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Il terzo formale proprietario del bene può subire la confisca per equivalente? No, se è estraneo al reato (Cass. Pen., n. 23954/2023)

La sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III penale, 27 giugno 2023, n. 23954, affronta un tema di assoluta rilevanza pratica e teorica: la legittimità della confisca per equivalente nei confronti del terzo formale proprietario del bene, in un procedimento per reati tributari, nella specie per omessa dichiarazione ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 74/2000. Il caso consente una riflessione ampia sul rapporto tra titolarità formale e sostanziale del bene, nonché sull’effettiva prova dell'estraneità del terzo rispetto all’illecito.


Il fatto

Il Tribunale, pronunciando in primo grado in tema di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, disponeva la confisca per equivalente di un immobile intestato a un soggetto terzo, ritenendo che il bene fosse nella disponibilità dell’imputato. La difesa del terzo ricorreva in Cassazione, deducendo che l'immobile fosse di sua esclusiva proprietà e che l’autorità giudiziaria non avesse fornito prova della disponibilità materiale e giuridica del bene in capo all’imputato.


La decisione

La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza di confisca con rinvio, ritenendo fondata la censura difensiva. Secondo la Terza Sezione penale, il provvedimento impugnato aveva applicato automaticamente la misura ablativa sul solo presupposto della titolarità fittizia del bene, senza fornire alcun elemento concreto che dimostrasse la disponibilità effettiva dell'immobile da parte dell’imputato.

I giudici di legittimità hanno richiamato il principio, ormai consolidato, secondo cui:

«La confisca per equivalente può colpire solo beni che risultano nella disponibilità dell’autore del reato e non può estendersi ai beni di un terzo che risulti estraneo all’illecito» (ex plurimis, Cass. pen., Sez. Unite, n. 11170/2019, “Lucci”).

Nel caso di specie, l’organo giudicante non aveva motivato sulla concreta disponibilità del bene da parte dell’imputato, né aveva accertato una formale intestazione fittizia funzionale alla schermatura patrimoniale. La proprietà del bene in capo a un terzo era documentalmente provata, e l’estraneità di quest’ultimo al reato era mai stata contestata nel processo.


Il principio di diritto

La Corte ha così enunciato il seguente principio:

«In tema di reati tributari, la confisca per equivalente può essere disposta solo nei confronti del soggetto che abbia tratto vantaggio dal reato, e non può estendersi automaticamente ai beni intestati a terzi, se non è provato che tali beni siano nella disponibilità effettiva dell’imputato o che la loro intestazione sia fittizia».


La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO


1. Con sentenza 28.04.2022, la Corte d'appello di Venezia ha parzialmente riformato quella del tribunale di Venezia 16.02.2021, appellata da B.R.S.Y. e da L.D.B., con cui è stato parzialmente prosciolto B.R.S.Y., dal reato sub capo di imputazione n. 1), quanto alle dichiarazioni annuali relative al 2010, per prescrizione, rideterminando la pena in 2 anni e 2 mesi di reclusione, riducendo corrispondentemente la disposta confisca e confermando la sentenza appellata che lo aveva riconosciuto colpevole del solo reato di omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi per i residui periodo di imposta 2011 e 2012. In ordine al capo 3 di imputazione, ove B., era imputato in concorso con la moglie L.D.B. del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, il Tribunale ha ritenuto, ex art. 521 c.p.p., doversi riqualificare il fatto nel diverso e più grave reato di bancarotta fraudolenta per distrazione della società Only One sri (rispettivamente B., perché legale rappresentante della società; Linder quale concorrente esterna nel reato proprio), disponendo pertanto la trasmissione degli atti al P.M. per il diverso reato di cui alla L. Fall., art. 216.


2. I capi di imputazione originariamente ascritti risultano i seguenti:


Capo n. 1): delitto p. e p. del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 81 cpv. c.p., art. 5 perché, in qualità di rappresentante legale nonché amministratore unico della società "Only One Srl", con sede legale e domicilio fiscale a (Omissis)), al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ometteva la presentazione delle dichiarazioni annuali ai fini delle Imposte Dirette ed IVA, relative agli anni di imposta 2010, 2011 e 2012, pur essendone tenuto avendo conseguito redditi nella misura me/ius indicata nel capo di imputazione ed essendo l'imposta evasa superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad Euro 77.468,53. Con l'aggravante della recidiva reiterata specifica e infra-quinquennale. Commesso in Venezia sino al 29/12/2013 (termine di presentazione della dichiarazione per l'anno di imposta 2012).


Capo n. 2): del delitto p. e p. dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 81 cpv c.p. e art. 10-bis (omissis) Capo n. 3) (unitamente con L.D.B.): del delitto p. e p. dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 110 c.p. e art. 11, perché, in concorso tra loro, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, degli interessi e sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo ad Euro 1.220.428,78, compivano atti fraudolenti sui propri beni, consistiti nell'impiegare proprie risorse finanziarie ed economiche derivanti dalla "Only One Srl" (a partire dall'anno di imposta 2006 al 2010 operante in totale evasione d'imposta) per l'acquisto di immobili o conti correnti simulatamente intestati a L.D.B., al fine di rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva: (a) l'immobile intestato sito in Venezia Cannaregio n. 649/650 piano: T-1, identificato nella sezione urbana VE foglio 12 particella 1508, sub 3, categoria A/3, classe 5, consistenza 8 vani, m2 103 rendita Euro 1442,77; (b) l'immobile intestato sito in Venezia Cannaregio n. 2914 piano: T, identificato nella sezione urbana VE foglio 12 particella 1147 sub 8, categoria C/2, classe 8, consistenza 60 m2, rendita Euro 306,78; (c) l'immobile intestato sito in Venezia Cannaregio n. 1135 piano: T, identificato nella sezione urbana VE foglio 12 particella 1256, subalterno 25, categoria C/2, classe 10, 6 m2, rendita Euro 41,83; (d) quota di 6/12 dell'immobile intestato per interposta persona a L.D.B. sito in (Omissis), identificato nella sezione urbana VE foglio 12 mappale 5693, sub 1 - zona cens. 1 - categoria C/2, classe 5, 107 m2, rendita Euro 342,62. Commesso in Venezia tra il febbraio del 2006, nel 2007 e fino al 21.12.2012.


Con l'aggravante per B.R.S.Y., della recidiva reiterata specifica e infraquinquennale.


2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, i predetti propongono separati ricorsi per cassazione tramite i rispettivi difensori di fiducia, deducendo complessivamente nove motivi, di seguito sommariamente indicati.


3. Ricorso B., con cui si articolano otto motivi, in sintesi così riassumibili:


a) con il primo motivo (i) si ha riguardo al rigetto della richiesta di ammissione alla messa alla prova, deducendo violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento all'art. 464-quater c.p.p., comma 7 e violazione dell'art. 464-bis c.p.p. e ss., art. 168-bis c.p. e art. 18 c.p.p.;


b) con il secondo (ii), si deduce violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento all'art. 495 c.p.p., comma 2, art. 190 c.p.p., 125 c.p.p., 182 c.p.p. e art. 6 CEDU, nonché violazione di legge ex art. 606 lett. e) c.p.p. in riferimento all'art. 125 c.p.p., e connesso difetto di motivazione, valutandosi ancora una volta una questione processuale quanto alla mancata rinnovazione della richiesta di rinnovazione dibattimentale in relazione a due testi;


c) con il terzo motivo (iii), si deduce violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. e), in riferimento alla presunta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata e da altri atti del processo, censurandosi vizio motivazionale con cui si contesta il ragionamento che la Corte ha svolto per ritenere il B. amministratore della Only One Srl;


c) con il quarto motivo (iv), si deduce violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 all'art. 40 c.p. e all'art. 533 c.p.p., con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, contestando in sostanza il fatto che non sia stato creduto che il B., fosse un prestanome;


d) con il quinto motivo (v), relativo a violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento al art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, all'art. 40 c.p. e all'art. 533 c.p.p., si duole della ritenuta sussistenza in capo al ricorrente della consapevolezza, oltre ogni ragionevole dubbio, del superamento delle soglie di punibilità, nonché violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. e), e correlato difetto di motivazione, censurandosi la sentenza quanto alla sussistenza in capo al reo della consapevolezza del superamento della soglia di punibilità;


e) con il sesto (vi), si deduce violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, con riferimento alla ritenuta sussistenza del superamento delle soglie di punibilità;


f) con il settimo motivo (vii), comune al B. ed alla coimputata L., relativo a una presunta violazione di legge, in riferimento all'art. 322-ter c.p., finalizzato a contestare la disposta confisca per equivalente, nonché per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata e da altri atti del processo, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), si ha riguardo al capo della sentenza impugnata relativo alla confisca, tornandosi poi sul dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità con riferimento all'art. 5;


g) con l'ottavo motivo (viii), relativo a violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento all'art. 62-bis, all'art. 81 c.p., all'art. 132 c.p. e all'art. 133 c.p., nonché a violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. e), in riferimento all'art. 125 c.p.p., e correlato difetto di motivazione -, ci si duole del mancato riconoscimento delle generiche e del trattamento sanzionatorio;


4. Ricorso L., con cui, con un unico, articolato, motivo, si denuncia violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione alla nullità e/o illegittimità del disposto provvedimento di confisca degli immobili in sequestro, di proprietà della L., nonché inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in particolare della L. n. 244 del 2007, art. 1, e dell'art. 322-ter c.p., in relazione al disposto provvedimento di confisca, che risulterebbe abnorme e con motivazione mancante o apparente.


5. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato in data 28.02.2023 la propria requisitoria scritta con cui ha concluso per l'inammissibilità di entrambi i ricorsi.


In particolare, in relazione al primo motivo del ricorso B., si riteneva che dovesse essere data continuità all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in tema di messa alla prova, è inammissibile l'accesso al beneficio nel caso di procedimenti cumulativi aventi ad oggetto anche reati diversi da quelli previsti dall'art. 168-bis c.p., in quanto la definizione parziale è in contrasto con la finalità deflattiva dell'istituto e con la prognosi positiva di risocializzazione che ne costituisce la ragione fondante, rispetto alla quale assume valenza ostativa la commissione dei più gravi e connessi reati per i quali la causa estintiva non può operare (Sez. 2, n. 3082 del 20/10/2022, dep. 2023, in motiv.; Sez. 6, n. 24707 del 12/04/2021, Rv. 281832 - 01; Sez. 5, n. 6203 del 08/10/2020, dep. 2021; Sez. 2, n. 33057 del 21/04/2016; Sez. 2, n. 14112 del 12/03/2015, Rv. 263125 - 01). Veniva ricordato che la Corte di cassazione ha anche precisato che non può neppure accedersi alla messa alla prova previa separazione ex art. 18 c.p.p., non essendo prevista la possibilità di procedere alla separazione in funzione strumentale rispetto all'accesso a riti differenziati (Sez. 6, n. 24707 del 12/04/2021, cit.; Sez. 5, n. 6203 del 08/10/2020, dep. 2021, cit.). In merito, si sottolineava come fosse sufficiente scorrere le disposizioni degli artt. 464-bis e seguenti c.p.p., per rilevare come la sospensione con messa alla prova non determinasse alcuna deflazione del carico giudiziario, comportando, semmai, un aggravio del procedimento, attraverso la previsione di incombenze ulteriori, dell'intervento di organi esterni all'apparato giudiziario e di un'eventuale stasi processuale: di qui, l'incon-ferenza delle allegazioni difensive, poiché relative a fattispecie non assimilabili (così, Sez. 6, n. 27394 del 13/04/2021). La ragione giustificatrice dell'istituto, dunque, è tutt'altra e va individuata nel favore per la risocializzazione del reo, prima ed in via alternativa e preferibile rispetto alla sottoposizione di esso a pena. Ma, se così e', ne scaturisce, con logica ovvietà, che tale procedimento di recupero del reo non possa essere parziale, sì da essere sperimentato e consentito, in caso di imputazioni plurime e cumulative, soltanto per alcune di esse: in tal senso, questa Corte ha già avuto modo di esprimersi, stabilendo che la sospensione con messa alla prova non potesse essere disposta, previa separazione dei processi, soltanto per alcuni dei reati contestati per i quali fosse possibile l'accesso al beneficio, in quanto la messa alla prova tende all'eliminazione completa delle tendenze antisociali del reo, sì che una rieducazione "parziale" sarebbe incompatibile con le finalità dell'istituto (Sez. 2, n. 14112 del 12/03/2015, Allotta, cit.).


