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Quando la dichiarazione infedele dei redditi diventa reato: come prevenire il rischio penale

Dichiarazione infedele dei redditi

Indice:


Premessa

La dichiarazione infedele rappresenta una delle forme di elusione dell’obbligo contributivo più frequentemente sottostimate dal contribuente economico, specie ove rivesta la veste dell’imprenditore.

Persiste, infatti, l’opinione secondo cui l’alterazione dei dati dichiarativi sia riconducibile ad un illecito di natura meramente amministrativa, suscettibile di definizione attraverso l’irrogazione di sanzioni pecuniarie o strumenti deflattivi.

Tale lettura risulta tuttavia incompatibile con l’attuale impianto normativo: l’art. 4 del d.lgs. 74/2000 qualifica penalmente la condotta di chi, al fine di evadere le imposte, indichi elementi attivi inferiori o passivi fittizi in dichiarazione, purché siano superate le soglie di rilevanza penale.

In presenza di tali condizioni, l’obbligo per l’Amministrazione finanziaria è quello della trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica.

Da quel momento, l’imprenditore è sottoposto alle dinamiche proprie del procedimento penale: indagine, eventuale rinvio a giudizio, dibattimento e possibile condanna.

Nel nostro Studio ci occupiamo da anni di difesa penale tributaria, assistendo imprenditori, amministratori e professionisti coinvolti in procedimenti per dichiarazione infedele.

L’esperienza maturata ci ha insegnato che, spesso, il confine tra l’evasione dolosa e l’errore contabile è più sottile di quanto si immagini.

Per questo motivo abbiamo scelto di realizzare questa breve guida: per spiegare, con rigore e chiarezza, cosa dice davvero la norma, quali condotte sono penalmente rilevanti e quali, invece, restano nella sfera dell’illecito amministrativo.

E, soprattutto, per aiutare l’imprenditore ad agire per tempo, evitando di trovarsi – senza saperlo – in un’aula di tribunale.


1. La fattispecie incriminatrice: struttura e presupposti applicativi

La norma incriminatrice di cui all’art. 4 del d.lgs. 74/2000 punisce la condotta di chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indichi nella dichiarazione annuale elementi attivi inferiori a quelli effettivi o elementi passivi fittizi.

Trattasi, come agevolmente si evince dalla formulazione normativa, di un reato a dolo specifico, che richiede non solo la falsità materiale del dato dichiarato, ma anche l’intenzione dell’imprenditore di non pagare le imposte dovute, attraverso una decisione consapevole e mirata a ridurre indebitamente il proprio debito fiscale.

La condotta, per assumere rilievo penale, deve inoltre oltrepassare le soglie quantitative previste dal comma 1-bis: imposta evasa superiore a 100.000 euro ed elementi attivi sottratti all’imposizione per un ammontare superiore a 2.000.000 euro.

L’intento del legislatore è chiaramente orientato alla selezione delle sole ipotesi di infedeltà dichiarativa connotate da una significativa capacità offensiva.

La tipizzazione della fattispecie, letta in chiave sistematica, risponde all’esigenza di tutelare il principio costituzionale di capacità contributiva (art. 53 Cost.), colpendo quelle condotte che, pur nella loro apparente conformità formale, alterano in modo sostanziale la base imponibile.

Alla luce di ciò, appare necessario proporre una serie di interrogativi, che riflettono le più frequenti perplessità dell’imprenditore dinanzi al rischio di incorrere in responsabilità penale per dichiarazione infedele.


2. "Se ometto di dichiarare dei ricavi, rischio una semplice sanzione o anche una condanna penale?"

Dipende.

L’omessa indicazione di ricavi nella dichiarazione dei redditi può costituire semplice illecito amministrativo oppure, nei casi più gravi, dar luogo a responsabilità penale.

Il discrimine si articola su due livelli: oggettivo e soggettivo.

Sul piano oggettivo, rileva il superamento delle soglie quantitative fissate dal legislatore – imposta evasa superiore a 100.000 euro ed elementi attivi non dichiarati per oltre 2 milioni di euro.

