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Minaccia: condanna a 2 mesi di reclusione (Tribunale di Udine - Giudice Monocratico dott.ssa Camilla Del Torre)


Reato di minaccia (art. 612 c.p.)

Proponiamo una sentenza di merito, pronunciata dal Tribunale di Udine, con la quale l'imputato è stato condannato per il reato di minaccia.


Tribunale Udine, 20/11/2023, (ud. 07/11/2023, dep. 20/11/2023), n.2138

Svolgimento del processo

Con decreto emesso dal G.u.p. l'odierno imputato veniva citato a giudizio davanti a questo Tribunale per rispondere del reato a lui ascritto in rubrica.

All'udienza dibattimentale di data 31/5/23, dichiarata l'assenza dell'imputato, presente la parte civile costituita Li.Ge., veniva dichiarato aperto il dibattimento ed ammesse le prove richieste dalle parti. Veniva, inoltre, acquisita documentazione.

All'udienza del 23/9/22 si procedeva all'esame della persona offesa.

L'udienza del 18/11/22 veniva rinviata.

Il 24/3/22, intervenuto il mutamento del giudice e rinnovato il dibattimento, il processo veniva rinviato su richiesta del difensore di fiducia dell'imputato, nominato il giorno precedente. Il 6/6/23 si dava corso all'esame di Gi.Ba. e Lu.Ge.

Il 10/10/23 si dava corso all'esame del Mar. Magg. Fr.Fo.. Il Pm rinunciava all'esame del teste Fo. e la parte civile rinunciava all'esame di St.Mu., testi dei quali veniva revocata l'ammissione. Si dava, dunque, corso all'esame dell'imputato. Indi, dichiarata chiusa l'istruttoria, il Pm, il difensore della parte civile e il difensore dell'imputato concludevano come da verbale di udienza.

Il 7/11/23, in assenza di repliche, il Tribunale pronunciava sentenza come da dispositivo.


Motivi della decisione

Dovrà essere pronunciata sentenza di condanna dell'odierno imputato per il reato di rubrica limitatamente ai fatti contestati come commessi sino a gennaio 2013 e per l'episodio di giugno 2020, riqualificato ex art. 612 comma 2 c.p..

La persona offesa Li.Ge., sentita in dibattimento, ha dichiarato di avere conosciuto l'imputato nel maggio 2011 a Pordenone, dove lei si era trasferita per lavoro e di avere iniziato a convivere con lui in tale città nello stesso anno, nell'appartamento che condivideva anche con St.Mu.; l'anno successivo i due si erano sposati a Tunisi. La coppia, fermatasi a Tunisi dal maggio all'agosto 2012, era poi tornata a Pordenone dove la convivenza era proseguita sino all'inizio del 2013, quando Ge., in stato di gravidanza, si era trasferita a Osoppo a casa della madre. L'imputato dopo il 2013 non aveva più vissuto assieme alla donna, semplicemente aveva fissato la residenza a casa della madre della persona offesa per questioni burocratiche.

Ripercorrendo la relazione sentimentale tra i due, Ge. ha raccontato che, già prima del matrimonio, l'imputato aveva tenuto dei comportamenti aggressivi nei suoi confronti, colpendola con sberle, tirandole i capelli e insultandola. Nel dicembre 2011, quando Ge. una mattina lo aveva svegliato perché l'imputato doveva recarsi al lavoro, lui con un pugno le aveva rotto il naso: in quella occasione la donna, recatasi in pronto soccorso, aveva raccontato di essersi procurata la frattura sbattendo contro lo stipite di una porta. Nonostante tali episodi, la persona offesa aveva perdonato l'uomo e deciso comunque di sposarlo. Poco tempo dopo la persona offesa era rimasta incinta e, dopo un periodo di tranquillità nella coppia, l'uomo aveva ripreso ad abusare di sostanze alcoliche e ad insultare la moglie pressoché quotidianamente, dicendole "puttana", a minacciarla di morte regolarmente, a svegliarla di notte tirandola per i capelli per avere dei rapporti sessuali e a colpirla con ceffoni. Nel novembre 2012, stanca delle continue vessazioni, Ge. aveva comunicato al marito l'intenzione di lasciarlo e si era incamminata verso la stazione dei treni; l'imputato l'aveva raggiunta e all'esterno della stazione aveva iniziato a scagliare in mezzo alla strada le biciclette ivi posteggiate e a spintonare la donna, che era stata prontamente soccorsa dalla Polizia ferroviaria. Anche dopo tale episodio, ascoltate le scuse del marito, Ge. era tornata a vivere con lui. Nel dicembre 2012, poi, l'imputato aveva aggredito la moglie con una sedia provocandole delle lesioni alla mano (refertate in pronto soccorso). Solo dopo tale episodio la donna se ne era andata definitivamente di casa. Il 29 aprile 2013 era nato prematuramente Om., il figlio della coppia. L'imputato era andato a trovare il figlio in ospedale appena nato e poi lui e Ge. si erano incontrati qualche volta nelle settimane successive, perché l'uomo voleva vedere il figlio. Nel gennaio 2014 Ge. si era recata spontaneamente in Tunisia per far conoscere Om. ai nonni paterni, l'imputato li aveva raggiunti ed erano iniziati nuovamente i problemi: ad esempio, una notte, sol perché Om. piangeva, l'imputato aveva colpito con uno schiaffo la moglie. Nel mese di febbraio 2014 Ge. era rientrata in Italia; negli incontri avvenuti nei mesi successivi, organizzati per far incontrare Om. all'imputato, lo stesso aveva continuato ad essere aggressivo con la donna. Nel corso del 2014, poi, l'imputato era sparito e non aveva dato più notizie di sé per circa tre anni. Nel 2016 ci era stato un contatto telefonico tra persona offesa e imputato e da lì l'uomo aveva ripreso a far visita al figlio con frequenza mensile. Durante tali incontri l'imputato aveva offeso la donna, la aveva spintonata e in una occasione le aveva sputato in faccia. Nel 2020, durante l'ennesima discussione della coppia, l'imputato aveva cercato di alzare la maglia della Ge. e lei aveva reagito colpendolo con un pugno in faccia. L'imputato la aveva minacciata di morte. Infine, nel mese di agosto 2020, nel corso di una telefonata con il figlio, l'imputato aveva detto "vedrai cosa faccio a tua mamma, io la sgozzo, lei ti ha portato via": da lì la decisione di Ge. di sporgere querela.