Quanto al secondo motivo, il ricorrente si duole della revoca di un teste ammesso e della mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, lamentando che non erano stati ascoltati testimoni che le cui affermazioni avrebbero dimostrato che l'imputato era da qualificarsi come un mero prestanome di altri e non titolare della gestione della società. Sul punto la Corte d'appello ha adeguatamente motivato spiegando che l'imputato "non si limitava affatto ad essere un mero prestanome dei fratelli S.", aggiungendo che egli "effettivamente si occupava ed amministrava la società, compiendo tipici atti gestori quali intrattenere i rapporti con i dipendenti del negozio, pagare gli stipendi, pagare l'affitto dei locali, annotare con un sistema di prima nota la contabilità, prelevare gli incassi della giornata dai registratori di cassa"; dunque, egli non era solo l'amministratore formale e di diritto, ma aveva svolto anche poteri gestori della società. Ne conseguiva, dunque, che la rinnovazione l'istruttoria dibattimentale non assumeva alcun rilievo. Al riguardo, peraltro la Corte d'appello anche richiamava un indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'amministratore di diritto non va esente da responsabilità per reati tributari qualora accanto allo stesso, nell'ambito della struttura societaria, vi sia anche un amministratore di fatto.


In ordine al terzo motivo, sebbene il ricorrente abbia precisato che "non intende spingere l'indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, al fine di una diversa ricomposizione del quadro probatorio", in sostanza ha richiesto una rivisitazione del materiale raccolto nel giudizio di merito, operazione impossibile nel procedimento di cassazione. La sentenza impugnata, invero, anche richiamando ampi tratti di quella di primo grado, ha valutato la doglianza del ricorrente secondo cui egli sarebbe stato un mero prestanome, confutandola in modo condivisibile. In particolare, appare significativo il riferimento agli accertati trasferimenti di denaro dalla società per cui è giudizio ad altra impresa a cui l'imputato partecipava come socio o per la quale aveva delega ad operare sui conti correnti (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata). Veniva dunque dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che il ricorrente non fosse solo un prestanome.


Il quarto motivo era incentrato sull'ipotesi, esclusa nella sentenza impugnata, che l'imputato fosse solo un prestanome ed, in particolare, il mero amministratore di diritto di una società gestita da altri. Sul punto, si precisava come si fosse trattato di una tesi smentita dagli elementi raccolti nei procedimenti di merito; comunque, la Corte di appello, anche soffermandosi sull'elemento soggettivo del reato, sottolineava che " B., si occupava concretamente della gestione della società, era lui che si rapportava con il commercialista che nei primi anni aveva presentato le dichiarazioni fiscali proprio sulla scorta della documentazione consegnata dall'imputato (...)". Si sottolineava che la movimentazione del denaro avveniva tramite un conto intestato all'imputato che, pertanto, aveva piena consapevolezza dei ricavi della società.


In ordine al quinto motivo, secondo il ricorrente, la Corte di appello avrebbe ignorato una dichiarazione dello stesso imputato, che varrebbe ad escluderne la responsabilità penale, secondo cui egli non possedeva la documentazione contabile, circostanza confermata dal commercialista che l'ha saputa dallo stesso imputato. Si ribadiva, sul punto, quanto in precedenza rilevato sulla dimostrazione raggiunta nei giudizi di merito dell'esistenza di ampi poteri gestori della società da parte del ricorrente.


Sul tema del superamento della soglia di punibilità, la sentenza impugnata risultava ampiamente motivata, avendo la Corte, tra l'altro, evidenziato come la versione alternativa "non trova alcun positivo e concreto riscontro negli atti".


Quanto al settimo motivo, la Corte di appello, richiamando la decisione di primo grado, ha affermato che "e' stato ampiamente provato che gli immobili, al di là della titolarità formale in capo alla moglie dell'imputato, erano direttamente riconducibili a B., perché acquistati con i ricavi provenienti dalla Only One Srl., amministrata dall'imputato, ovvero dalla Ristorazione & Catering di cui B. era amministratore di fatto o direttamente dal conto personale dell'imputato". Anche in questo caso, pertanto, con il ricorso per cassazione si contestava il riproporre un tema relativo al giudizio di merito - la titolarità effettiva dei beni confiscati -, peraltro con deduzioni anche parzialmente diverse (le donazioni della comunità ebraica) che sembra si voglia superare a vantaggio del riferimento a contratti di mutuo.


La sentenza, infine, contiene un'adeguata motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, che comunque appare conforme all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (cfr., tra le altre, Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Rv. 265283 - 01).


Anche il ricorso proposto nell'interesse di L., ad avviso del P.G., sarebbe inammissibile.


La Corte d'appello, in particolare, ha rilevato che la ricorrente non fosse stata condannata e, dunque, non era da ritenersi legittimata a proporre impugnazione avverso la sentenza di primo grado. In particolare, per la posizione della L., la Corte d'appello ha rilevato come non vi fosse stata alcuna affermazione di penale responsabilità nel primo giudizio, ma solo la trasmissione degli atti al pubblico ministero per procedere per un diverso reato, quello di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, previa riqualificazione del fatto originariamente contestato in tale diversa fattispecie. La confisca dei beni provvedimento, di cui la ricorrente si duole anche con il ricorso per Cassazione, non è stata disposta per il reato per il quale ella era stata originariamente imputata nel giudizio di primo grado, bensì per il diverso reato tributario di cui era imputato solo B., cioè il marito. Rispetto a tale confisca ella ha assunto come ha rilevato la Corte di appello la posizione di soggetto terzo. Pur avendo colto ed illustrato i profili di inammissibilità dell'appello, la Corte d'appello ha comunque valutato le doglianze della ricorrente, evidenziando come sulla base del materiale probatorio raccolto ella fosse solo una mera prestanome del marito. In particolare, è stata evidenziata la portata probatoria della deposizione del custode degli immobili il quale ha ricostruito nel dettaglio i pagamenti del prezzo degli stessi immobili che sono risultati intestati solo fittiziamente alla ricorrente.


CONSIDERATO IN DIRITTO


1. I ricorsi, trattati in presenza a norma del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, e successive modifiche ed integrazioni, sono inammissibili.


2. Ai fini di una migliore intelligibilità dell'approdo cui è pervenuta questa Corte, tenuto conto anche delle plurime censure di vizio motivazionale, è opportuna una analisi delle vicende fattuali, necessaria onde evidenziare la completezza argomentativa attraverso cui i giudici di merito hanno esaminato le questioni poste.


3. Per una migliore comprensione della vicenda, si deve rammentare come la società Only One Srl veniva costituita nel 1994 e, nel 2003, veniva acquistata dai due fratelli S., residenti all'estero (che diventavano soci), mentre l'odierno ricorrente assumeva la carica di amministratore unico; la società gestiva diversi punti vendita a Venezia e a Roma di articoli di bigiotteria. All'esito della verifica fiscale, avviata nel 2014, risultarono omesse le dichiarazioni fiscali degli anni dal 2010 al 2012; non erano stati tenuti i libri contabili obbligatori né depositati i bilanci, mentre B., presente alle operazioni di verifica, non depositava alcuna documentazione contabile.


A seguito di ampia istruttoria dibattimentale (in particolare testimonianza sia di svariati dipendenti della società, che indicavano B. come colui che gestiva la Only One Srl in assenza degli S., sia del commercialista Ceci, il quale riferiva che l'imputato era stato colui che gli aveva presentato i fratelli S., era il loro intermediario ed interprete linguistico, nonché il suo referente per l'inoltro della documentazione fiscale) il primo giudice disattendeva la tesi difensiva di una natura meramente fittizia dell'incarico di amministratore nella società Only One Srl (carica che B. si sarebbe prestato a ricoprire) in quanto residente a Venezia e riferimento della comunità ebraica, a puro titolo di cortesia nei confronti di S.M., soggetto stabilmente residente in Israele e reale amministratore di fatto, insieme al fratello J., della catena di negozi. Rilevava il giudice che gli atti gestori compiuti dal B. (quali prelevare gli incassi della giornata, annotare su di un quaderno gli incassi e tenere una sorta dl contabilità, pagare gli stipendi ai dipendenti, pagare l'affitto), le dimissioni annunciate per lettera ai Sha-mesh (ma mai date) nonché il rapporto con il commercialista Ceci fossero elementi dai quali dedurre che B. amministrava effettivamente la società, pur per conto dei due fratelli israeliani. Il Tribunale riteneva, in particolare, gestita di fatto da B. anche la società Ristorazione & Catering srl, costituita nel 2008 dalla moglie dell'imputato, L.D.B.; inizialmente detta società subentrava, mediante contratto di locazione d'azienda, nella gestione di Gam-Gam srl, un ristorante di cibo kasher di cui B. era l'amministratore, dichiarata fallita nel 2009; in sostanza la Gam-Gam, oramai in stato di decozione finanziaria, veniva definitivamente ceduta alla Ristorazione & Catering, che continuava ad occuparsi di ristorazione per clientela ebraica. Il ruolo di B. non era solo quello, demandato dal rabbino, di verificare la genuinità dei cibi secondo i dettami della religione ebraica, ma anche quello di effettivo gestore, come testimoniato dai dipendenti del ristorante e da M.J., divenuto poi amministratore unico della società, quando la stessa era oramai sull'orlo del fallimento. Negli anni 2008-2010, a seguito del fallimento della Gam-Gam, la comunità ebraica veneziana ritenne opportuno rimuovere dall'incarico formale B. ed affidarlo alla moglie. Tuttavia, era sempre B. a seguire la gestione della società, risultando corrette - secondo il Tribunale le modalità di calcolo della imposta evasa, così come ricostruite dalla G.d.F. e spiegate dai testimoni agenti di PG nel corso dell'istruttoria dibattimentale. In assenza di regolare contabilità, il fatturato era stato calcolato sulla base degli importi documentati dagli scontrini di chiusura di cassa, mentre per determinare i costi da calcolare in deduzione, i militari avevano tenuto conto di documentazione extra-contabile (annotazione su appositi quaderni dei costi del personale, di cui venivano acquisite e confrontate le buste paga elaborate dagli studi professionali di consulenza del lavoro incaricati, i costi relativi a contratti di locazione e quelli emergenti dalle fatture di acquisto, purché inerenti all'attività svolta). Per le importazioni extra-UE venivano riconosciute le fatture di acquisto merce, laddove inerenti all'oggetto sociale (acquisti di bigiotteria da Cina e Corea); altri costi, relativi a transazioni commerciali con paesi extra-UE, ma non registrati con fattura, non venivano considerati. Il giudice dava atto, inoltre, che a seguito del processo verbale di constatazione, l'Agenzia delle Entrate emetteva avvisi di accertamento, ritualmente notificati al B., in relazione ai quali quest'ultimo non presentava alcuna deduzione. La tesi dell'incarico meramente formale in capo al B. veniva smentita, altresì, dagli accertati trasferimenti di denaro dalla società Only One alla Ristorazione & Catering (il tribunale ravvisava, in particolare, una commistione tra le due società) ovvero ad altre società in cui B. partecipava come socio o comunque aveva delega ad operare sui conti correnti. La P.G. aveva accertato, invero, la presenza di terminali POS nei punti vendita della Only One Srl, in riferimento ai quali i pagamenti effettuati dai clienti con bancomat/carte di credito venivano riversati sui conti correnti della BSD (una società inattiva, avente sede a Venezia presso l'abitazione dell'imputato, in cui quest'ultimo era socio al 5%, mentre S.M., al 95%). Delegato ad operare sul conto corrente, su cui vi era un accredito di 235.700 Euro circa riferibile a ricavi della Only One Srl, era il solo S.. Si accertava che B. era delegato ad operare su conti correnti riferibili alle società New Green Trading s.r.l. e Ecoverde srl, società aventi sede a Venezia, del tutto inattive, con rappresentanti legali dei cittadini francesi irreperibili; su tali conti risultavano essere state effettuate movimentazioni bancarie in addebito riconducibili alla Only One, quali pagamenti verso fornitori extra-UE e prelevamenti in contanti effettuati da B.. Sul conto corrente della Only One Srl, su cui operava B. in quanto legale rappresentante, veniva rinvenuto un bonifico di circa 34.000 Euro in favore della L., nonché l'accredito di somme di denaro per complessivi 215.000 Euro da parte di persone fisiche e società riconducibili alla Ristorazione & Catering. Risultavano frequenti prelievi in contanti, che confluivano nel conto postale personale di B.. Anche clienti della Ristorazione & Catering versavano denaro sul conto postale di B., mediante bonifici; vi erano accrediti sempre sul conto postale di fornitori della Ristorazione in seguito a prestazioni configurabili come procacciamento di affari da parte di B.. Vi era, in sostanza, una piena commistione dei flussi finanziari delle due attività.


