Responsabilità medica penale
La Suprema Corte, con la sentenza in argomento, ha affermato che in tema di lesioni personali volontarie seguite dal decesso della vittima, l'eventuale negligenza o imperizia dei medici, ancorché di elevata gravità, non elide, di per sé, il nesso causale tra la condotta lesiva e l'evento morte, in quanto l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell'esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale.
Cassazione penale sez. V, 19/10/2021, n.45241
Fatto
1. La Corte d'assise d'appello di L'Aquila ha confermato il giudizio di responsabilità formulato dalla Corte d'Assise di Chieti nei confronti di D.E. per il reato di omicidio preterintenzionale commesso in danno di Da.Si. e, rivalutato il fatto, ha ridotto la pena a lui irrogata.
2. Il fatto è pacificamente occorso all'esterno del bar "(OMISSIS)" di (OMISSIS) verso le ore 23,20 del (OMISSIS) allorché Da.Si., evidentemente ubriaco, dopo aver disturbato vari avventori del locale rivolse le sue attenzioni a D.E., prima insultandolo, poi colpendolo con un pugno al mento.
Questo fatto determinò la reazione di D., che colpì a sua volta l'aggressore al volto, provocandogli la frattura delle ossa facciali e determinando la rovinosa caduta di Da. all'indietro, per effetto della quale quest'ultimo subì la frattura della teca cranica. Da. sarebbe morto un anno dopo, in ospedale, senza aver mai ripreso conoscenza dopo lo scontro avuto con l'imputato. 3. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito - che si sono avvalsi, sul punto, della consulenza del Dott. D'., commissionata dal Pubblico Ministero - la morte di Da. sarebbe stata conseguenza di almeno due pugni al volto sferrati da D. con notevole intensità, tali da provocare fratture bilaterali del massiccio facciale, che hanno riguardato - a destra - il seno mascellare e il pavimento orbitario e - a sinistra - la parete laterale del seno mascellare e la piramide nasale.
La successiva caduta all'indietro ha poi determinato la frattura della squama occipitale destra, che si è estesa verticalmente alla teca cranica occipitale e trasversalmente al condilo occipitale fino al clivus. I giudici hanno escluso che D. abbia agito in stato di legittima difesa per l'assenza di una reale situazione di pericolo e per sproporzione nella reazione difensiva. Invero, argomenta la Corte di merito, "a fronte di un colpo di debole portata, sferrato da una persona che, a stento, si reggeva in piedi, tanto da perdere l'equilibrio proprio nell'atto di colpire il D., quest'ultimo ha reagito con inusitata violenza, colpendo il Da. al volto con almeno due pugni, sferrati con notevole intensità, tanto da provocare le lesioni cerebrali irreversibili che l'hanno, poi, condotto a morte" (pag. 33). 4. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato avvalendosi di due motivi che contengono, ognuno, molteplici doglianze, che verranno esaminate separatamente, secondo un filo logico che non corrisponde esattamente a quello del ricorrente. 4. Col primo motivo lamenta la violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 1, artt. 360 e 191 c.p.p. per il fatto che all'udienza dell'8/3/2017 fu rigettata, dalla Corte d'assise, richiesta di espletamento di perizia medica volta ad accertare le cause della morte di Da.Si. ed il nesso di causalità con i colpi inferti dall'imputato. Accertamento reso necessario dal fatto che la degenza ospedaliera aveva determinato l'insorgenza di gravi infezioni batteriche in Da., a cui era seguito uno shock settico da considerare - secondo il ricorrente - la vera causa della morte. Con lo stesso motivo censura l'acquisizione, da parte della Corte d'assise, della documentazione prodotto dal Pubblico Ministero alla medesima udienza, concernente gli accertamenti svolti dal consulente del Pubblico Ministero successivamente al decesso di Da., siccome effettuati senza il preventivo avviso alla parte e, quindi, in violazione dell'art. 360 c.p.p.; nonché, per lo stesso motivo, l'utilizzazione delle dichiarazioni rese, in sede dibattimentale, dal consulente suddetto. 5. Col secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 584,52,55 e 589 c.p. e un vizio di motivazione con riguardo al giudizio di responsabilità per essere state parzialmente e illogicamente valutate le testimonianze assunte nell'istruttoria dibattimentale, atteso che dai testi era venuta la conferma dell'atteggiamento aggressivo di Da. nei confronti degli avventori del locale e l'esclusione, in quest'ultimo, di uno stato di ubriachezza talmente piena da condizionarne l'andatura. Pure dai testi era venuta la smentita di pratiche sportive esercitate dall'imputato e di accanimento di questi contro la vittima, dopo che Da. era rovinato al suolo. Parimenti, era stato escluso dai testi che Da. avesse perso coscienza per effetto dei colpi ricevuti e che D. avesse sferrato più di un pugno all'avversario. Lamenta altresì che sia stata trascurata la consulenza della difesa, redatta dal Dott. M., dalla quale era venuta la dimostrazione che - contrariamente a quanto ravvisato dal consulente del Pubblico Ministero - almeno cinque erano le sedi del massiccio facciale interessate da "impatti", a dimostrazione del fatto che gli eventi lesivi sarebbero stati almeno cinque.
