La “minore gravità” nella violenza sessuale: un confine sempre più stretto (Cass. Pen. n. 38789/25)
- Avvocato Del Giudice
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Da quasi trent’anni il reato di violenza sessuale vive dentro una tensione non risolta; essere un’unica fattispecie penale, capace di ricomprendere comportamenti molto diversi tra loro, ma senza rinunciare all’idea che non tutte le violazioni della libertà sessuale siano uguali.
Il legislatore del 1996 scelse di unificare atti di libidine violenti e congiunzione carnale in un solo articolo, l’art. 609-bis c.p., introducendo poi un’attenuante per “i casi di minore gravità”.
Una formula breve, apparentemente intuitiva, ma fragile: cosa significa minore gravità quando si parla di una violenza sessuale?
Qual è il baricentro dell’offesa: la penetrazione? la coartazione? la situazione della vittima? le modalità materiali? il trauma relazionale?
La sentenza n. 38789/2025 della Cassazione torna su questo tema e offre una risposta limpida, che però non può non inquietare chi studia l’evoluzione del diritto penale; la presenza di penetrazione tende a escludere la ipotesi attenuata.
Una presunzione che non osa dirsi tale
La Corte afferma che la penetrazione non è da sola criterio dirimente per decidere della minore gravità — e, in astratto, è vero.
Da anni la giurisprudenza ripete che la valutazione deve essere globale, riferita a mezzi, modalità e intensità della coartazione. (Cass., Sez. III, 5 febbraio 2009, n. 10085)
Eppure nella prassi, e questa sentenza lo conferma, la penetrazione è il discrimine.
Quando c’è stata — e soprattutto quando è avvenuta nonostante un rifiuto esplicito — il giudice tende a vedere la sfera della libertà sessuale completamente violata, non parzialmente compressa.
La Corte costituzionale, nella storica sentenza n. 325/2005, aveva legittimato l’attenuante come valvola di proporzionalità, per evitare che condotte meno invasive venissero punite nello stesso modo di quelle più gravi.
Ma la Corte va oltre: se la libertà sessuale è pienamente invasa, non c’è spazio per parlare di gravità attenuata.
Ne deriva un principio non scritto ma evidente: la penetrazione è, tendenzialmente, sinonimo di gravità piena.
La “minima entità” che non esiste quasi mai
L’art. 609-bis, comma 3, nasce per proteggere l’equilibrio della pena in casi in cui:
non vi sia un uso marcato della forza,
la vittima sia poco vulnerabile,
la condotta sia episodica e rapida,
la lesione del bene sia “minima”.
Ma quando la vittima si era rivestita per interrompere il rapporto e la penetrazione arriva comunque — come nel caso deciso dalla Cassazione — non c’è più nulla di “minimo”: l’intero bene giuridico è travolto.
La Corte lo dice senza tentennare, la presenza di una penetrazione imposta con violenza esclude, tendenzialmente, l’ipotesi attenuata.
Il messaggio è chiaro: in questi casi l’attenuante sarebbe uno sconto ingiusto.
Una linea netta: giustizia o irrigidimento?
Questa impostazione ha una virtù e ciò in quanto assicura una tutela alta e non negoziabile della libertà sessuale.
Ma porta con sé un rischio, ovvero, trasformare l’attenuante in un istituto da museo, usabile solo in casi limite — quasi accademici — di violenza senza penetrazione e con coercizione “sfumata”.
Il diritto penale, però, dovrebbe anche saper graduare, distinguere, collocare i fatti lungo scale di intensità, riconoscere che ogni storia di violenza è diversa dalle altre.
Se tutto ciò che ha penetrazione è “massima gravità”, non stiamo forse appiattendo una realtà complessa?
La scelta politica dietro la tecnica giuridica
La Corte qui non si limita a interpretare una norma.
Affronta una domanda culturale: quanto vale il corpo e la decisione sessuale di una persona?
Quanto ci si può spingere nel riconoscere differenze senza perdere la fermezza del messaggio sociale?
È un equilibrio che si sposta, storico, sensibile alle trasformazioni:
alla scomparsa dell’idea patriarcale del “rapporto sessuale” come pretesa,
alla centralità crescente del consenso,
all’attenzione al trauma psicologico, non solo lesivo-fisico.