Nel corso delle indagini era stato disposto sequestro preventivo su diversi immobili di Venezia-centro storico, intestati tutti alla L. e ritenuti nella disponibilità di B., con nomina del Dott. G.D. quale custode.


Quest'ultimo, assunto a testimonianza, stimava il valore complessivo dei beni sequestrati in 839.700 Euro e, al netto dei debiti ipotecari, in 502.000 Euro; affermava che una parte dei pagamenti di detti immobili era stata eseguita con provviste derivanti direttamente dal conto corrente della Only One, altra parte con assegni provenienti da conti della L., soggetto privo di reddito, titolare della Ristorazione & Catering, di fatto gestita da B.. I mutui accesi dalla L. erano successivi agli acquisti e destinati alla ristrutturazione, in realtà non avvenuta. A seguito di condanna, il giudice disponeva la confisca per equivalente degli immobili in sequestro fino alla concorrenza del debito erariale e solo per il reato tributario di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, non essendo stato ritenuto sussistente l'art. 11 contestato sub capo n. 3), richiamando la norma della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143. Si trattava di beni immobili che, ancorché intestati alla L., risultavano nella disponibilità dell'imputato, secondo il tribunale perché acquistati con provviste provenienti da società riferibili all'imputato stesso (amministratore di fatto della Ristorazione & Catering, amministratore di diritto della Only One) oppure da donazioni effettuate sul suo conto postale. L'intestazione alla L. è stata considerata dal primo giudice fittizia e strumentale ad una spoliazione di risorse dalla Only One, poi fallita. Con riguardo al trattamento sanzionatorio, disapplicata la recidiva e ritenuto B., colpevole del reato sub capo di imputazione n. 1), il Tribunale fissava la pena base di anni due di reclusione, aumentata di mesi nove a titolo di continuazione interna, oltre alle pene accessorie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12. Per la posizione della L., invece, come anticipato, non vi è alcuna affermazione di penale responsabilità, ma la trasmissione degli atti al P.M./sede per procedere per il diverso reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione.


4. Avverso questa sentenza interponevano appello entrambi gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, devolvendo alla Corte, quanto a B., motivi afferenti alla penale responsabilità ed al trattamento sanzionatorio, in particolare impugnando l'ordinanza con cui il giudice di primo grado rigettava la richiesta di messa alla prova, contestando il ruolo di effettivo amministratore nella società Only One srl, di cui B., era legale rappresentante, deducendo l'impossibilità per l'imputato di presentare le dichiarazioni fiscali, l'assenza del dolo specifico, la inconsapevolezza del superamento delle soglie di punibilità. L'appellante contestava la ricostruzione dei costi da dedurre, come operata dalla Guardia di Finanza, censurava come abnorme il provvedimento di confisca, nonché l'eccessività della pena inflitta, chiedendo infine, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale con l'audizione del teste M.S.. L. impugnava, invece, solo il punto della sentenza relativo alla confisca.


La Corte di appello di Venezia, in premessa alle ragioni della decisione poi impugnata, innanzitutto osservava che, esaminati i verbali di udienza preliminare acquisiti a seguito dell'ordinanza resa in data (Omissis), risultava maturato il termine di prescrizione per il reato di omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali relative all'annualità 2010. Si precisava, in particolare, che, posto che per la fattispecie in contestazione il termine massimo di prescrizione è pari a dieci anni, ad esso va aggiunto il periodo di sospensione del termine secondo il calcolo di seguito esplicato, laddove nessun aumento per la recidiva, che veniva disapplicata, andava conteggiato. Il reato in esame si e', infatti, consumato il 29.12.2011 (il termine per il deposito delle dichiarazioni era fissato al 30 settembre 2011) tenuto conto della scadenza del termine fissato dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, aumentato, D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 5 comma 2, di 90 giorni. I periodi di sospensione indicati dal tribunale (non risultando sospensioni nella fase di svolgimento dell'udienza preliminare) risultano essere i seguenti: dal (Omissis) (gg. 14) per complessivi 92 giorni. Pertanto, il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, riferito al periodo di imposta 2010 e commesso il (Omissis), si è prescritto alla data del 10 aprile 2022. Non ricorrendo motivi evidenti per addivenire ad un'assoluzione nel merito dell'imputato, in assenza di costituzione di parte civile, si dichiarava in parte già il reato estinto per intervenuta prescrizione.


Quanto alla richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, formulata dall'appellante B. ai sensi dell'art. 603 c.p.p., la Corte ne rilevava, se non l'inammissibilità, il carattere di irrilevanza ai fini del decidere per i motivi di seguito indicati. Veniva chiesta l'assunzione delle testimonianze di J.S. e di M.S., prova quest'ultima ammessa dal Tribunale ma poi revocata perché ritenuta superflua ai fini del decidere, a fronte dell'assunzione di vari testimoni, introdotti dalla Difesa sulle medesime circostanze. Osservava la Corte che, se con riguardo alla deposizione di J.S. non era stato in alcun modo indicato dall'appellante il carattere di novità ovvero di necessità ai sensi dell'art. 603 c.p.p., ad analoga conclusione doveva pervenirsi anche per la testimonianza di M.S.. L'atto di gravame, invero, si limitava del tutto genericamente ad affermare che tale prova dichiarativa, se assunta nel corso del processo di primo grado, "avrebbe determinato una differente valutazione complessiva dei fatti e portato in concreto ad una decisione diversa, anche con riferimento alla determinazione della pena in concreto applicabile", con ciò non fornendo indicazione sulla decisività e neppure sulla rilevanza della prova richiesta ai fini della decisione. Rigettata, pertanto, la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, la Corte di appello


di Venezia passava all'esame dei due atti di gravame.


5. Per ciò che concerneva l'appello della L., con primo motivo si impugnava il provvedimento di confisca, disposto dal tribunale, osservando che non aveva mai ricevuto condanne e che era stato dimostrato che ogni singolo bene immobile era stato acquistato grazie a flussi finanziari derivanti da contratti di mutuo o finanziamenti ricevuti da soggetti privati, per un ammontare addirittura superiore al prezzo di acquisto dei beni. Si contestava poi l'affermazione del primo giudice secondo cui L. non disponeva di risorse proprie, in quanto invece derivanti non da altre società del marito, bensì dalla comunità ebraica, mediante donazioni, poiché alcuni degli immobili sarebbero stati destinati a rituali ebraici e per tale ragione veniva finanziata dalla comunità religiosa di riferimento. L'impugnante contestava, altresì, che le provviste derivanti da conti della Only One srl dimostrassero l'intestazione fittizia dei beni immobili, poiché dette somme sarebbero state restituite da L. alla società del marito. L'imputata sarebbe stata effettiva amministratrice della società Ristorazione & Catering, con i cui proventi (oltre a mutui e a donazioni) acquistava gli immobili poi sequestrati. Di qui la richiesta di annullare/revocare il provvedimento di confisca, con conseguente dissequestro e restituzione dei beni all'appellante L..


Il motivo d'appello veniva ritenuto infondato. Si dubitava, anzitutto, che la L., non condannata e pertanto non imputata nel giudizio di appello, fosse legittimata a presentare impugnazione avverso la sentenza; invero la confisca era stata disposta per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, di cui era imputato il solo B., ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis. In quanto terzo avente diritto alla restituzione, non imputata nel secondo grado di giudizio di cognizione, L. avrebbe dovuto presentare non già atto di appello, ma un'istanza di restituzione dei beni, ed in caso di rigetto appellare avanti al tribunale del riesame. Veniva richiamato poi l'orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella pronuncia n. 48126 del 20/07/2017, ove si afferma che, in tema di misure cautelari reali, il terzo rimasto estraneo al processo, formalmente proprietario del bene già in sequestro, di cui sia stata disposta con sentenza la confisca, può chiedere al giudice della cognizione, prima che la pronuncia sia divenuta irrevocabile, la restituzione del bene e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame. Per inciso, inoltre, si osservava che la sentenza non era stata impugnata nemmeno nella parte in cui il capo di imputazione n. 3) veniva ritenuto fatto diverso, con trasmissione degli atti al P.M. perché procedesse per altro reato; tale punto della sentenza non veniva ritenuto costituire, pertanto, oggetto del presente giudizio, che vede L., come terzo estraneo alla cognizione del giudice di secondo grado.


Altra osservazione riguardava il fatto che sugli stessi beni immobili, su cui era stata operata nei confronti del B., la confisca sino alla concorrenza dell'imposta evasa, rimanesse il provvedimento di sequestro preventivo, a suo tempo disposto dal Gip presso il Tribunale di Venezia anche nei confronti di L., misura cautelare che continuava a sussistere e su cui il giudice di secondo grado non aveva alcun potere dl revoca.


Tutto ciò premesso in ordine alle argomentazioni che conducevano a ritenere inammissibile il motivo di gravame, si sottolineava che le ragioni esposte da L. - in particolare, il fatto che avrebbe acquistato i beni immobili con suoi redditi - avevano trovato puntuale smentita nel corso del processo di primo grado, come spiegato nella sentenza del tribunale lagunare. In particolare, la deposizione del custode degli immobili, Dott. G.D., ricostruiva nel dettaglio i pagamenti del prezzo degli immobili, intestati solo fittiziamente a L.: una parte proveniva direttamente dal conto corrente della Only One srl, di cui B. era amministratore, un'altra parte proveniva da assegni tratti da conti correnti di Lin-der riferibili alla società Ristorazione & Catering, che di fatto era gestita sempre dal B.. I mutui accesi dalla L. sono successivi agli acquisti e finalizzati alla ristrutturazione degli stessi.