Ancora, lamenta che non sia stato adeguatamente valorizzato il tasso alcolemico riscontrato - dopo il fatto - nella persona offesa, da cui si sarebbe dovuto desumere che le lesioni riscontrate su Da. non erano da attribuire ai colpi ricevuti, ma alla sua ubriachezza, giacché tale stato fisico gli aveva impedito di proteggere la caduta dopo il pugno, protendendo le mani a difesa.
A tanto va aggiunto che D., persona equilibrata e tranquilla, aveva solo reagito, per difesa, ad un'aggressione improvvisa, che non gli aveva lasciato vie di fuga, portata da un soggetto in stato di alterazione per l'uso di alcol e per acclarati disturbi psichici, sicché avrebbero dovuto trovare applicazione gli artt. 52 e 55 c.p., oppure, quantomeno, l'art. 589 c.p.. Con lo stesso motivo censura le statuizioni civili, emesse a favore di soggetti che non avevano alcun rapporto effettivo con la vittima, la quale viveva da sola e utilizzava la mensa della Caritas per la propria sopravvivenza, nonché il trattamento sanzionatorio, caratterizzato dall'immotivato diniego delle attenuanti generiche. Il ricorso non merita accoglimento. 1. Il primo motivo è manifestamente infondato. La Corte d'appello, senza essere smentita, sul punto, dal ricorrente, deduce, in ordine al nesso causale, che Da. non riprese mai conoscenza, dopo il ricovero in ospedale, avvenuto nell'immediatezza del fatto, e che morì un anno dopo l'aggressione patita. Questo fatto depone, inequivocabilmente, per la dipendenza dell'evento dai colpi ricevuti nell'occasione per cui è processo, quali che possano essere state le complicazioni insorte in ospedale e persino se fossero ravvisabili errori medici nel trattamento a lui riservato. Invero, in tema di lesioni personali volontarie seguite dal decesso della vittima, l'eventuale negligenza o imperizia dei medici, ancorché di elevata gravità, non elide, di per sé, il nesso causale tra la condotta lesiva e l'evento morte, in quanto l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell'esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale (cass., n. 29075 del 23/5/2012, rv 253316-01). Più in generale, le cause sopravvenute idonee ad escludere il rapporto di causalità sono sia quelle che innescano un processo causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dalla condotta dell'agente, sia quelle che, pur inserite nel processo causale ricollegato a tale condotta, si connotino per l'assoluta anomalia ed eccezionalità, collocandosi al di fuori della normale, ragionevole probabilità (cass., n. 53541 del 26/10/2017, rv 271846). Nella specie, l'infezione batterica che sarebbe insorta in Da. non costituisce per nulla fatto eccezionale, essendo di comune esperienza che negli ospedali si concentra una popolazione dolente, portatrice delle più svariate patologie, per cui nessun appunto può muoversi ai giudici di merito, che hanno ritenuto l'evento morte causalmente collegato alla condotta dell'imputato ed hanno escluso la necessità di ulteriori approfondimenti, data la pregnanza degli elementi disponibili e l'irrilevanza di quelli dedotti dal ricorrente.
2. Parimenti inammissibile, per manifesta infondatezza, è la doglianza relativa all'utilizzo degli accertamenti effettuati dal consulente del Pubblico Ministero dopo il decesso di Da.. La Corte d'appello ha già spiegato che s'e' trattato di accertamenti svolti sulla base della documentazione medica disponibile, e perciò totalmente ripetibili, sicché l'insistenza del ricorrente sulla "irripetibilità" degli stessi collide con la realtà processuale ed è totalmente ingiustificata, dal momento che non è sorretta da alcuna valida argomentazione ed è tutta tautologica. Per lo stesso motivo è totalmente infondata anche la doglianza relativa all'utilizzo delle dichiarazioni dibattimentali del Dott. D'.. Oltretutto, la dipendenza della morte di Da. dalla condotta dell'imputato non aveva nemmeno bisogno della consulenza investita dall'impugnazione, appartenendo alla comune esperienza che lo sfacelo - procurato dall'imputato - del massiccio facciale della persona, seguito immediatamente e causalmente dalla rottura della teca cranica, evolve autonomamente verso il decesso della vittima, sicché rappresenta comunque, per quanto già detto, "causa" o concausa della morte sopravvenuta.
Priva di rilevanza è anche l'argomentazione - svolta per escludere il nesso causale - relativa all'ebbrezza della vittima, che avrebbe impedito a Da. di protendere le mani a sua difesa, durante la caduta, giacché trattasi di circostanza nota al reo e perché non si può addebitare alla vittima di non essere riuscita ad attenuare le conseguenze dell'illecito patito.