La sentenza 38789/2025 fotografa un momento preciso, un sistema che non vuole scontare nulla di ciò che spezza il rifiuto sessuale di una persona.
In conclusione, la “minore gravità” sopravvive, ma al margine.
È un istituto che deve combattere per non scomparire, spinto verso confini sempre più ristretti da una cultura giuridica che — legittimamente — considera la penetrazione violenta un attentato totale alla libertà sessuale.
La sfida del futuro sarà capire se questa rigidità è un prezzo accettabile per una tutela più forte, o se occorrerà tornare a una autentica graduazione del disvalore, là dove la realtà delle relazioni umane resta sempre più complessa delle categorie che il diritto tenta di imporle.
La sentenza integrale
Cassazione penale sez. III, 19/11/2025, (ud. 19/11/2025, dep. 01/12/2025), n.38789
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24/10/2024, la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Venezia del 22/03/2022, assolveva Pe.Al. in relazione ai reati di cui ai capi B) e C) (violenza sessuale in danno di Gu.Sa. e Pa.Ma.), mentre confermava la condanna in ordine al delitto di cui all'articolo 609-bis cod. pen. in danno di Ni.La., rideterminando la pena in anni 2 e mesi 8 di reclusione, con revoca delle statuizioni civili relativi ai capi B) e C); la sentenza rimodulava altresì delle pene accessorie.
2. Avverso la sentenza citata l'imputato propone, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione, articolato in due motivi.
2.1. Con il primo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione ai criteri di valutazione della prova, ritenendo che le dichiarazioni della persona offesa, in quanto costituitasi parte civile, dovessero essere corroborate da riscontri estrinseci.
2.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla rideterminazione della pena, con specifico riguardo al mancato riconoscimento dell'ipotesi lieve di cui all'articolo 609-bis, ultimo comma, cod. pen.
3. In data 5 novembre 2025, l'Avv. Mariangela Semenzaro del Foro di Venezia, per la parte civile Ni.La., depositava memoria in cui concludeva per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso e depositava nota spese.
4. In data 12 novembre 2025 l'Avv. Roberto C. Rechichi, per l'imputato, depositava memoria in cui contestava le conclusioni del P.G. e insisteva per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il primo motivo è inammissibile.
Preliminarmente, va evidenziato che non è consentito il motivo con cui si deduca la violazione dell'art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027).
Difatti la deduzione del vizio di violazione di legge, in relazione all'asserito malgoverno delle regole di valutazione della prova contenute nell'art. 192 c.p.p. ovvero della regola di giudizio di cui all'art. 533 dello stesso codice, non è permessa non essendo l'inosservanza delle suddette disposizioni prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come richiesto dall'art. 606 lett. c) c.p.p. ai fini della deducibilità della violazione di legge processuale (ex multis, Sez. U., Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, cit.; Sez. 3, n. 44901 del 17 ottobre 2012, F., Rv. 253567; Sez. 3, n. 24574 del 12/03/2015, Zonfrilli e altri, Rv. 264174; Sez. 1, n. 42207/17 del 20 ottobre 2016, Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191).
Né vale in senso contrario la qualificazione del vizio dedotto operata dal ricorrente come error in iudicando in iure ai sensi della lett. b) dell'art. 606 c.p.p., posto che tale disposizione, per consolidato insegnamento di questa Corte, riguarda solo l'errata applicazione della legge sostanziale, pena, altrimenti, l'aggiramento del limite (posto dalla citata lett. c) dello stesso articolo) della denunciabilità della violazione di norme processuali solo nel caso in cui ciò determini una invalidità (ex multis, Sez. 3, n. 8962 del 3 luglio 1997, Ruggeri, Rv. 208446; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 268404).
Sotto il profilo della violazione di legge il motivo di doglianza è quindi inammissibile.
Quanto al dedotto vizio di motivazione, va rammentato che non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).
La sentenza impugnata risulta congruamente motivata in ordine al giudizio di colpevolezza, in relazione a tutti i profili dedotti, e le argomentazioni della Corte non risultano apparenti, né "manifestamente" illogiche o contraddittorie.