Sul piano soggettivo, è necessario che il contribuente abbia agito con dolo specifico, cioè con la precisa volontà di evadere le imposte.

Ciò significa che non è sufficiente un errore contabile, magari dovuto a negligenza o a incertezza interpretativa, ma è necessario che l’imprenditore abbia consapevolmente scelto di non dichiarare determinati ricavi per ottenere un indebito risparmio d’imposta.

Facciamo un esempio: se un imprenditore omette di inserire in dichiarazione l’incasso di 2,5 milioni di euro per vendite in nero e ciò comporta un’imposta evasa di 130.000 euro, siamo in presenza di una dichiarazione infedele penalmente rilevante.

Se invece l’importo omesso è di 700.000 euro, con un’imposta non versata pari a 80.000 euro, non si ricade nella sfera penale ma in quella amministrativa, con sanzioni pecuniarie.

Analoga rilevanza assume la pratica della sottofatturazione, intesa come l’indicazione in fattura di un corrispettivo inferiore rispetto a quello effettivamente percepito.

Tale condotta incide sulla determinazione della base imponibile e, in presenza dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dall’art. 4 d.lgs. 74/2000, può integrare il reato di dichiarazione infedele.

In questa prospettiva, il diritto penale tributario conserva la funzione di extrema ratio: colpisce solo quelle condotte che, per la loro gravità e per l’intenzionalità del soggetto agente, minano seriamente il principio di capacità contributiva e la correttezza del sistema impositivo.


3. "Se inserisco in dichiarazione costi non inerenti o inesistenti, posso essere perseguito penalmente?"

Facciamo chiarezza.

Preliminarmente, per comprendere correttamente la portata penale della deduzione di costi, è innanzitutto necessario chiarire cosa si intende per "costo" in ambito fiscale.

Il costo rappresenta un componente negativo del reddito d'impresa: in altri termini, è una spesa sostenuta dal contribuente per l'esercizio dell'attività economica.

Tuttavia, non ogni spesa è automaticamente deducibile ai fini fiscali.

Affinché un costo sia deducibile, devono sussistere requisiti specifici: deve essere effettivamente sostenuto (esistenza), riferibile all’attività dell’impresa (inerenza), documentato, contabilizzato correttamente e imputato al corretto periodo d’imposta (competenza).

Alcuni esempi di costi deducibili sono: l’acquisto di materie prime, i compensi ai dipendenti, gli affitti di locali strumentali, le spese per consulenze documentate e connesse all’attività aziendale.

Al contrario, costituiscono esempi di costi non inerenti – e quindi non deducibili ai fini fiscali – le spese personali del titolare imputate alla società, l’acquisto di beni non utilizzati per l’attività imprenditoriale (ad esempio un’automobile di lusso intestata all’azienda ma usata esclusivamente per fini privati), o i rimborsi chilometrici non giustificati da trasferte effettive.

Questi costi, seppur reali, non presentano un nesso funzionale con l’attività d’impresa.

A seguito della riforma del 2015 (d.lgs. n. 158), l’art. 4, comma 1-bis, ha ristretto l’area penalmente rilevante del reato di dichiarazione infedele: non rilevano più, ai fini penali, i costi reali che risultino semplicemente non deducibili, non inerenti o imputati in violazione del principio di competenza, purché siano effettivamente esistenti in rerum natura.

Pertanto, la condotta diventa penalmente rilevante solo quando si indicano costi inesistenti, cioè spese mai sostenute o riferite a operazioni mai avvenute.

La Corte di Cassazione (sez. III, 22 marzo 2017, n. 30686) ha chiarito che l’infedele dichiarazione è punibile solo in presenza di componenti negativi oggettivamente inesistenti, superando così l’ambigua nozione di "fittizietà" usata in passato.

In forza di quanto sopra, la deduzione in dichiarazione di una consulenza effettivamente resa, ma priva del requisito dell’inerenza, o ritornando all'esempio di prima, l'acquisto di un’automobile di lusso intestata all’azienda ma utilizzata per fini propri, non integrano gli estremi del reato di dichiarazione infedele.

