“Il corpo come dato”: revenge porn, privacy, immagini intime e dignità negata (Cass. Pen. n. 38922/25)
- Avvocato Del Giudice

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“Il corpo come dato”: privacy, immagini intime e dignità negata
Nel labirinto digitale in cui viviamo, il corpo — ormai — non è più solo carne: è dato personale. E come tale, merita tutela.
La sentenza 38922/2025 della Terza Sezione penale della Suprema Corte non si limita a punire una condotta ignobile: definisce con precisione i confini etici e giuridici della nostra intimità, tracciando un confine netto tra condivisione libera e appropriazione forzata, tra fiducia privata e violenza pubblica.
Nel caso di specie, l’imputato aveva sottratto un telefono a una donna, copiato immagini e video a contenuto sessuale, e poi li aveva diffusi su un gruppo social, con l’intento — secondo la Corte — di “umiliarla”.
L’impostazione difensiva tentava di minimizzare: «lei aveva già inviato alcune immagini a terzi…». Ma la Cassazione ricorda una verità semplice: il consenso si presta di volta in volta, non si concede una volta per tutte.
I diritti negati: privacy, dignità, controllo
Dietro ogni immagine privata che gira in rete c’è una persona che ha scelto a chi mostrarla — e in quali condizioni.
Quando quell’immagine viene sottratta, copiata, diffusa senza autorizzazione, non si consuma solo un illecito informatico: si offende l’identità, la volontà, la dignità di chi è ritratto.
La Corte richiama l’art. 167 d.lgs. 196/2003 (protezione dei dati personali) e l’art. 612-ter c.p. (diffusione illecita di immagini sessuali) come strumenti complementari:
la mera sottrazione e copia è già violazione della privacy;
la successiva pubblicazione o condivisione non autorizzata è violenza digitale, una forma di aggressione dell’intimità.
Non c’è una soglia minima di “danno evidente”: basta l’“uso illecito” del dato, l’“esposizione non consenziente” per configurare il reato.
L’illusione del consenso “plurimo”
Spesso la difesa si affida a un equivoco:«Se la vittima ha già condiviso immagini simili con amici o partner, ha implicitamente accettato che possano circolare».
La Cassazione distrugge questo mito. Il consenso — chiarisce — non è un lasciapassare universale: ha validità solo per il destinatario scelto, per il tempo e la forma stabilita. Ogni nuovo invio, ogni nuovo contesto sociale o mediatico richiede una nuova autorizzazione.
In mancanza di questa, l’autorizzazione non c’è: e la responsabilità non può essere elusa.
La “colpa dell’ombra”: possesso, copia, memoria
Il reato non si consuma solo con la diffusione.
La sottrazione, la copia, il possesso non autorizzato — la mera detenzione del materiale — sono già di per sé ingiustizia.
La Corte lo dice con chiarezza: chi acquisisce contenuti intimi senza autorizzazione, li immagazzina, li trattiene, esercita un dominio occulto su corpo e dati altrui. Quell’appropriazione, come la sottrazione fisica, è un atto di violenza.
Una sentenza dalla doppia valenza: penale e culturale
Questa decisione non è solo un affare di articoli di codice. È un messaggio culturale.
Per le vittime, significa che la legge non abbassa lo sguardo;
Per i penalisti, è un riferimento chiaro a un principio fondamentale: la privacy sessuale non è un optional, è elemento di tutela della dignità personale;
Per la società, è un monito: la rete non è un far west. Le immagini, una volta rubate e diffuse, non restano virtuali: producono ferite reali.
Conclusione: il dato penso, dunque esisto
“Il corpo come dato”: non è uno slogan. È la presa d’atto che, nell’era digitale, la nostra intimità ha un valore — materiale, sociale, giuridico.
La Cassazione 38922/2025 lo ricorda con decisione e rigore: la violenza oggi può essere un click — e l’ingiustizia un file che si duplica in silenzio.
Chi difende i diritti penali deve comprendere che la tutela non si esercita solo davanti a un’aggressione fisica: anche la penna, il codice, la sentenza diventano scudo.
La memoria della legge — è un dato che non può sparire.