3. Infondate - ai limiti dell'ammissibilità - sono le doglianze in tema di legittima difesa. Dalla ricostruzione del giudicante - contestata dal ricorrente con riferimenti fattuali alla deposizione dei testi, e perciò con argomenti in larga parte inammissibili - si evince che i pugni sferrati alla vittima furono almeno due e che si trattò di pugni micidiali, tant'e' che determinarono le lesioni sopra evidenziate; inoltre, che Da. era completamente ubriaco, tant'e' che perse l'equilibrio mentre colpiva, a sua volta, l'imputato. Tale ricostruzione esclude all'evidenza sia la legittima difesa che l'eccesso di legittima difesa, perché dà conto dell'assenza di un pericolo reale per l'imputato, che avrebbe potuto sottrarsi all'aggressione semplicemente respingendo da sé l'aggressore. A nulla vale, pertanto, insistere sulla mancanza di vie di fuga, o sul numero dei pugni, o sullo stato fisico di Da., o sull'atteggiamento remissivo tenuto da D. dopo lo scontro, trattandosi di circostanze prese in considerazione dalla Corte di merito e congruamente valutate: a) sia con l'escludere - sulla base delle testimonianze esaminate - che l'imputato fosse stretto in angolo e non avesse scampo; b) sia col motivare - con l'ausilio della consulenza tecnica - sul numero e l'intensità dei pugni; c) sia con l'escludere - sulla base, anche questa volta, delle testimonianze esaminate - che Da. fosse in grado di attentare realmente alla incolumità fisica dell'imputato. In nessuna parte della sentenza si accredita, poi, la tesi che D. abbia praticato le arti marziali, o abbia infierito su Da. dopo la caduta di questi al suolo. Certamente controproducente per la difesa, poi, è il riferimento, contenuto in ricorso, alle sedi del massiccio facciale interessate da "impatti" - sedi che sarebbero state, per il ricorrente, almeno cinque -, dal momento che nessuna indicazione di diversa scaturigine delle lesioni è segnalata in ricorso, né si desume dalla sentenza impugnata, sicché l'eventuale fondatezza della deduzione difensiva non farebbe che aggravare la posizione di D., a cui andrebbero comunque ricondotti gli effetti degli "impatti" segnalati dalla difesa.
4. Manifestamente infondate sono le doglianze concernenti le statuizioni civili, per le ragioni specificate in sentenza e non considerate dal ricorrente. La giurisprudenza di questa Corte è orientata, infatti, in senso diametralmente opposto a quello dedotto in ricorso, avendo invece affermato - in fattispecie praticamente assimilabili a quella attuale - che il diritto al risarcimento dei danni morali in caso di morte prescinde dalla valutazione dei rapporti di convivenza, fondandosi sulla definitiva perdita di un legame di "affectio familiaris" da cui deriva l'incisione dell'interesse all'integrità morale, ricollegabile all'art. 2 Cost. ed al diritto all'intangibilità della sfera degli affetti, sicché non rileva la frequenza dei tempi nei quali si coltivi la relazione familiare affettiva, ma unicamente la perdita di tale relazione, intesa come "punto di contatto emotivo e sentimentale", senza che essa debba essere stata supportata da frequentazioni o da condivisione, anche sporadica, di momenti di vita (cass., n. 18048 del 1/2/2018, rv 27324601; sez. 4, n. 20231 del 3/4/2012, rv 252683-01).
5. Le attenuanti generiche sono state negate per la gravità della condotta e delle conseguenze che ne sono derivate, oltre che per l'atteggiamento complessivamente tenuto dall'imputato, improntato all'esclusione di ogni sua responsabilità e al ridimensionamento del grave gesto compiuto; né il ricorrente segnale l'esistenza di elementi non considerati dal giudicante, idonei a consigliare la mitigazione del trattamento sanzionatorio. Sono rispettate, quindi, la ratio normativa e la costante giurisprudenza di questa Corte, che esigono, per l'attenuazione della pena per mezzo della concessione di attenuanti innominate, l'indicazione di elementi non tipizzati, ma favorevolmente considerati dall'ordinamento.
6. In conclusione, la sentenza impugnata ha fatto buon governo delle regole della logica ed ha espresso un giudizio che tiene conto degli elementi di prova rilevanti per la ricostruzione e la lettura del fatto, nonché per l'individuazione delle responsabilità. Inoltre, si è attenuta a criteri di equità e di obbiettività nella commisurazione della pena. I vizi di motivazione lamentati non sussistono, per cui il ricorso va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Il ricorrente va anche condannato alla rifusione delle spese legali in favore delle costituite parti civili, che si liquidano in dispositivo.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna inoltre l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2021. Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2021