6. Per ciò che concerne l'appello di B. si impugnava, inoltre, l'ordinanza emessa in data 8 maggio 2018 del Tribunale di Venezia con cui veniva rigettata la richiesta di messa alla prova ex art. 168-bis c.p., presentata dall'imputato, ritenuta inammissibile in quanto parziale, ossia limitata ad uno dei due reati contestati. L'interpretazione data dal primo giudice alla normativa di riferimento, per quanto conforme all'orientamento maggioritario della Suprema Corte, risulterebbe introdurre, da un lato, una preclusione non prevista dalla lettera della legge nonché determinare, dall'altro, un insanabile contrasto con la finalità rieducativa della pena, precetto di rango costituzionale. La Corte, in particolare, condivideva l'ordinanza del Tribunale, che veniva ritenuta uniformarsi a costante indirizzo di legittimità (cfr. da ultimo Sez. 6, n. 24707 del 12/04/2021, per cui, in tema di messa alla prova, è inammissibile l'accesso al beneficio nel caso di procedimenti cumulativi aventi ad oggetto anche reati diversi da quelli previsti dall'art. 168-bis c.p.p., in quanto la definizione parziale è in contrasto con la finalità deflattiva dell'istituto e con la prognosi positiva di risocializzazione che ne costituisce la ragione fondante, rispetto alla quale assume valenza ostativa la commissione dei più gravi e connessi reati per i quali la causa estintiva non può operare; nella fattispecie la Corte di legittimità precisava, peraltro, che non può accedersi alla messa alla prova neppure previa separazione ex art. 18 c.p.p., non essendo prevista la possibilità di procedere alla separazione in funzione strumentale rispetto all'accesso a riti differenziati).


Nel secondo motivo di appello si contestava in toto il punto della decisione impugnata che riconosceva il ruolo di amministratore di fatto, oltre che di diritto, nella Only One s.r.l., in capo al B.. L'imputato -sosteneva l'appellante- avrebbe dunque gestito la società a titolo di cortesia nei confronti dei fratelli S., residenti all'estero ed esclusivi gestori della società. B., in quanto mero prestanome, non sarebbe stato nelle condizioni di assolvere agli obblighi tributari (non disponeva delle scritture contabili, non teneva la contabilità, non operava nei conti), né in capo a lui avrebbe potuto ravvisarsi l'elemento soggettivo del dolo specifico, mancando l'intenzione di frodare il fisco.


Il motivo veniva ritenuto infondato e, perciò, rigettato. Anzitutto, la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, è un reato proprio omissivo, di cui risponde l'amministratore di diritto, soggetto obbligato a presentare le dichiarazioni fiscali. Nel caso di specie, l'eventuale accertamento della qualifica di amministratore di fatto in capo a S.M. o a S.J., avrebbe rilievo al fine di accertare una ulteriore responsabilità di questi ultimi, a titolo di concorso. Il primo giudice ricordava che consolidato orientamento di legittimità per cui l'amministratore di diritto, anche se mero prestanome, è comunque investito degli obblighi inerenti all'amministrazione della società (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754 - 01), precisando che l'amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2, a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015, Rv. 264971 - 01; Sez. 5, n. 7332 del 07/01/2015, Rv. 262767 01). Nel caso di specie, l'odierno imputato non si limitava affatto ad essere un mero prestanome dei fratelli S..


Premessa l'irrilevanza dei motivi personali per cui B. avesse accettato l'incarico di amministratore di diritto, è stato ampiamente provato - mediante plurime prove testimoniali, costituite dall'audizione dei dipendenti della società - che l'imputato effettivamente si occupava della ed amministrava la società, compiendo tipici atti gestori, quali intrattenere i rapporti con i dipendenti del negozio, pagare gli stipendi, pagare l'affitto dei locali, annotare con un sistema di "prima nota" la contabilità, prelevare gli incassi della giornata dai registratori di cassa; l'imputato, inoltre, ha speso formalmente la qualifica di amministratore non solo nella documentazione relativa alla società Only One, ma altresì nei rapporti con dipendenti e fornitori. Era B., a sottoscrivere i documenti da consegnare alla dogana di arrivo della merce nel territorio nazionale, a sottoscrivere i documenti con cui autorizzava le operazioni di svincolo e sdoganamento delle merci provenienti da paesi extra-UE, ad intrattenere i rapporti con il commercialista Dott. Ceci, cui inoltrava la documentazione contabile. La sua volontà di dimettersi dalla carica di amministratore, espressa ai fratelli S. con varie missive acquisite agli atti, era rimasta priva di seguito.


Parimenti, i rilievi critici avanzati dall'appellante, in punto di assenza di dolo specifico, non venivano ritenuti fondati. Come ricordava la sentenza impugnata, nei reati fiscali, connotati da dolo specifico, è riscontrabile la necessità di fornire l'ulteriore prova dell'elemento soggettivo declinato nel dolo di evasione, la cui prova può essere desunta da molteplici elementi fattuali (come l'entità del superamento della soglia di punibilità vigente o il complessivo comportamento del soggetto obbligato; cfr., per tutte, Cass., Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016). Nel caso di specie, B. si occupava concretamente della gestione della società, era lui che si rapportava con il commercialista, che nei primi anni aveva presentato le dichiarazioni fiscali proprio sulla scorta della documentazione consegnata dall'imputato, salvo poi lasciare l'incarico proprio per l'impossibilità di far fronte alla tenuta delle scritture contabili ed agli adempimenti fiscali, in quanto B., pur sollecitato dallo studio del commercialista a depositare la documentazione contabile, continuava a sottrarsi. Di qui si ricavava la prova positiva della consapevolezza dell'imputato dei ricavi prodotti nonché della mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali, visto che il professionista di riferimento continuava ad avvertirlo della scadenza degli adempimenti, tanto poi da rinunciare all'incarico. A tutto ciò si aggiungeva, da ultimo, la considerazione che la movimentazione di denaro della società Only One avveniva tramite un conto corrente della società (n. 248880 acceso presso Carige, agenzia 1 di Venezia, nel marzo 2008, in cui operava B.) ed un conto intestato a B., personalmente; l'imputato era perfettamente a conoscenza, pertanto, dei ricavi della società.


Con terzo motivo di appello l'imputato deduceva il difetto di prova del superamento delle soglie di punibilità delle singole imposte evase, previste dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5. In particolare, il Tribunale non avrebbe tenuto conto di tutti i costi sostenuti dalla società, ed addirittura di fatture di acquisto da soggetti extra-UE, solo perché non erano stati assolti gli obblighi di registrazione. Si contestavano radicalmente le modalità di calcolo dei costi da dedurre.


Il motivo veniva tuttavia ritenuto anch'esso infondato, dal momento che l'appellante si limitava a reiterare quanto già contestato nel corso del processo di primo grado in ordine alle modalità di determinazione dell'imposta evasa da parte della Guardia di Finanza, senza tuttavia indicare i singoli costi sostenuti dalla società, che i verificatori non avrebbero considerato. Venivano in sostanza riproposte nell'atto di impugnazione le medesime argomentazioni già formulate nel corso del processo, smentite con dettagliata motivazione in sentenza; in particolare la versione "alternativa" proposta dal difensore, relativa alla presenza di ulteriori costi da portare in detrazione, non trovava alcun positivo e concreto riscontro negli atti; si richiamava sul punto, a titolo esemplificativo del consolidato orientamento di legittimità, la sentenza Cass., Sez. 2, n. 3817 del 09/10/2019, per cui "(...) è necessario che la ricostruzione dei fatti prospettata dall'imputato che intenda far valere l'esistenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, contrastante con il procedimento argomentativo seguito dal giudice, sia inconfutabile e non rappresentativa soltanto di un'ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili". Per chiarezza espositiva andava ricordato che, con riferimento alle dichiarazioni fiscali di cui al capo di imputazione, il limite soglia fissato dalla norma era quello di Euro 30.000; nel caso di specie l'omesso versamento di imposte è contestato (e provato) per importi molto superiori.


Invero, ai fini dell'individuazione della soglia di punibilità del delitto di omessa dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, vigente ratione temporis, si faceva riferimento al momento della consumazione del reato, da fissare nel termine di novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale relativa all'imposta sui redditi o all'IVA. La soglia di punibilità era originariamente fissata in una evasione di Euro 77.000 con riferimento a taluna delle singole imposte; poi, era stata rideterminata in Euro 30.000 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma vicies semel, lett. f), conv. in L. 14 settembre 2011 e, da ultimo, è stata stabilita in Euro 50.000 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 5, comma 1, lett. a), (Sez. 3, n. 19647 del 20/02/2019). La sentenza del Tribunale di Venezia ricordava anche il principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di reati tributari, al fine di determinare l'ammontare della imposta evasa, il giudice è tenuto ad operare una verifica che, pur non potendo prescindere dai criteri di accertamento dell'imponibile stabiliti dalla legislazione fiscale, subisce le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell'accertamento penale e dalle regole che lo governano, con la conseguenza che i costi deducibili non contabilizzati vanno considerati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza (così Cass., Sez. 5, n. 40412 del 13/06/2019). Con riferimento alle imposte dirette, il teste di P.G. Abruzzese ha spiegato che, tra la documentazione acquisita in sede di accesso, sono emerse delle fatture di fornitori esteri (Cina e Corea), che confermavano effettivi costi sostenuti dall'impresa e la loro inerenza con l'oggetto sociale dichiarato dalla Only One Srl, ossia il commercio di articoli di bigiotteria. Pertanto detti costi, sostenuti dalla società verificata per l'acquisto di merce da paesi extra-UE, in quanto inerenti all'attività economica della Only One Srl, venivano tenuti in considerazione in sede di verifica. In materia di IVA, la determinazione della base imponibile, e la relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l'eventuale sussistenza di costi non documentati (ciò in quanto l'IVA si colloca in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive).


Concludendo sul terzo motivo di appello, veniva rigettato non avendo l'appellante confutato con documentazione fiscale o contabile ovvero extra-contabile eventuali costi sostenuti dalla società, diversi ed ulteriori di quelli già individuati dai finanzieri con la propria autonoma attività di verifica.