La sentenza integrale
Cass. pen., sez. V, ud. 1 ottobre 2025 (dep. 2 dicembre 2025), n. 38922
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 21 novembre 2014, la Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, confermava la sentenza del Tribunale di Nuoro che aveva ritenuto L.A. colpevole dei delitti di cui agli articoli:
- 167, comma 2, d.lgs. n. 196/2003, per avere, nell'agosto 2018, sottratto a M. B. foto e video, ritraenti la stessa in vari atteggiamenti, anche sessualmente espliciti, inviandoli dal telefono cellulare della medesima, lasciato momentaneamente incustodito nella sua autovettura, al proprio, così recandole nocumento;
- 612 ter cod. pen., per avere diffuso alcune delle immagini e dei video sottratti, nel corso dell'anno successivo, pubblicandoli sul gruppo (OMISSIS), sempre senza il consenso della persona offesa ed al fine di arrecarle un danno; gli era stata irrogata la pena complessiva di anni uno e mesi otto di reclusione ed euro 10.000 di multa, con i doppi benefici di legge ed era stato condannato a risarcire il danno cagionato alla parte civile, liquidato in euro 20.000 a titolo di sola provvisionale.
1.1. La Corte di merito, in risposta ai dedotti motivi di appello, osservava quanto segue.
L'(OMISSIS), la persona offesa aveva denunciato il fatto che il proprio cugino, L. C., l'aveva avvertita di avere notato circolare sulla messaggistica (OMISSIS), qualche giorno prima, delle sue immagini sessualmente esplicite, che le aveva inviato per mostrargliele.
Si trattava di due foto e di due video con la ritraevano in atteggiamenti sessualmente espliciti.
Non aveva sospetti su chi potesse essere stato a diffonderle.
Risentita aveva chiarito di avere trasmesso alcune dei files diffusi ad alcune persone, ma mai aveva inviato a chicchessia quelli indicati con le lettere C e D.
Ricontrollando il proprio cellulare dell'epoca, si era ricordata di averlo, nell'agosto precedente, dimenticato, dopo una serata, nell'autovettura dell'imputato. Così che questi l'aveva avuto a disposizione per l'intera notte (il cellulare non era protetto da alcuna password).
I tabulati telefonici della persona offesa e dell'imputato avevano confermato i movimenti da questa riferiti.
Nei mesi successivi, aveva potuto verificare la diffusione delle immagini anche sulla messagistica messenger del social (OMISSIS). Tale circostanza le era stata segnalata da un utente del social, L. R., che le aveva riferito che l'autore delle diffusione - certo “A.” - gli aveva confessato di avere rubato le immagini dal cellulare di un'amica.
Sospettando che fosse stato proprio l'odierno imputato, avendo avuto a disposizione il cellulare della querelante, ad impossessarsi delle immagini e, poi a diffonderle, si procedeva a perquisirne il domicilio, rinvenendo così, in uno dei suoi cellulari, i file (di immagini e video) oggetto di indagine, oltre che altri quarantasei, già presenti in quel telefono cellulare della persona offesa.
Da altri messaggi rinvenuti nel telefono dell'imputato, si deduceva come questi nutrisse del rancore nei confronti della medesima ed intendesse “umiliarla”.
La Corte di merito, alla luce di quanto accertato, riteneva, così confermando la condanna del Tribunale, che fosse stato proprio il prevenuto a diffondere le immagini ed i video, dopo averli passati dal cellulare della persona offesa al proprio. Del resto, l'imputato non aveva mai offerto alcuna lettura alternativa di quanto rinvenuto nei suoi cellulari.
Quanto al delitto di cui all'art. 167 d.lgs. n. 203/1996 era evidente, secondo la Corte, il nocumento arrecato alla vittima dall'imputato con la trasmissione delle immagini dal suo cellulare a quello del medesimo che se ne era così appropriato, violando il suo diritto alla loro riservatezza.
Quanto al delitto di cui al capo B), contestato ai sensi dell'art. 612 ter cod. pen., era altrettanto evidente la configurabilità del medesimo con la diffusione delle stesse sul social (OMISSIS), non avendo certo ella prestato il suo consenso a tale pubblica propalazione.
La gravità della complessiva condotta non consentiva la concessione delle invocate circostanze attenuanti generiche.
2. Propone ricorso l'imputato, a mezzo del proprio difensore Avv. Salvatore Ficarra, articolando le proprie censure in tre motivi.
2.1. Con il primo deduce la violazione di legge in riferimento alla ritenuta responsabilità del prevenuto in ordine ai reati ascrittigli.
Ricorda, in premessa, che la persona offesa aveva denunciato la diffusione (segnalatagli dal proprio cugino) sul programma di messaggistica (OMISSIS) di sue immagini sessualmente esplicite. Aveva tuttavia ammesso che, almeno parte delle stesse, erano state da lei inviate a terze persone, diverse dall'imputato.
