 210 oppure l’art. 197-bis.


3. Evoluzione costituzionale: dalla sentenza n. 361/1998 alla giurisprudenza successiva

Una svolta interpretativa decisiva è stata impressa dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 361/1998, la quale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 210 nella parte in cui non ne consentiva l’applicazione anche all’esame dell’imputato nello stesso procedimento, qualora questi avesse precedentemente reso dichiarazioni su fatti concernenti terzi.

La Corte ha così eliminato l’ingiustificata disparità di trattamento tra l’imputato in procedimento connesso e quello nello stesso processo, ponendo entrambi sul medesimo piano quanto a facoltà di non rispondere e garanzie difensive, specie nei casi in cui siano chiamati a confermare dichiarazioni rese in fase investigativa.

La pronuncia si innesta in un percorso più ampio di attuazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, ex art. 111 Cost., laddove la persona sentita nel dibattimento deve essere messa in condizione di esercitare appieno le proprie garanzie difensive.


4. La figura del testimone assistito e i limiti di utilizzabilità

Nei casi di connessione debole o collegamento probatorio, l’imputato può assumere l’ufficio di testimone, ma solo previa rinuncia al diritto al silenzio e a seguito dell’avvertimento ex art. 64, co. 3, lett. c).

Tale avvertimento ha una funzione decisiva: in sua assenza, la dichiarazione è inutilizzabile, come confermato da Cass. S.U., n. 33583/2015, che ha ribadito la centralità di questo adempimento, anche quando l’imputato abbia già rilasciato dichiarazioni “erga alios” in precedenza.

L’utilizzabilità delle dichiarazioni va valutata anche in base alla posizione processuale effettiva del dichiarante, come precisato da Cass. S.U., n. 15208/2010: non rileva la sola iscrizione formale nel registro degli indagati, ma la sostanziale partecipazione al fatto oggetto del processo.


5. Le cautele procedurali: obbligo di comparizione e difesa tecnica

Il legislatore impone al soggetto chiamato ex art. 210 l’obbligo di comparire, con possibilità di accompagnamento coattivo (comma 2). Tuttavia, l’obbligo è temperato dal riconoscimento di garanzie sostanziali:

  • difesa tecnica obbligatoria (anche d’ufficio se manca quella fiduciaria),

  • facoltà di non rispondere,

  • regole di esame mutuabili dall’esame testimoniale, ma con le peculiarità del dichiarante non testimone.

In tal senso, l’interrogatorio o l’esame in difetto di tali garanzie è da ritenersi inutilizzabile, in quanto lesivo del diritto di difesa e del giusto processo.


6. Il giudice e la verifica della qualifica del dichiarante

Spetta al giudice verificare la posizione sostanziale del dichiarante, prescindendo da etichette formali. L’orientamento maggioritario (Cass. V, n. 39498/2021; Cass. IV, n. 46203/2019) valorizza una valutazione sostanzialistica, da compiersi anche d’ufficio, laddove emerga da atti o prove che il soggetto dovrebbe essere qualificato come imputato di reato connesso.

Tale dovere non può essere eluso: un esame svolto come testimonianza in violazione dell’art. 210, pur in assenza di formale iscrizione del soggetto nel registro degli indagati, comporta l’inutilizzabilità delle dichiarazioni.


7. Il valore probatorio delle dichiarazioni ex art. 210

Sul piano sostanziale, le dichiarazioni rese ex art. 210 non sono equiparabili a quelle testimoniali, poiché provengono da un soggetto che può essere portatore di un interesse processuale. Per tale motivo, l’art. 192, comma 3, c.p.p., impone una verifica di attendibilità rafforzata, che può essere superata solo in presenza di riscontri esterni.

La giurisprudenza (Cass. VI, n. 13844/2017) ha precisato che l’affidabilità delle dichiarazioni ex art. 210 può essere valorizzata in funzione del comportamento processuale del dichiarante, ma non esonera dalla necessità di corroborare le affermazioni con elementi probatori autonomi.


8. Conseguenze dell’esame in altra veste

La mancata qualificazione corretta del dichiarante – ad esempio, escusso come testimone anziché come imputato in procedimento connesso – può inficiare l’intera prova dichiarativa, rendendola inutilizzabile.

La Cassazione ha anche escluso la possibilità di “sanare” ex post tale vizio con successive acquisizioni (Cass. V, n. 13391/2019), salvo che il difetto non sia stato tempestivamente eccepito dalle parti o rilevato dal giudice.


9. Considerazioni conclusive

L’art. 210 c.p.p. si configura oggi come una norma di garanzia, che consente l’ingresso di fonti dichiarative “miste” nel processo, purché nel rispetto dei principi costituzionali di difesa, silenzio e lealtà processuale.

È essenziale, in sede applicativa, evitare ogni automatismo, orientandosi invece a una verifica puntuale del contesto processuale, della posizione del dichiarante e della destinazione probatoria delle sue dichiarazioni. Solo così è possibile assicurare un corretto equilibrio tra esigenze di accertamento e tutela dei diritti fondamentali.

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