7. L'appellante L. censurava, poi, come errata la ricostruzione dei flussi finanziari in uscita dai conti della Only One e la lettura data dal primo giudice a tali movimentazioni di denaro. In particolare, si contestava che quei pagamenti, avvenuti tramite terminali Pos dei punti vendita della Only One, e confluiti nel conto corrente della società BSD Srl, sarebbero state distrazioni di denaro dal patrimonio della Only One Srl, perché sul conto BSD operava solo S. e non vi sarebbe stata prova di retrocessioni di somme da S. a B., diversamente da quanto sostenuto dal primo giudice. Si sarebbe trattato, pertanto, di prova a favore di B., non contro. Quelle che il primo giudice individuava come società inattive, quali da New Green Trading s.r.l. e la Ecoverde s.r.l, sui cui conti secondo il Tribunale di Venezia venivano accertati movimenti bancari in addebito "riconducibili" alla Only One, in realtà erano società attive. Gli acquisti degli immobili intestati alla moglie dell'imputato, e posti sotto sequestro, erano stati effettuati con somme nella esclusiva disponibilità di L. (mutui, donazioni provenienti dalla comunità ebraica); solo i bonifici alla Ristorazione & Catering provenienti dalla Only One erano stati prontamente restituiti. Le donazioni che confluivano sul conto personale di B., non costituivano risorse sue, bensì somme che doveva fiducia-riamente trattenere per poi destinare a soggetti che la comunità ebraica individuava per la realizzazione di specifici progetti. A tal fine B. faceva trasferimenti (di denaro a L., destinataria finale di tali elargizioni. Diversamente, con riguardo al reato di omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali, quanto sostenuto dall'appellante presentava una rilevanza del tutto marginale sotto il profilo della prova del fatto, risultando piuttosto un tema da approfondire in relazione alla disposta confisca. Anzitutto, quanto affermava l'appellante circa i ricavi della Only One Srl, che confluivano nei conti correnti della BSD Srl, risulta sostanzialmente privo di rilievo nella imputazione di cui all'art. 5, salvo osservare che si trattava di una somma complessiva di ben 235.675,00 di ricavi della Only One Srl che andavano direttamente su di un conto corrente intestato ad una società in cui anche l'imputato B. era socio, e che aveva sede legale presso il luogo di abitazione a Venezia di B. (ciò a testimonianza del fatto, ancora una volta, della sua consapevolezza sull'entità dei ricavi della società Only One, da lui amministrata).


I rilievi difensivi sulle società New Green Trading Srl ed Ecoverde Srl sono del tutto indimostrati. Quanto al tema delle donazioni provenienti dalla comunità ebraica, su cui si concentra l'atto di gravame, è privo di rilievo ai fini della prova del reato tributario in contestazione. Del tutto sfornita di prova, inoltre, è la circostanza allegata dall'imputato, ossia il fatto che si trattava di somme che lui fidu-ciariamente amministrava e che erano destinate ad acquistare immobili utili per i bisogni della comunità ebraica.


Il provvedimento di confisca veniva poi definito dall'atto di appello L. abnorme, giacché disposto per un reato, quello di bancarotta fraudolenta, non ancora sub iudice. Sarebbe preclusa -a dire dell'atto d'appello- l'applicazione della confisca per la contestuale pendenza della procedura amministrativa per il recupero della sanzione amministrativa da parte dell'Erario. Si richiamava il noto principio del ne bis in idem sostanziale valorizzato dalla Corte EDU. Si contestava in ogni caso la disponibilità dei beni immobili confiscati in capo all'imputato, chiedendo, pertanto, la revoca del provvedimento ablatorio.


Le doglianze articolate in punto di confisca venivano dichiarate tuttavia destituite di fondamento, per quanto, a fronte dell'intervenuta prescrizione per il reato commesso con riferimento all'anno di imposta 2010, andasse ridotto l'importo del provvedimento ablatorio.


Si osservava, anzitutto, che la confisca era stata espressamente disposta solo per il reato tributario, l'unico per cui vi è stata condanna, e che il mancato riconoscimento della fattispecie di cui all'art. 11 non escludeva la possibilità di confisca dei beni immobili già oggetto di sequestro. La confisca tributaria per equivalente, nella prospettiva del primo giudice, è stata introdotta nell'ordinamento penale dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, il quale prevede che, nei casi di reati tributari, tra cui è compreso l'art. 5, si osservano in quanto applicabili le disposizioni di cui all'art. 322-ter c.p., norma che, dopo aver regolato la confisca diretta, prevede la confisca per equivalente dei beni di cui l'imputato abbia la disponibilità per una valore corrispondente al prezzo o profitto del reato, ossia all'imposta evasa (cfr. Cass., Sez. 6, n. 10598 del 30/01/2018 - citata dal P.G. nelle sue conclusioni- che ricorda come l'art. 1 citato fa integrale rinvio all'art. 322- ter c.p., nelle previsioni dei commi 1 e 2; il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all'imposta evasa può essere disposto con riferimento agli illeciti commessi a partire dall'entrata in vigore della L. n. 244 del 2007, ossi dal (Omissis)). Non è riscontrabile, pertanto, alcun profilo di abnormità nel provvedimento ablatorio assunto. La confisca era stata disposta sugli immobili in sequestro, ritenuti fittiziamente intestati alla Lin-der, ma acquistati da B. con proventi della Only One Srl, della Ristorazioni & Catering e dal suo conto personale presso Poste Italiane. Alle pagine 17 e seguenti della sentenza sono puntualmente indicate le modalità di pagamento dei vari immobili, sulla base della ricostruzione effettuata dal Dott. G., nominato custode. Si trattava per lo più di pagamenti con assegni tratti da conti correnti della Only One Srl, della Ristorazioni & Catering, del conto personale di B.. Corretta è l'affermazione del Tribunale, secondo cui ricorreva in capo a B. la "disponibilità" dei beni immobili confiscati, presupposto del provvedimento. E' principio consolidato e noto, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che la "disponibilità" del bene non coincide con la nozione civilistica di proprietà, ma con quella di possesso, ricomprendendo tutte quelle situazione nelle quali il bene stesso ricade nella sfera degli interessi economici del reato, ancorché il potere dispositivo su essi venga esercitato tramite terzi, e si estrinseca in una relazione connotata dall'esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (così, per tutte, Cass., Sez. 3, n. 4887 del 13/12/2018). Nel caso di specie è stato ampiamente provato che gli immobili, al di là della titolarità formale in capo alla moglie dell'imputato, erano direttamente riconducibili a B., poiché acquistati con i ricavi provenienti dalla Only One Srl, amministrata dall'imputato, ovvero dalla Ristorazione & Cate-ring, di cui B., era amministratore di fatto, o direttamente dal conto personale dell'imputato. Che quest'ultimo si difenda affermando che si trattasse di donazioni della comunità ebraica, destinate all'acquisto dl proprietà immobiliari da adibire a scopi di riti ebraici, è di scarso rilievo, nel senso che non riveste alcuna importanza dimostrare quale sia l'origine del denaro impiegato per l'acquisto e quali che siano i fini di impiego, ciò che rileva, invero, è che si tratti di somme che provengono proprio dall'imputato, che per tale ragione risulta "collegato" a dette proprietà immobiliari, seppur intestate ad un suo congiunto.20(


Invero, è espressamente previsto dalla legge (art. 12-bis, comma 2) che, fintanto che non vi sia il versamento della sanzione ammnistrativa, rimane operativa la confisca. In tema di reati tributari, la disposizione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, comma 2, introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prezzo del reato "non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro", deve essere intesa nel senso che la confisca - così come il sequestro preventivo ad essa preordinato - può essere adottata anche a fronte dell'impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l'evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito (cfr. Cass., Sez. 3, n. 28488 del 10/09/2020, nella cui motivazione la Corte ha precisato che il sequestro e la conseguente confisca devono essere conservati fino all'integrale effettivo pagamento della somma evasa, potendo le rate già versate essere considerate solo ai fini della ri-quantificazione della misura).


Il provvedimento ablatorio, tuttavia, non si riteneva potesse essere mantenuto per i fatti relativi all'anno d'imposta 2010, essendo la norma dell'art. 578-bis c.p.p. entrata in vigore successivamente. Sul punto era già intervenuta con diverse pronunce la Suprema Corte, affermando che la disposizione dell'art. 578-bis c.p.p. (che ha disciplinato la possibilità di mantenere la confisca con la sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato nel caso in cui sia accertata la responsabilità dell'imputato) è applicabile anche alla confisca tributaria D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12-bis, che, ove disposta per equivalente, non può essere mantenuta in relazione a fatti anteriori all'entrata in vigore del citato art. 578-bis c.p.p., atteso il suo carattere afflittivo (Sez. 3, n. 7882 del 21/01/2022). Concludendo sul secondo motivo di appello di L., la confisca veniva ritenuta ridotta all'entità dell'imposta evasa per gli anni 2011 e 2012, che risulta complessivamente pari a 455.009,40 Euro per l'IVA e a 118.701,01 Euro per l'IRPEF (valore dei beni 602.000 Euro, al netto dei debiti ipotecari, come stimati dall'amministratore G.).


Nell'ultimo motivo di appello, infine, si censurava l'entità della pena, ritenuta eccessiva rispetto alle modalità del fatto, al ruolo marginale di B. assunto nella vicenda ed al suo corretto comportamento processuale.


Il motivo meritava parziale accoglimento, avendo la Corte dichiarato la prescrizione del reato di omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali con riferimento alla annualità 2010. Anche se il primo giudice non aveva indicato a quale annualità fosse riferita la pena base, doveva intendersi quella relativa all'anno


2010, fatto in ordine al quale è stata dichiarata preliminarmente la prescrizione. r Pertanto, la pena base, da riferirsi quale fatto più grave tra quelli in continuazione all'anno di imposta 2011, non può che essere ridotta rispetto a quella di anni due di reclusione, fissata dal Tribunale. La Corte, tuttavia, condivideva la valutazione ex art. 133 c.p. espressa dal primo giudice, che sottolineava come la società gestita dall'imputato avesse ogni possibilità di soddisfare i debiti erariali, visti i ricavi conseguiti, e come invece B. avesse deliberatamente scelto di non presentare le dichiarazioni fiscali e svuotare il patrimonio della società; per tali ragioni la pena base viene indicata in misura vicina ma non coincidente con il minimo edittale, e segnatamente in quella di anni uno e mesi dieci di reclusione, aumentata di quattro mesi per l'annualità 2012, con pena finale pari ad anni due e mesi due di reclusione.


Si confermava, infine, l'esclusione delle attenuanti generiche, cui ostava, in particolare, la negativa personalità dell'imputato; nonostante la disapplicazione della recidiva, assumeva rilievo dirimente la sentenza di condanna definitiva a suo carico per il reato di bancarotta fraudolenta (commesso nel 2009 con riferimento al ristorante Gam-Gam). Si confermavano, infine, le pene accessorie disposte dal primo giudice nella misura pari alla pena detentiva determinata in epigrafe. Concludendo, la sentenza appellata veniva riformata per effetto della dichiarazione di prescrizione parziale del reato sub capo di imputazione n. 1), per il resto trovando conferma nella pronuncia dei Giudici di appello di Venezia.


8. Tanto premesso, può procedersi nell'esame dei singoli motivi di ricorso, muovendo anzitutto da quelli posti con il ricorso B..


8.1. Il primo motivo di ricorso, proposto nell'interesse di B., concerne aspetti prevalentemente processuali e riguarda una presunta violazione di legge in riferimento al rigetto della richiesta di ammissione alla messa alla prova.