Aveva poi avuto notizia che altre immagini erano state pubblicate sul social (OMISSIS) in un gruppo (OMISSIS).
Era seguita la perquisizione dell'abitazione dell'imputato ove erano stati rinvenuti i tre files per cui è processo (oltre ad altri quarantasei ritraenti la persona offesa, quasi tutti di contenuto sessualmente esplicito).
Il primo giudice – in sede di giudizio abbreviato - aveva ritenuto la responsabilità del L.A. omettendo di considerare che le immagini pubblicate erano state spontaneamente inviate dalla prevenuta anche ad altri soggetti, invio che aveva preceduto l'agosto del 2018, il momento in cui la persona offesa riteneva le fossero state sottratte dal prevenuto (prelevandole dal cellulare dalla medesima dimenticato nella sua autovettura).
Né si era accertato il ruolo del cugino che le aveva fatto la prima segnalazione, né se le immagini fossero state diffuse prima che l'imputato le avesse inviate sul proprio cellulare.
Doveva poi considerarsi che buona parte del materiale rinvenuto in possesso dell'imputato non risultava essere stato mai diffuso.
Si era poi illogicamente affermato che l'imputato avrebbe potuto diffondere le immagini anche con social e mezzi diversi da (OMISSIS), visto che non era emerso alcun invio dalla cronologia del sistema di messaggistica del suo cellulare.
2.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge in ordine alla ritenuta configurabilità dei delitti contestati.
Quanto alla violazione dell'art. 167, comma 2, d.lgs. n. 196/2003, non si era mai specificata quale fosse la fattispecie astratta nella quale sussumere la presunta condotta dell'imputato.
Restava, comunque, la considerazione che non era stata raccolta una prova convincente del fatto che era stato proprio l'imputato a diffondere le immagini, oggetto della denuncia della persona offesa. Si era solo accertato che il prevenuto aveva trasferito le foto in questione dal cellulare della persona offesa al suo.
Non era parimenti provata la sua colpevolezza per il delitto di cui all'art. 615 ter cod. pen., per le medesime ragioni sopra illustrate.
Del resto, la stessa persona offesa aveva diffuso delle immagini così da non potersi ritenere il suo dissenso alla diffusione delle stesse ed il fatto che ella non intendesse pubblicarle.
2.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione in riferimento al diniego delle attenuanti generiche ed alla misura della pena.
Non poteva affermarsi che la persona offesa avesse patito un danno rilevante considerando che era stata la stessa a trasmettere le immagini ad altri soggetti.
3. Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto Giulio Monferini, ha inviato requisitoria scritta con la quale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
4. Il difensore del ricorrente ha inviato memoria con la quale ha insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso.
Il difensore della parte civile ha inviato conclusioni scritte con le quali ha argomentato sulle ragioni di rigetto del ricorso, depositando nota spese ed il decreto di ammissione della medesima al patrocinio a spese dello Stato.
Considerato in diritto
Il ricorso non merita accoglimento.
1. L'individuazione del L.A. come il responsabile della diffusione delle immagini sessualmente esplicite della persona offesa è stata accertata dalla Corte di merito (oltre che dal Tribunale di prime cure e, quindi, con doppia conforme) con motivazione priva di manifeste aporie logiche così da sottrarsi al sindacato di legittimità che non può essere sollecitato al fine di ottenere una rivisitazione degli elementi di fatto su cui si è fondata la sentenza di condanna, la cui valutazione è, invece, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. Un., 30/4-2/7/1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944; ed ancora: Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003 - 06/02/2004, Elia, Rv. 229369).
La persona offesa, ancorché costituitasi parte civile, aveva, infatti, lealmente ammesso di avere trasmesso alcune delle immagini e dei video a terze persone ma si era dimostrata sicura nell'affermare che quelle oggetto del presente giudizio non erano mai state inviate ad alcuno. E ciò ben prima di avere contezza del fatto che potesse essere stato l'imputato a diffonderle.
Si era limitata a ricordare che del telefono cellulare che le conteneva, in memoria, aveva momentaneamente perso il possesso una sera, dimenticandolo nell'autovettura del prevenuto. Ma era stata solo la successiva perquisizione che aveva consentito di acclarare che quei files, mai trasmessi ad alcuno, erano invece presenti nella memoria di uno dei telefoni cellulari dell'imputato.
