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Diffamazione sui social media: Quando un post viola la legge


Diffamazione sui social media: Quando un post viola la legge

Indice:



1. Premessa

La giurisprudenza di Legittimità, in tema di configurabilità del delitto di diffamazione, aggravata dall’utilizzo del social, ha affermato che risulta integrata la fattispecie criminosa prevista dall'art. 595 cp allorquando:

  1. il destinatario delle manifestazioni ingiuriose sia agevolmente individuabile;

  2. la comunicazione avvenga con più persone, atteso il carattere “pubblico” dello spazio virtuale, in cui si diffonde la manifestazione del pensiero del partecipante che entra in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti e quindi la conoscenza da parte di più persone e la possibile sua incontrollata diffusione;

  3. le espressioni utilizzate siano oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo;

  4. non ricorra l'esimente del diritto di critica o di cronaca.

2. Il requisito della individuabilità

Con riferimento al requisito della individuabilità della persona offesa, come è noto, recentemente la Suprema Corte ha sostenuto che, ai fini della integrazione del reato di diffamazione a mezzo social, non è necessaria l'indicazione nominativa dell'offeso.

Ed invero, secondo il recente indirizzo interpretativo della Suprema Corte, il reato de quo risulta integrato anche quando dal contenuto virtuale (post, commento, tweet) emergano riferimenti riconducibili ad un determinato soggetto, riconoscibili da un ristretto numero di soggetti, anche a prescindere dall'indicazione nominativa. (cfr. Cass.Pen., sez. I, sentenza 16/04/2014 n° 16712)


3. Il requisito della diffusività

Per ciò che concerne, invece, il requisito della pubblicità e della diffusività della comunicazione denigratoria, la Suprema Corte, sempre in una recentissima sentenza, adeguandosi oltretutto ad un consolidato orientamento della giurisprudenza di merito, ha sostenuto che la pubblicazione di un contenuto diffamatorio sul social “Facebook” integra la fattispecie aggravata prevista dal terzo comma dell'art. 595 c.p., essendo il contenuto potenzialmente capace “di raggiungere un numero indeterminato di persone e, pertanto, di amplificare l'offesa in ambiti sociali allargati e concentrici.» (cfr., sul punto, Cass. Pen. 24431/15).

In questa direzione, la Suprema Corte, nella citata sentenza, ha spiegato che la fattispecie criminosa de qua risulta integrata nel momento in cui venga pubblicato sul social network il contenuto diffamatorio, a prescindere dal fatto che lo stesso venga, poi, effettivamente visualizzato.

Pertanto, in tema di diffamazione a mezzo social, la condizione che "almeno due persone - escluso l'offesa - vengano a conoscenza del contenuto virtuale diffamatorio pubblicato dal contatto-profilo" risulta ormai irrilevante ai fini della configurabilità del reato in argomento.

In altri termini, ad avviso della.Suprema Corte la mera pubblicazione di un post sul social network è in sé condizione sufficiente a configurare l'ipotesi aggravata di cui all'art. 595 comma 3, e ciò in considerazione del fatto che la dichiarazione virtuale, a seguito della diffusione, risulta immediatamente nella disponibilità di un numero indeterminabile di utenti.

Ciò detto, però, va osservato che l'indagine sulla “diffusività” del post denigratorio (da valutarsi guardando al numero dei likes, delle condivisioni e dei commenti ricevuti) risulta, in ogni caso, fondamentale è ciò in quanto consentirà di effettuare, ad esempio, il giudizio di particolare tenuità ex art.131 bis c.p.

Circostanza questa non del tutto irrilevante, atteso che il reato in argomento rappresenterà, probabilmente, uno dei "campi di prova“ della nuova causa di non punibilità introdotta dalla L.28/2015.


4. L'offesa all'onorabilità pubblica

Per ciò che concerne, invece, la idoneità della dichiarazione a ledere l'onorabilità e la rispettabilità dell'offeso, è opportuno rammentare che la fattispecie criminosa de qua (così come interpretata dal Giudice di Legittimità) non mira a punire le condotte che colpiscono il soggetto passivo del reato, provocando una lesione dell'intima considerazione che quest'ultimo ha di sé.

E ciò in quanto, ragionando in questi termini, si giungerebbe all'assurdo di ritenere penalmente rilevante anche una scortesia, un gesto di disapprovazione posto in essere nei confronti di un soggetto, in sua assenza.

Il reato di diffamazione, viceversa, viene a configurarsi solo allorquando la condotta lesiva determini un danno alla reputazione, ovvero, comporti una distorsione dell'immagine, della identità personale di un soggetto, “in conformità all'opinione” che si è maturata, nei suoi confronti, in un determinato gruppo sociale.

Per ciò che concerne, poi, le modalità della condotta illecita, attraverso le quali può verificarsi la lesione dell'interesse giuridico protetto dalla norma de qua, è opportuno evidenziare che la Giurisprudenza di Legittimità, in diverse e risalenti pronunce, ha sostenuto che ricorrono gli estremi della diffamazione anche quando l'addebito sia stato espresso in forma tale da suscitare il semplice dubbio sulla condotta disonorevole.

Secondo un ormai monolitico orientamento interpretativo, imfatti, la norma incriminatrice in argomento, non mirerebbe a sanzionare solo “le espressioni non vere e non obbiettive, ma anche quelle meramente insinuanti” (cfr., per rilevanza, Cass. Pen. Sez. V n.81/10512), e ciò in considerazione del fatto che l'intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti e mediante il ricorso a subdole allusioni.

5. L'insussistenza del diritto di critica

Venendo al tema della configurabilità della esimente dell'esercizio di critica, è opportuno sottolineare che, secondo il dominante orientamento giurisprudenziale, l’attività di critica, per essere considerata lecita e legittima, deve rispondere ai tre canoni della “pertinenza”, “verità” e “continenza”.

La critica, pertanto, rileverà quale esimente del delitto di diffamazione, solo allorquando risulterà fondata su fatti veri, espressa in termini misurati e rispettosi dell’altrui dignità morale e professionale, e di interesse per la collettività.

È bene precisare, però, che le categorie della “pertinenza”, “verità” e “continenza” non devono essere interpretate “rigidamente”, ma alla luce di una valutazione rigida e concreta, da svolgersi nel contesto dichiarativo nel quale si inseriscono.

Ad esempio, la circostanza che vengano riportati all'interno di una dichiarazione denigratoria“fatti veri”, non comporta necessariamente l'operatività dell'esimente prevista dall'art. 51c.p.

La Suprema Corte, infatti, in una recente sentenza, ha stabilito (ad esempio) che l’utilizzo del termine “pregiudicato” può integrare reato di diffamazione, anche se lo stesso è indirizzato ad un soggetto che sia già stato condannato con sentenza definitiva. (cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 475/ 2015)

In altri termini, la Suprema Corte, nella citata sentenza, ha ritenuto sussistente il reato di diffamazione, anche in presenza di affermazioni veritiere, pertinenti e continenti, allorquando, dal contesto emerga che il soggetto attivo del reato era animato da uno specifico intento di natura diffamatoria.

 

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