In particolare, in relazione al primo motivo del ricorso B., il Tribunale di Venezia aveva rigettato la richiesta di sospensione e messa alla prova sull'assunto che non sarebbe ammissibile una richiesta parziale, ovvero limitatamente ad uno solo dei due reati contestati: si tratta dell'ordinanza pronunciata dal Giudice di primo grado all'udienza dell'08/05/2018. L'appellante B. aveva poi impugnato la sentenza a pagg. 2-5 dell'atto di appello, affermando che "pur essendo indubbio (...) che il giudice di merito debba tener conto anche del fatto che sia contestato nei confronti del richiedente (messa alla prova) un reato non rientrante tra quelli ricompresi nel catalogo di cui all'art. 168-bis c.p. o per il quale il predetto non intende chiedere l'ammissione al beneficio, pare si possa ipotizzare un'alternativa all'approccio astratto e assolutista proposto dalla Cassazione", e cioè che "sembra che il dato normativo consenta di effettuare una valutazione concreta, che permetterebbe al giudice di ammettere parzialmente il richiedente al rito, ove ritenga possibile effettuare, in base agli elementi effettivamente disponibili, una prognosi positiva sulla rieducazione dell'interessato" (pag. 5 appello B.): poco dopo si specifica che "ritenendosi astrattamente ammissibile la possibilità di disporre la messa alla prova parziale, bisognerebbe fare applicazione dell'art. 18 c.p.p., con la conseguenza che il giudice potrebbe negare il beneficio non solo per ragioni legate all'impossibilità concreta di operare una positiva prognosi rieducativa del richiedente, ma anche quando la riunione dei processi sia assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti" (pag. 5 atto di appello B.). Dopo aver speso varie argomentazioni in ordine alla costituzionalità o meno dell'istituto della messa alla prova, si concludeva che "l'appellante avrebbe dovuto essere ammesso al beneficio della sospensione e messa alla prova di cui all'art. 168-bis c.p. limitatamente al reato di omessa dichiarazione, non sussistendo ragioni ostative né di ordine letterale né di ordine sistematico; la richiesta era invero stata formulata tempestivamente, l'offerta risarcitoria era congrua ed adeguata e lo svolgimento del programma individuato dall'U.E.P.E. avrebbe con certezza, consentito la piena e totale risocializzazione dell'appellante" (pag. 8 atto di appello B.).


Sul punto tuttavia, la Corte di appello di Venezia condivideva l'ordinanza del Tribunale (pagg. 7-8 sentenza C.App. Venezia), che veniva ritenuta uniformarsi al principio per cui "e' inammissibile l'accesso al beneficio nel caso di procedimenti cumulativi aventi ad oggetto anche reati diversi da quelli previsti dall'art. 168-bis c.p., in quanto la definizione parziale è in contrasto con la finalità deflattiva dell'istituto e con la prognosi positiva di risocializzazione che ne costituisce la ragione fondante, rispetto alla quale assume valenza ostativa la commissione dei più gravi e connessi reati per i quali la causa estintiva non può operare (Sez. 2, sentenza n. 3082 del 20/10/2022, dep. 2023, in motiv.; Sez. 6, sentenza n. 24707 del 12/04/2021, Rv. 281832 - 01; Sez. 5, sentenza n. 6203 del 08/10/2020, dep. 2021; Sez. 2, sentenza n. 33057 del 21/04/2016; Sez. 2, sentenza n. 14112 del 12/03/2015, Rv. 263125 - 01). La Corte di cassazione, peraltro, ha anche precisato che non può neppure accedersi alla messa alla prova previa separazione ex art. 18 c.p.p., non essendo prevista la possibilità di procedere alla separazione in funzione strumentale rispetto all'accesso a riti differenziati (Sez. 6, n. 24707 del 12/04/2021, cit.; Sez. 5, n. 6203 del 08/10/2020, dep. 2021, cit.). In merito, si sottolinea come sia sufficiente scorrere le disposizioni degli artt. 464-bis e seguenti c.p.p., per rilevare come la sospensione con messa alla prova non determini alcuna deflazione del carico giudiziario, comportando, semmai, un aggravio del procedimento, attraverso la previsione di incombenze ulteriori, dell'intervento di organi esterni all'apparato giudiziario e di un'eventuale stasi processuale: di qui, l'incon-ferenza delle allegazioni difensive, poiché relative a fattispecie non assimilabili (così, Sez. 6, n. 27394 del 13/04/2021).


8.1.1. Il primo motivo di ricorso per cassazione nell'interesse di B., è generico in merito alle "valide ragioni per una rimeditazione delle considerazioni espresse nella sentenza appellata" (pag. 3 ricorso per cassazione B.), anche perché adduce giurisprudenza di merito in tema di messa alla prova parziale (anche ritenendo ammissibile un'istanza di probation parziale valorizzando gli aspetti rieducativi e risocializzanti della messa alla prova). Peraltro, si fa riferimento ad una "costruzione in via esegetica di una preclusione assoluta non prevista dalla lettera della legge", che all'art. 18 c.p.p. invece prevede espressamente la possibilità di "separare i processi se per una o più imputazioni è stata disposta la sospensione del procedimento" (pag. 4 ricorso per cassazione B.). Si contesta poi la ratio della c.d. "rieducazione totalizzante" (pag. 7 ricorso per cassazione B.), adducendo (sempre per astratto, pur richiedendo una prognosi in concreto, come ricordato sopra) esempi per assurdo di risultati incongruenti della messa alla prova parziale.


La ragione giustificatrice dell'istituto, però, è tutt'altra e va individuata nel favore per la risocializzazione del condannato, prima ed in via alternativa e preferibile rispetto alla sottoposizione di esso a pena. Ma, se così e', ne scaturisce, con logica ovvietà, che tale procedimento di recupero del reo non possa essere parziale, sì da essere sperimentato e consentito, in caso di imputazioni plurime e cumulative, soltanto per alcune di esse: in tal senso, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di esprimersi, stabilendo che la sospensione con messa alla prova non possa essere disposta, previa separazione dei processi, soltanto per alcuni dei reati contestati per i quali sia possibile l'accesso al beneficio, in quanto la messa alla prova tende all'eliminazione completa delle tendenze antisociali del condannato, sì che una rieducazione "parziale" sarebbe incompatibile con le finalità dell'istituto (Sez. 2, sentenza n. 14112 del 12/03/2015).


8.1.2. Da ultimo, e conclusivamente, va evidenziato che, pur essendo, a seguito della c.d. riforma Cartabia (D.Lgs. n. 150 del 2022), oggi in astratto ammissibile la sospensione del processo con messa alla prova anche per il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, (giusta il disposto del novellato art. 168-bis, c.p. il quale prevede che la messa alla prova possa essere richiesta non solo per i reati


puniti entro il massimo edittale di quattro anni di pena detentiva, ma anche "per i r


delitti indicati dall' art. 550 c.p.p., comma 2, tra i quali vi rientra (lett. g) dell'art. 550 c.p.p., comma 2, anche il reato di cui agli " del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5, commi 1 e 1-bis, "), deve tuttavia rilevarsi non solo che nessuna istanza in tal senso è stata avanzata dalla difesa del ricorrente a questa Corte, ma che, quand'anche fosse stata formalizzata, in sede di legittimità avrebbe trovato applicazione il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui nel giudizio di impugnazione davanti alla Corte di cassazione, l'imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all'art. 168-bis c.p., perché il beneficio dell'estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un "iter" processuale alternativo alla celebrazione del giudizio (Sez. 5, n. 35721 del 09/06/2015 - dep. 26/08/2015, Rv. 264259 - 01 che, in motivazione, ha evidenziato che la mancata applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore, stante l'assenza di disposizioni transitorie, non determina alcuna lesione del principio di retroattività della "lex mitior").


8.2. Il secondo motivo riguarda ancora una volta una questione processuale quanto alla mancata rinnovazione della richiesta di rinnovazione dibattimentale in relazione a due testi. Sul punto, il ricorrente si duole della revoca di un teste ammesso e della mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, lamentando che non sono stati ascoltati testimoni le cui affermazioni avrebbero dimostrato che l'imputato era da qualificarsi come un mero prestanome di altri e non titolare della gestione della società.


La Corte d'appello, sul punto, si è apparentemente limitata ad affermare che "quanto alla richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, formulata dall'appellante B., ai sensi dell'art. 603 c.p.p., la Corte, sentito il P.G. che si è opposto nelle sue conclusioni scritte, ne rileva, se non l'inammissibilità, il carattere di irrilevanza ai fini del decidere per i motivi di seguito indicati" (pag. 5 sentenza C.App. Venezia), motivando tuttavia adeguatamente questo convincimento spiegando che l'imputato "non si limitava affatto ad essere un mero prestanome dei fratelli S.", aggiungendo che egli "effettivamente si occupava ed amministrava la società, compiendo tipici atti gestori quali intrattenere i rapporti con i dipendenti del negozio, pagare gli stipendi, pagare l'affitto dei locali, annotare con un sistema di prima nota la contabilità, prelevare gli incassi della giornata dai registratori di cassa", peraltro avendo "speso formalmente la qualifica di amministratore non solo nella documentazione relativa alla società Only One, ma altresì nei rapporti con dipendenti e fornitori", essendo lui a "sottoscrivere i documenti da consegnare alla dogana di arrivo della merce nel territorio nazionale, a sottoscrivere i documenti con cui autorizzava le operazioni di svincolo e sdoganamento delle merci provenienti da paesi extra-UE, ad intrattenere i rapporti con il commercialista Ceci, cui inoltrava la documentazione contabile" e considerando anche il fatto che "la sua volontà di dimettersi dalla carica di amministratore, espressa ai fratelli S. con varie missive acquisite agli atti, era rimasta priva di seguito" (pagg. 8-9 sentenza C.App. Venezia). Dunque, B. non veniva solo riconosciuto solo come l'amministratore formale e di diritto, ma come amministratore avente poteri gestori della società, conseguendone che la rinnovazione l'istruttoria dibattimentale non assumeva alcun rilievo, difettando quindi la richiesta del carattere della decisività.


8.2.1. Trova dunque applicazione il principio secondo cui alla rinnovazione dell'istruzione nel giudizio di appello, di cui all'art. 603 c.p.p., comma 1, può ricorrersi solo quando il giudice ritenga "di non poter decidere allo stato degli atti", sussistendo tale impossibilità unicamente quando i dati probatori già acquisiti siano incerti, nonché quando l'incombente richiesto sia decisivo, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze ovvero sia di per sé oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sez. 3, n. 35372 del 23/05/2007 - dep. 24/09/2007, Rv. 237410 - 01).


Da ultimo, e conclusivamente, peraltro la Corte d'appello ha anche richiamato un indirizzo giurisprudenziale (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754 - 01; Sez. 3, n. 38780 del 14105/2015, Rv. 264971 - 01; Sez. 5, n. 7332 del 07/01/12015, Rv. 262767 - 01) secondo cui l'amministratore di diritto non va esente da responsabilità per reati tributari qualora accanto allo stesso, nell'ambito della struttura societaria, vi sia anche un amministratore di fatto.


8.3. Il terzo motivo deduce un vizio motivazionale con cui si contesta il ragionamento che la Corte ha svolto per ritenere il B., amministratore della Only One Srl: in sostanza, tuttavia, si tratta di un tentativo di chiedere a questa Corte di operare nuovamente la valutazione probatoria, non confrontandosi con le logiche argomentazioni della sentenza di appello.


In ordine al terzo motivo, infatti, sebbene il ricorrente abbia precisato che "non intende spingere l'indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, al fine di una diversa ricomposizione del quadro probatorio" (pag. 21 ricorso per cassazione B.), in definitiva si richiede una rivisitazione del materiale raccolto nel giudizio di merito con modalità non consentite nel giudizio di cassazione.


8.3.1. Preliminarmente, va ricordato che al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 sanziona la condotta di colui che, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, pur essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte; si tratta di condotte distinte, descritte con riferimento a ciascuna delle imposte cui le dichiarazioni si riferiscono, autonome e potenzialmente concorrenti, riferite ad obblighi diversi e ad imposte diverse, con la conseguenza che nella indicazione di una non può ritenersi compresa anche l'altra.