Dovendosi così dedurre che il medesimo li avesse ottenuti, trasmettendoli dal cellulare della donna al proprio, nel periodo di tempo in cui ne era stato in possesso (approfittando anche del fatto che il cellulare della persona offesa non era protetto da alcuna password).
Peraltro, realizzando poi quello che aveva prefigurato in alcuni messaggi inviati a terza persona nel 2018, l'intento di “umiliare” tale “M.” (il nome della B.).
Era pertanto evidente, secondo la Corte di merito, che, in un primo tempo, l'imputato aveva trasmesso tali files dal telefono cellulare della vittima al proprio, realizzando così la condotta contestatagli al capo A della rubrica, e, in un secondo tempo, le aveva diffuse in internet nei modi descritti al capo B dell'imputazione.
2. Tutto ciò premesso in fatto, si erano configurati, in diritto, i contestati reati.
Quanto al delitto di cui all'art. 167, comma 2, d.lgs. n. 196/2003, si ricorda come tale norma (sotto la rubrica del “trattamento illecito dei dati”), disponga:
“2. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all'interessato, procedendo al trattamento dei dati personali di cui agli articoli 9 e 10 del Regolamento in violazione delle disposizioni di cui agli articoli 2-sexies e 2-octies, o delle misure di garanzia di cui all'articolo 2-septies, arreca nocumento all'interessato, è punito con la reclusione da uno a tre anni.”
Su tale reato si è detto:
- innanzitutto, che, in tema di trattamento illecito di dati personali, sussiste continuità normativa tra il delitto di cui all'art. 167, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, nella formulazione successiva alla novellazione effettuata dall'art. 15, comma 1, lett. b), d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, e quello previsto dalla medesima norma nella formulazione previgente, continuando ad essere incriminato il trattamento dei dati personali di cui agli artt. 9 e 10 del Regolamento UE 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, avvenuto in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2-sexies e 2-octies o delle misure di garanzia di cui all'art. 2-septies d.lgs. n. 196 del 2003, che rechi nocumento all'interessato e sia finalizzato a trarre profitto per sé o per altri o a provocare tale nocumento (Sez. 3, n. 33972 del 16/06/2023, D., Rv. 285063 – 01);
- e, in concreto, che, in tema di trattamento illecito dei dati personali, il nocumento previsto dall'art. 167 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, deve intendersi come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, subito dal soggetto cui si riferiscono i dati protetti oppure da terzi quale conseguenza dell'illecito trattamento (Sez. 3, n. 52135 del 19/06/2018, Bellilli, Rv. 275456 – 03; Sez. 3, n. 15221 del 23/11/2016, dep. 28/03/2017, Campesi, Rv. 270055 – 01).
Date tali premesse, risulta evidente come le immagini sessualmente esplicite che la persona offesa aveva conservato nel proprio telefono cellulare costituissero dei “dati personali”, di particolare riservatezza poi (a prescindere dal fatto che altre analoghe siano state da questa trasmesse ad altre persone, posto che solo alla persona offesa spettava la decisione di inviarle a chi volesse), tali da meritare la conseguente protezione.
Ed è altrettanto evidente come il trattamento degli stessi da parte dell'imputato – realizzato con la trasmissione dei relativi files al proprio cellulare, abusivamente utilizzando quello della stessa B. – avesse recato “nocumento” a quest'ultima, dato che aveva sottratto dalla sua sfera di controllo quelle immagini che ella aveva inteso tenere riservate, in assoluto (non trasmettendole a nessuno) o in modo relativo (inviandole a persone dalla medesima scelte).
Tanto è vero che, in concreto, solo tale prima condotta aveva consentito di realizzare la seconda, la diffusione dei files su alcuni social media.
2.2. Con la ricordata diffusione si era poi consumato il delitto ascritto al prevenuto al capo B), ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 612 ter cod. pen.
La condotta di diffusione delle immagini e dei video, raffiguranti scene sessualmente esplicite, infatti, era stata realizzata senza alcun consenso da parte della persona ritratta nei medesimi, così recandole l'ulteriore nocumento (peraltro voluto dall'imputato) consistito nella circolazione incontrollata di sue immagini intime.
3. Le censure relative al trattamento sanzionatorio sono inammissibili posto che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che – nel caso di specie – non ricorre.
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile e che saranno liquidate dal giudice a quo, posto che la stessa è ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
L'oggetto del processo impone l'oscuramento dei dati identificativi.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari, con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.p.r. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge.