Va peraltro rammentato che va confermata la sedimentata giurisprudenza secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (v., ex plurimis, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Rv. 253214; Sez. 3, n. 5915/2020, cit.), "non trovando applicazione nei confronti della persona offesa le regole di valutazione della prova dettate dall'art. 192, comma 3, c.p.p., - in base al quale le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p. sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità - previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto... (omissis)... consentendo così l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, Rv. 261730)".
Si è anche ritenuto che, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione" (Sez. 5, n. 27892 del 9/04/2021, dep. 2022, Lo Presti, n.m.; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, Rv. 275312).
Nel caso in esame, la reiterazione del medesimo modus operandi nei confronti delle tre giovani (ancorché nei confronti di due di esse la Corte territoriale abbia ritenuto insussistente il fatto per presenza di consenso della vittima o dubbio sulla assenza di dissenso della stessa) è stato valutato - non illogicamente - dalla sentenza impugnata un elemento di riscontro estrinseco alle dichiarazioni della persona offesa, la quale narra in modo limpido e preciso di avere opposto un netto rifiuto all'approccio sessuale da parte dell'imputato, posto in essere, come detto, con modalità analoghe a quelle patite dalle amiche.
3. Il secondo motivo è manifestamente infondato. La Corte di appello ritiene che, proprio in ragione della intervenuta penetrazione, il fatto non possa essere ritenuto di lieve entità.
Tale affermazione non appare manifestamente illogica.
Va infatti rammentato che l'attuale articolo 609-bis cod. pen. ha unificato in una unica fattispecie penale i due articoli contemporaneamente abrogati, l'uno (519 cod. pen.) che sanzionava la "congiunzione carnale" violenta, l'altro (512) che sanzionava gli "atti di libidine violenta".
La previsione del terzo comma della norma in esame svolge la funzione di evitare un carico sanzionatorio troppo elevato per condotte già sanzionate ai sensi dell'articolo 521 cod. pen. e caratterizzate dall'assenza di "congiunzione carnale", poi confluite nella disposizione di cui all'articolo 609-bis cod. pen.
In proposito, la Corte costituzionale ha chiarito (sentenza n. 325 del 2005) che il legislatore, mediante una consistente diminuzione della pena prevista per il delitto di violenza sessuale, ha avvertito l'esigenza di introdurre una circostanza attenuante per i casi di minore gravità (art. 609-bis, terzo comma, cod. pen.) al fine di "rendere la sanzione proporzionata nei casi in cui la sfera della libertà sessuale subisca una lesione di minima entità. L'attenuante si pone dunque quale temperamento degli effetti della concentrazione in un unico reato di comportamenti, tra loro assai differenziati, che comunque incidono sulla libertà sessuale della persona offesa, e della conseguente diversa intensità della lesione dell'oggettività giuridica del reato".
Conseguentemente, questa Corte ritiene che "in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest'ultima, anche in relazione all'età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità".
Si è anche ritenuto che, ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante della "minore gravità" non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, in quanto è necessario valutare il fatto nella sua complessità (Fattispecie nella quale sono stati presi in considerazione elementi aggiuntivi e, tra questi, l'approfittamento, da parte dell'imputato, delle condizioni di vita degradata della vittima, minore di età). (Sez. 3, n. 10085 del 05/02/2009, R., Rv. 243123-01).
Se pertanto, l'assenza di penetrazione non basta di per sé a rendere il fatto di "minore gravità", a contrario, la presenza di penetrazione esclude, tendenzialmente, la presenza della ipotesi attenuata, fermo restando l'obbligo di procedere ad una valutazione globale del fatto che potrebbe consentire al giudice di pervenire ad opposta conclusione laddove il grado di coartazione della libertà sessuale della vittima sia di lieve entità.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata esclude la sussistenza della diminuente, evidenziando la presenza di una penetrazione vaginale imposta con violenza, nonostante la ragazza si fosse rivestita dopo il diniego, e il notevole grado di compressione del bene giuridico tutelato.
La doglianza, con cui il ricorrente non si confronta in modo realmente critico, è generica e inammissibile.
4. Il ricorso non può quindi che essere dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria dell'inammissibilità consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento. Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
5. L'imputato va anche condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Venezia con separato decreto di pagamento.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Venezia con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 e ss.mm.
Così è deciso in Roma il 19 novembre 2025.
Depositata in Cancelleria il 1 dicembre 2025.