Il reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5 è omissivo proprio ed è posto in essere da colui che, in base alla normativa fiscale di riferimento, sia in concreto tenuto alla presentazione della dichiarazione annuale obbligatoria. Quanto all'elemento soggettivo del reato, è richiesto il dolo specifico, ovvero la prova della sussistenza, in capo all'autore, del dolo specifico di evasione: la deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte. I reati tributari, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, sono in buona parte dei c.d. reati "propri" o a soggettività ristretta, ossia il cui autore ricopre una qualifica o un ruolo precisamente individuato dal legislatore (rappresentante legale, amministratore unico, amministratore delegato, sindaco, liquidatore ecc.). Ed invero, per costante giurisprudenza di legittimità, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione, può essere desunta dall'entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell'esatto ammontare dell'imposta dovuta e detto superamento deve formare oggetto di rappresentazione e volizione da parte dell'agente, avendo la soglia natura di elemento costitutivo del reato (Sez. 3, n. 32241 del 02/07/2021). E' necessaria quindi la rappresentazione e volizione della omessa dichiarazione e del superamento della soglia di punibilità (dolo generico) e il dolo specifico di evasione in quanto il contribuente deve perseguire il "fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto (da ultimo Sez. 3, n. 9348 del 02/02/2021). Ancora in tempi più recenti si è ribadito che, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale ed indelegabile il relativo dovere ed ha chiarito che la prova del dolo specifico di evasione non deriva dalla semplice violazione dell'obbligo dichiarativo né da una culpa in vigilando sull'operato del professionista che trasformerebbe il rimprovero per l'atteggiamento anti-doveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l'omessa dichiarazione all'evasione dell'imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale (Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, Rv. 265087 - 01; Sez. 3, sentenza n. 18936 del 19/01/2016, V., Rv. 267022 - 01) e può costituire oggetto di rappresentazione e volizione anche soltanto nella forma del c.d. dolo eventuale (cfr. Sez. 3, n. 39960 del 12/06/2019). Laddove il dolo specifico di evasione è integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo (ex plurimis, Sez. 3, n. 43809 del 24/10/2014; n. 37856 del 18/06/2015; n. 18936 del 19/01/2016; n. 37532 del 11/06/2019; sentenza n. 31343 del 27/06/2019; n. 21065 del 06/05/2021).


8.3.2. La sentenza impugnata, invero, anche richiamando ampi passaggi di quella di primo grado, ha valutato la doglianza del ricorrente secondo cui, come è stato precisato, egli sarebbe stato un mero prestanome.


E infatti, "il ruolo di B., non era solo quello, demandato dal rabbino, di verificare la genuinità dei cibi secondo i dettami della religione ebraica, ma anche quello di effettivo gestore, come testimoniato dai dipendenti del ristorante e da M.J., divenuto poi amministratore unico della società, quando la stessa era oramai sull'orlo del fallimento (...) Tuttavia, era pur sempre B. a seguire la gestione della società" (pag. 2 sentenza C.App. Venezia), ma "la tesi dell'incarico meramente formale in capo a B. viene smentita, altresì, dagli accertati trasferimenti di denaro dalla società Only One alla Ristorazione & Catering (il tribunale ravvisa una commistione tra le due società) ovvero ad altre società in cui B. partecipava come socio o comunque aveva delega ad operare sui conti correnti" e "la P.G. aveva accertato, invero, la presenza di terminali Pos, nei punti vendita della Only One, in riferimento ai quali i pagamenti effettuati dai clienti con banco-mat/carte di credito venivano riversati sui conti correnti della BSD, una società inattiva, avente sede a Venezia presso l'abitazione dell'imputato, in cui quest'ultimo era socio al 5%, mentre S.M. al 95%. Delegato ad operare sul conto corrente, su cui vi era un accredito di 235.700 Euro circa riferibile a ricavi della Only One, era il solo S." (pag. 3 sentenza C.App. Venezia). Peraltro, si osservava come " B. era delegato ad operare su conti correnti riferibili alle società New Green Trading s.r.l. e Ecoverde srl, società aventi sede a Venezia, del tutto inattive, con rappresentanti legali dei cittadini francesi irreperibili; su tali conti risultavano essere state effettuate movimentazioni bancarie in addebito riconducibili alla Only One, quali pagamenti verso fornitori extra-UE e prelevamenti in contanti effettuati da B." e che "sul conto corrente della Only One, su cui operava B. in quanto legale rappresentante, veniva rinvenuto un bonifico di


circa 34 mila Euro in favore della L., nonché l'accredito di somme di denaro per complessivi 215.000 Euro da parte di persone fisiche e società riconducibili alla Ristorazione & Catering": in conclusione, "risultavano frequenti prelievi in con-


tanti, che confluivano nel conto postale personale di B." e "anche clienti della Ristorazione & Catering versavano denaro sul conto postale di B. mediante bonifici; vi erano accrediti sempre sul conto postale di fornitori della Ristorazione in seguito a prestazioni configurabili come procacciamento di affari da parte di B. (...) vi era, in sostanza, una piena commistione dei flussi finanziari delle due attività" (ibidem). In particolare, tra i diversi elementi probatori illustrati dalla sentenza della Corte di appello di Venezia, appare significativo il riferimento agli accertati trasferimenti di denaro dalla società per cui è giudizio ad altra impresa a cui l'imputato partecipava come socio o per la quale aveva delega ad operare sui conti correnti (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata).


Risulta dunque dimostrato (come correttamente hanno accertato i giudici di merito), oltre ogni ragionevole dubbio, che il ricorrente non fosse solo un prestanome all'interno della struttura organizzativa della società.


8.4. Il quarto motivo deduce violazione di legge quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, contestando in sostanza il fatto che non sia stato creduto che il B., fosse un prestanome.


Questo motivo di ricorso appare incentrato sull'ipotesi, esclusa nella sentenza impugnata, che l'imputato fosse solo un prestanome ed in particolare il mero amministratore di diritto di una società gestita da altri. Sul punto, è già stato precisato come si tratti di una tesi smentita dagli elementi raccolti nei giudizi di merito; comunque, la Corte di appello, anche soffermandosi sull'elemento soggettivo del reato, ha sottolineato che " B. si occupava concretamente della gestione della società, era lui che si rapportava con il commercialista che nei primi anni aveva presentato le dichiarazioni fiscali proprio sulla scorta della documentazione consegnata dall'imputato (...)" (pag. 8-9 sentenza C.App. Venezia). Va infine sottolineato che la movimentazione del denaro avveniva tramite un conto intestato all'imputato che, pertanto, aveva piena consapevolezza dei ricavi della società.


Peraltro, sul tema, consolidato orientamento di legittimità afferma che l'amministratore di diritto, anche se mero prestanome, è comunque investito degli obblighi inerenti all'amministrazione della società (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754 - 01), precisando che l'amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ai sensi dell'art. 40 c.p., comma 2, a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015, Rv. 264971 - 01; Sez. 5, n. 7332 del 07/01/2015, Rv. 262767 01).


Elemento della cui sussistenza nel caso di specie, per le ragioni evidenziate, non vi è motivo di dubitare.


8.5. Il quinto motivo censura la sentenza quanto alla sussistenza in capo al reo della consapevolezza del superamento della soglia di punibilità.


Sul punto, si rileva che si tratta di motivo per la prima volta posto in sede di legittimità e, perciò, inammissibile ex art. 606 c.p.p., comma 3.


Secondo il ricorrente, infatti, la Corte di appello avrebbe ignorato una dichiarazione dello stesso imputato tale da escluderne la responsabilità penale, per cui egli non possedeva la documentazione contabile, circostanza peraltro confermata dal commercialista che l'ha appresa dallo stesso imputato. Non occorre, tuttavia, soffermarsi su questi profili, se non ribadendo quanto in precedenza rilevato sulla dimostrazione raggiunta nei giudizi di merito dell'esistenza di ampi poteri gestori della società da parte del ricorrente. Nei reati fiscali, peraltro, connotati da dolo specifico, vi è la necessità di fornire l'ulteriore prova dell'elemento soggettivo declinato nel dolo di evasione, la cui prova può essere desunta da molteplici elementi fattuali, come l'entità del superamento della soglia di punibilità vigente o il complessivo comportamento del soggetto obbligato (cfr., per tutte, Sez. 3, sentenza n. 18936 del 19/01/2016). Nel caso di specie, B. si occupava concretamente della gestione della società, era lui che si rapportava con il commercialista, che nei primi anni aveva presentato le dichiarazioni fiscali proprio sulla scorta della documentazione consegnata dall'imputato, salvo poi lasciare l'incarico proprio per l'impossibilità di far fronte alla tenuta delle scritture contabili ed agli adempimenti fiscali, in quanto B., pur sollecitato dallo studio del commercialista a depositare la documentazione contabile, continuava a sottrarsi. Di qui si ricava la prova positiva della consapevolezza dell'imputato dei ricavi prodotti nonché della mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali, visto che il professionista di riferimento continuava ad avvertirlo della scadenza degli adempimenti, tanto poi da rinunciare all'incarico. A tutto ciò si aggiunge, da ultimo, la considerazione che la movimentazione di denaro della società Only One avveniva tramite un conto corrente della società (n. 248880 acceso presso Carige agenzia 1 di Venezia nel marzo 2008, in cui operava B.) ed un conto intestato a B. personalmente; l'imputato era perfettamente a conoscenza, pertanto, dei ricavi della società.


Sul punto, la Corte di appello di Venezia afferma che il motivo relativo al difetto di prova del superamento delle soglie di punibilità delle singole imposte evase, previste del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, risultava infondato, limitandosi l'appellante a reiterare quanto già contestato nel corso del processo di primo grado in ordine alle modalità di determinazione dell'imposta evasa da parte della Guardia di Finanza, senza tuttavia indicare a contrariis i singoli costi sostenuti dalla società, che i verificatori non avrebbero considerato.


8.5.1. Vengono in sostanza riproposte nell'atto di impugnazione le medesime argomentazioni già formulate nel corso del processo, smentite con dettagliata motivazione in sentenza; in particolare la versione "alternativa" proposta dal difensore, relativa alla presenza di ulteriori costi da portare in detrazione, non trova alcun positivo e concreto riscontro negli atti. Si richiama sul punto, a titolo esemplificativo del consolidato orientamento di legittimità, Sez. 2, n. 3817 del 09/10/2019, che afferma "e' necessario che la ricostruzione dei fatti prospettata dall'imputato che intenda far valere l'esistenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, contrastante con il procedimento argomentativo seguito dal giudice, sia inconfutabile e non rappresentativa soltanto di un'ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili".


Il motivo, così come proposto dal ricorrente, dunque, è manifestamente infondato.


8.6. Il sesto motivo di ricorso B. torna sul dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità con riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5.


Le doglianze relative al sesto motivo risultano poste nel paragrafo p. 5 dei motivi di appello di B., in cui si sviluppano argomentazioni in ordine all'affermazione, oltre ogni ragionevole dubbio, che le soglie di punibilità siano state effettivamente superate (pagg. 25-32 atto di appello B.).


Sul tema del superamento della soglia di punibilità, tuttavia, la sentenza impugnata risulta motivata esaustivamente, avendo la Corte, tra l'altro, evidenziato come la versione alternativa offerta dal ricorrente "non trova alcun positivo e concreto riscontro negli atti" (pag. 10 sentenza C.App. Venezia).


8.7. Con l'ultimo motivo (l'ottavo del ricorso B.) la difesa si duole del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (i) e del trattamento sanzionatorio (ii), non ravvisandosi elementi che depongano in senso favorevole all'accoglimento.