Diversamente, qualora l’imprenditore indichi tra i costi una prestazione mai richiesta né ricevuta, priva di qualsiasi documentazione contabile o elemento probatorio opponibile all’Amministrazione finanziaria, ci si trova dinanzi a un costo inesistente, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. 74/2000.

È tuttavia necessario distinguere questa ipotesi da quella – più grave – disciplinata dall’art. 2 del medesimo decreto ("Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti"): se il costo inesistente è accompagnato da una fattura, anche solo formalmente regolare, emessa al fine di creare artificiosamente un titolo giustificativo dell’operazione, allora si configura il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti.

La differenza è sostanziale e risiede proprio nell’assenza o presenza di un documento fiscalmente rilevante utilizzato per supportare la falsità dichiarativa.


4. "Posso giustificarmi sostenendo che ha fatto tutto il commercialista?"

No, l’imprenditore non può automaticamente invocare l’errore del commercialista per sottrarsi alla responsabilità penale.

In ambito tributario, infatti, il dovere di vigilanza sul contenuto della dichiarazione è personale e non delegabile.

La firma della dichiarazione rappresenta un’assunzione diretta di responsabilità.

La Cassazione penale ha più volte affermato che "è responsabile il contribuente dell'operato del commercialista al quale si sia affidato, potendosi configurare una culpa in eligendo o in vigilando, che può essere esclusa solo in presenza di caso fortuito o forza maggiore" (Cass., sez. III, 09/04/1991; Cass., sez. III, 25/02/1991).

Ancora più chiaramente, si è precisato che: "colui che abbia affidato al consulente fiscale l'incarico di compilare la dichiarazione dei redditi non è esonerato da responsabilità, in caso di infedele denunzia, sia perché di questa il contribuente si avvale, sia perché la legge tributaria considera come personale il relativo dovere" (Cass., sez. III, 09/01/1991).

Ne consegue che, anche qualora l’infedeltà dichiarativa sia riconducibile a errori del professionista incaricato, il contribuente resta penalmente responsabile, salvo che dimostri l’assenza di dolo e la propria diligenza nella scelta e nel controllo del consulente.

Solo nei casi in cui l’imprenditore dimostri di essersi affidato in buona fede a un professionista di comprovata esperienza e di aver esercitato un minimo di controllo, potrà escludersi l’elemento soggettivo del reato.

Pertanto, l’imprenditore deve prestare la massima attenzione ai contenuti della dichiarazione, verificando le scelte operate dal consulente e non limitandosi a una ratifica formale del documento fiscale.


5. "Il reato di dichiarazione infedele si configura anche per somme ottenute illecitamente?"

Sì. La giurisprudenza è costante nel ritenere che anche i redditi di derivazione illecita — come quelli ottenuti mediante appropriazione indebita, truffa o altri reati — rientrano tra i redditi imponibili ai fini IRPEF, e devono quindi essere indicati nella dichiarazione dei redditi.

Secondo la Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. III, 14 febbraio 2020, n. 18575), l'omessa dichiarazione di tali somme integra il reato di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. 74/2000, anche se si tratta di proventi da reato, a meno che non siano stati sottoposti a sequestro o confisca nello stesso periodo d’imposta.

Solo in tal caso, infatti, il principio costituzionale di capacità contributiva (art. 53 Cost.) risulta affievolito, giustificando l’esclusione dell’imponibilità.

Se, al contrario, il sequestro o la confisca intervengono in un momento successivo — ad esempio, contestualmente alla sentenza di condanna — questi provvedimenti non incidono sulla dichiarazione da presentare per l’anno in cui il reddito è stato percepito.

In sintesi: non conta la provenienza del reddito, ma il fatto che sia stato effettivamente percepito dal contribuente e non ancora ablato dallo Stato al momento della dichiarazione.

Questo principio evita che l’autore di un reato possa beneficiare del mancato assoggettamento a imposta semplicemente in ragione della natura illecita del guadagno, e si fonda sull’equità fiscale: chiunque percepisca un reddito — lecito o illecito — contribuisce, finché ne dispone concretamente, alla spesa pubblica.


6. "Nel caso di una società di persone, come si calcola l'imposta evasa ai fini del reato di dichiarazione infedele?"