8.7.1. Per quanto riguarda il primo, occorre premettere che, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime "un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione delle stesse" (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 24139 del 21/06/2021; Sez. 3, n. 28158 del 27/06/2019; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269 - 01; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899 - 01). Inoltre, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione "tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti", ma è sufficiente che egli faccia riferimento a "quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione" (cfr. Sez. 3, n. 20716 del 17/06/2020): infatti, "il diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere fondato anche sull'apprezzamento di un singolo dato negativo, oggettivo o soggettivo, che il giudice consideri prevalente rispetto agli altri, come la gravità del fatto, la serialità dei comportamenti ed i precedenti penali dell'imputato, dato che in tal modo viene comunque formulato, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità" (cfr. anche Sez. 3, n. 7061 del 23/02/2021; Sez. 2, n. 14970 del 27/03/2020; anche da Sez. 4, n. 33867 del 01/12/2020).


8.7.2. La sentenza, inoltre, contiene un'adeguata motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, che è conforme all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (cfr., tra le altre, Sez. 4, sentenza n. 46412 del 05/11/2015, Rv. 265283 - 01).


Peraltro, il relativo motivo di appello era stato accolto parzialmente, avendo la Corte dichiarato la prescrizione del reato di omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali con riferimento alla annualità 2010: in particolare, si riteneva che "la pena base, da riferirsi quale fatto più grave tra quelli in continuazione all'anno di imposta 2011, non può che essere ridotta rispetto a quella di anni due di reclusione, fissata dal Tribunale. La Corte, tuttavia, ritiene corretta in diritto e logicamente la valutazione ex art. 133 c.p. espressa dal primo giudice, che sottolinea come la società gestita dall'imputato avesse ogni possibilità di soddisfare i debiti


erariali, visti i ricavi conseguiti, e come invece B. abbia deliberatamente scelto di non presentare le dichiarazioni fiscali e svuotare il patrimonio della società; per


tali ragioni la pena base viene indicata in misura vicina ma non coincidente con il minimo edittale, e segnatamente in quella di anni uno e mesi dieci di reclusione, aumentata di quattro mesi per l'annualità 2012, con pena finale pari ad anni due e mesi due di reclusione. Si conferma l'esclusione delle attenuanti generiche, cui osta la negativa personalità dell'imputato; invero, nonostante la disapplicazione della recidiva, non può sottacersi la sentenza di condanna definitiva a suo carico per il reato di bancarotta fraudolenta commesso nel 2009 con riferimento al ristorante Gam-Gam" (pagg. 14-15 sentenza C.App. Venezia).


8.8. Il ricorso per cassazione, proposto nell'interesse della L. avverso la medesima pronuncia della Corte di appello di Venezia, si limita a dedurre un unico, articolato, motivo. Il motivo, anzitutto, torna sul dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità con riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, ed e', quindi, possibile trattarlo congiuntamente alle argomentazioni spese con riguardo al sesto motivo del ricorso B., in quanto connessi, ribadendosi anche per la L. l'assoluta mancanza di pregio del motivo, come già esposto a proposito della posizione B.. Il motivo L., nel resto, è comune al settimo motivo di ricorso B., contestandosi da parte delle difese la disposta confisca per equivalente, donde si giustifica la loro trattazione congiunta.


8.8.1. La Corte d'appello di Venezia, sul punto, ha rilevato che L. "non è stata condannata e, dunque, non era da ritenersi legittimata a proporre impugnazione avverso la sentenza di primo grado" (pag. 6 sentenza C.App. Venezia).


Ricordando come "la confisca è stata disposta per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, di cui era imputato solo B., ai sensi del bis D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 ", la Corte di appello di Venezia ha stabilito che " L., in quanto terzo avente diritto alla restituzione, non imputata nel secondo grado di giudizio di cognizione, avrebbe dovuto presentare non già atto di appello ma un'istanza di restituzione dei beni (a), ed in caso di rigetto appellare avanti al tribunale del riesame" (richiamando peraltro l'orientamento espresso dalle Sez. U. nella sentenza n. 48126 del 20/07/2017, ove si afferma che, in tema di misure cautelari reali, il terzo rimasto estraneo al processo, formalmente proprietario del bene già in sequestro, di cui sia stata disposta con sentenza la confisca, può chiedere al giudice della cognizione, prima che pronuncia sia divenuta irrevocabile, la restituzione del bene e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame, osservando anche come non sia stata impugnata la sentenza nemmeno nella parte in cui il capo 3 viene ritenuto fatto diverso, con trasmissione degli atti al P.M. perché proceda per altro reato; tale punto della sentenza non e', pertanto, oggetto del presente giudizio, che vede la L. come terzo estraneo alla cognizione del giudice di secondo grado, alle pagg. 6-7 sentenza C.App. Venezia); (b) altra osservazione riguarda il fatto che "sugli stessi beni immobili, su cui vi è stata nei confronti di B. la confisca sino alla concorrenza dell'imposta evasa, rimane il provvedimento di sequestro preventivo, a suo tempo disposto dal Gip Tribunale di Venezia anche nei confronti della L., misura cautelare che continua a sussistere e su cui la Corte di appello non ha alcun potere di revoca" (pag. 7 sentenza C.App. Venezia).


8.8.2. Tutto ciò premesso in ordine alle argomentazioni che conducevano a ritenere inammissibile il motivo di gravame, si sottolineava che le ragioni esposte dalla L. - il fatto che ella avrebbe acquistato i beni immobili con suoi redditi-avevano trovato puntuale smentita nel corso del processo di primo grado. In particolare, la deposizione del custode degli immobili, Dott. G.D., ricostruiva nel dettaglio i pagamenti del prezzo degli immobili, intestati solo fittiziamente alla L.: una parte proveniva direttamente dal conto corrente della Only One srl, di cui B. era amministratore, un'altra parte proveniva da assegni tratti da conti correnti della L. riferibili alla società Ristorazione & Catering, che di fatto era gestita sempre da B..


Ciò che riveste importanza, ed assume rilievo dirimente, è la circostanza che i mutui accesi dalla L. sono successivi agli acquisti e finalizzati alla ristrutturazione degli stessi. In particolare, per la posizione di L., la Corte d'appello ha rilevato come non vi era stata alcuna affermazione di penale responsabilità nel primo giudizio, ma solo la trasmissione degli atti al pubblico ministero per procedere per un diverso reato, quello di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, previa riqualificazione del fatto originariamente contestato in tale diversa fattispecie. La confisca dei beni, provvedimento di cui la ricorrente si duole anche con il ricorso per Cassazione, non è stata disposta per il reato per il quale era stata originariamente imputata nel giudizio di primo grado, bensì per il diverso reato tributario di cui era imputato il solo B., (cioè il marito). Rispetto alla confisca, secondo i giudici di appello, avrebbe perciò assunto la posizione di soggetto terzo.


In disparte i profili di inammissibilità dell'appello su cui è inutile insistere in questa sede per aver la Corte d'appello comunque esaminato nel merito il motivo, la Corte d'appello, nel valutare le doglianze della ricorrente congiuntamente a quelle del B., come già anticipato, ha evidenziato come, sulla base del materiale probatorio raccolto, la stessa fosse solo una mera prestanome del marito, evidenziando la portata probatoria della deposizione del custode degli immobili il quale ha ricostruito nel dettaglio i pagamenti del prezzo degli stessi che sono risultati intestati solo fittiziamente alla ricorrente.


8.8.3. Quanto alla disposta confisca nei confronti del B., valga quanto esposto alle pagg. 12/14 della sentenza impugnata.


Si osservava, anzitutto, che la confisca era stata espressamente disposta solo per il reato tributario, l'unico per cui vi è stata condanna, e che il mancato riconoscimento della fattispecie di cui all'art. 11 non escludeva la possibilità di confisca dei beni immobili già oggetto di sequestro. La confisca tributaria per equivalente, nella prospettiva del primo giudice, è stata introdotta nell'ordinamento penale della L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, il quale prevede che, nei casi di reati tributari, tra cui è compreso l'art. 5, si osservano in quanto applicabili le disposizioni di cui all'art. 322-ter c.p., norma che, dopo aver regolato la confisca diretta, prevede la confisca per equivalente dei beni di cui l'imputato abbia la disponibilità per una valore corrispondente al prezzo o profitto del reato, ossia all'imposta evasa (cfr. Cass., Sez. 6, n. 10598 del 30/01/2018 - citata dal P.G. nelle sue conclusioni- che ricorda come l'art. 1 citato fa integrale rinvio all'art. 322- ter c.p., nelle previsioni dei commi 1 e 2; il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all'imposta evasa può essere disposto con riferimento agli illeciti commessi a partire dall'entrata in vigore della L. n. 244 del 2007, ossi dal (Omissis)).


Non è riscontrabile, pertanto, alcun profilo di abnormità nel provvedimento ablatorio assunto. La confisca era stata disposta sugli immobili in sequestro, ritenuti fittiziamente intestati alla L., ma acquistati da B., con proventi della Only One Srl, della Ristorazioni & Catering e dal suo conto personale presso Poste Italiane. Alle pagine 17 e seguenti della sentenza sono puntualmente indicate le modalità di pagamento dei vari immobili, sulla base della ricostruzione effettuata dal Dott. G., nominato custode. Si trattava per lo più di pagamenti con assegni tratti da conti correnti della Only One Srl, della Ristorazioni & Catering, del conto personale di B.. Corretta è l'affermazione del Tribunale, secondo cui ricorreva in capo a B., la "disponibilità" dei beni immobili confiscati, presupposto del provvedimento. E' principio consolidato e noto, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che la "disponibilità" del bene non coincide con la nozione civilistica di proprietà, ma con quella di possesso, ricomprendendo tutte quelle situazione nelle quali il bene stesso ricade nella sfera degli interessi economici del reato, ancorché il potere dispositivo su essi venga esercitato tramite terzi, e si estrinseca in una relazione connotata dall'esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (così, per tutte, Cass., Sez. 3, n. 4887 del 13/12/2018).


Nel caso di specie è stato ampiamente provato che gli immobili, al di là della titolarità formale in capo alla moglie dell'imputato, erano direttamente riconducibili a B., poiché acquistati con i ricavi provenienti dalla Only One Srl, amministrata dall'imputato, ovvero dalla Ristorazione & Catering, di cui B. era amministratore di fatto, o direttamente dal conto personale dell'imputato. Che quest'ultimo si difenda affermando che si trattasse di donazioni della comunità ebraica, destinate all'acquisto dl proprietà immobiliari da adibire a scopi di riti ebraici, è di scarso rilievo, nel senso che non riveste alcuna importanza dimostrare quale sia l'origine del denaro impiegato per l'acquisto e quali che siano i fini di impiego: ciò che rileva, invero, è che si tratta di somme che provengono proprio dall'imputato, che per tale ragione risulta "collegato" a dette proprietà immobiliari, seppur intestate ad un suo congiunto.


8.8.4. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze del ricorrente si appalesano dunque prive di pregio, in quanto si risolvono nel "dissenso" sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dal giudice di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e per vizi motivazionali con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.


Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 3416 del 26/10/2022 - dep. 26/01/2023, Lembo, n. m.; Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 - dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745; Sez. 5, n. 11910 del 22/01/2010, Casucci, Rv. 246552).


9. Ciascun ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile, con condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella loro proposizione.


P.Q.M.


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.


Così deciso in Roma, il 23 marzo 2023.


Depositato in Cancelleria il 5 giugno 2023

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