In base all’art. 4 del d.lgs. 74/2000, anche le società di persone (ad esempio, una società in accomandita semplice) possono rispondere penalmente per dichiarazione infedele, ma con una precisazione fondamentale: in questi casi, il reddito prodotto dall’attività sociale viene imputato direttamente ai singoli soci, ciascuno in proporzione alla propria quota di partecipazione.

Questo implica che, per verificare la sussistenza del reato e soprattutto per determinare il superamento delle soglie di punibilità penale (100.000 euro di imposta evasa o 2 milioni di elementi attivi sottratti), occorre guardare non al reddito complessivo della società, ma a quello imputabile a ciascun socio.

A chiarirlo è la Cassazione penale, sez. III, con la sentenza 14 settembre 2020, n. 31195, la quale afferma che, ai fini della configurabilità del reato, in caso di società di persone, l’imposta sui redditi evasa deve essere calcolata in funzione del reddito dei singoli soci, non della società nel suo complesso.

Pertanto, se un socio detiene, ad esempio, il 70% delle quote e l’altro il 30%, l’eventuale imposta evasa sarà imputata pro quota.

E se la soglia penale viene superata anche solo da uno dei soci, il reato sussiste con riferimento alla sua posizione personale.


7. "Come posso evitare il processo penale?"

Il nostro ordinamento prevede due principali strumenti che, al verificarsi di determinate condizioni, consentono di evitare la punibilità per il reato di dichiarazione infedele: la regolarizzazione mediante ravvedimento operoso (art. 13 d.lgs. 74/2000) e l’applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.).

Il primo, di natura premiale, esclude la punibilità qualora il contribuente prima dell’inizio di qualsiasi attività di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria o della Guardia di Finanza, provveda a versare integralmente imposte, sanzioni e interessi dovuti, beneficiando della causa di non punibilità prevista dall’art. 13 citato.

Tale previsione si applica al reato di dichiarazione infedele solo a condizione che il ravvedimento sia stato effettuato prima della formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di procedimenti penali.

In pratica: se l'imprenditore si è "ravveduto" quando ancora nessuno stava controllando, e ha pagato tutto, non è punibile penalmente per i reati dichiarativi. Ma se il controllo è già iniziato, anche se paga tutto, non evita il procedimento penale.

Diversamente, per i meno gravi reati di omesso versamento (artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1), il legislatore ha introdotto una disciplina differente: il pagamento del debito può evitare la punibilità fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.

Pertanto, nel caso di dichiarazione infedele, il semplice pagamento non è sufficiente a garantire l’esclusione della punibilità ed il contribuente può valutare strumenti alternativi, quali il ricorso alla particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) o l’accesso al rito speciale del patteggiamento.

Il secondo istituto, applicabile solo in fase giudiziale, consente l’archiviazione o la declaratoria di non punibilità quando il fatto, pur astrattamente rilevante sotto il profilo penale, risulta di particolare tenuità per modalità della condotta, entità del danno o del pericolo, e comportamento successivo dell’imputato. In tale valutazione, secondo l’orientamento della Cassazione, assume rilievo anche l’integrale pagamento del debito tributario, che può costituire un indicatore decisivo della scarsa offensività del fatto e dell’intensità attenuata del dolo (vedi Cass. Pen. n. 4145/2024).

Ai sensi del nuovo art. 13, comma 3-ter, d.lgs. 74/2000, introdotto dal d.lgs. 87/2024, il giudice deve considerare in via prevalente l’entità dello scostamento dall’imposta evasa rispetto alla soglia di punibilità, l’adempimento del piano di rateizzazione, l’eventuale debito residuo e lo stato di crisi dell’imputato.

Tuttavia, non è applicabile nei casi di reiterazione di reati della stessa indole o in presenza di abitualità criminosa.

In sintesi, la prevenzione è essenziale: agire per tempo con un ravvedimento pieno consente non solo di chiudere la posizione con il Fisco, ma anche di evitare il rischio di un procedimento penale.

Nei casi in cui ciò non sia possibile, resta aperta la strada della particolare tenuità, ma solo in presenza di circostanze oggettive e soggettive favorevoli.


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