La donna ha specificato che più volte anche lei si era resa protagonista di pugni o sberle nei confronti dell'imputato, ma solo a scopo di difendersi dalle sue aggressioni.

Gi.Ba., madre della persona offesa, ha dichiarato di non aver mai assistito di persona a litigi tra la figlia e il marito. Ha solo raccontato che nel giugno 2020 l'imputato, nel corso di una telefonata in viva voce, aveva detto al figlio "Guarda che io farò del male alla mamma ed andrò anche in prigione". Ha anche riferito di non avere mai visto segni di aggressioni sul corpo della figlia, ad eccezione del caso del naso rotto.

Lu.Ge., padre della persona offesa, ha dichiarato che nel 2020, quando il nipote aveva circa cinque anni, lo aveva visto rivolgersi alla madre facendole il segno di tagliarle la gola. Il teste ha riferito di non avere mai assistito ad aggressioni dell'imputato nei confronti della figlia e di avere saputo dalla figlia che nel 2012 lui le aveva rotto il setto nasale scaraventandole uno sgabello addosso perché lei lo aveva svegliato per andare a lavoro.

Il Mar. Magg. Fr.Fo. ha dichiarato di essersi occupato, dopo la presentazione della querela da parte della persona offesa, di escutere a s.i.t. i genitori ed una amica della stessa e di avere acquisito i referti medici relativi agli accessi di Ge. al pronto soccorso.

L'imputato nel corso del suo esame ha negato tutti gli addebiti; ha dichiarato di non avere mai picchiato la moglie, neppure quando la stessa nel dicembre 2012 aveva rotto il naso (l'imputato ha riferito che in quella occasione la donna era scivolata). In merito all'episodio del dicembre 2012, invece, l'imputato ha riferito che nel corso di un litigio con la moglie le aveva involontariamente fatto sbattere la mano sulla porta. Be.Na. ha poi dichiarato di avere sempre trattato bene la moglie e che la stessa, invece, lo offendeva e voleva da lui solo denaro. Ha aggiunto di avere a volte insultato Ge. come risposte ad insulti che la stessa per prima gli rivolgeva.

Ritiene questo giudice che dal quadro probatorio così ricostruito emerga evidente la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato di cui in imputazione, limitatamente, però, ai fatti contestati come commessi fino al gennaio 2013.

A suo carico, invero, vi sono innanzitutto le dichiarazioni accusatorie della persona offesa, ossia della moglie, le quali sono da considerare attendibili nella maniera più assoluta.

Esse, infatti, sono connotate intrinsecamente dai caratteri della chiarezza, precisione e coerenza logica (nonostante l'emozione nel rendere l'esame in aula e ni ripercorrere episodi dolorosi) e non presentano alcuna inutile enfatizzazione, alcuna marcatura o sottolineatura di qualche aspetto dell'intera vicenda oltre il necessario e l'essenziale. La donna ha detto, inoltre, del tutto onestamente e con serenità di essersi recata solo due volte in ospedale (nel dicembre 2011 e nel dicembre 2012) in conseguenza delle condotte del marito, ha raccontato di avere inventato una scusa nella prima occasione e di avere attribuito la responsabilità del fatto al marito solo la seconda volta; ha anche spiegato in modo convincente il suo comportamento asserendo di avere sempre perdonato e scusato il marito per la sua condotta (e questo, devesi osservare, è assolutamente in linea con l'atteggiamento che comunemente tengono i soggetti deboli maltrattati) ed ha anche spiegato che, dopo aver sopportato per anni le condotte del marito, solo nel 2020 si era decisa a presentare denuncia. Le dichiarazioni in esame provengono poi da una persona, appunto la moglie dell'imputato, che non aveva alcuna ragione di inventarsi una storia del genere, se non proprio quella derivante dalla intollerabilità della vita coniugale.

Peraltro, la persona offesa è stata assolutamente sincera nel riferire di lunghi periodi nei quali non vi erano stati contatti con il marito, così come di periodi nei quali non vi erano state aggressioni nei suoi confronti da parte del Be.Na.

Va aggiunto che la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che "le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione" (Cass. pen. Sez. 5, sentenza n. 21135 del 26/03/2019).

Nel caso in esame, il dictum di Ge. è confermato dai due referti medici del dicembre 2011 e del dicembre 2012: entrambi i referti sono assolutamente aderenti al complessivo racconto della persona offesa (nel referto del 23 dicembre 2022, infatti, si legge "trauma al naso e all'arcata sopraciliare sin (urtava contro una porta)" tanto che poi era stata accertata la frattura delle ossa nasali, mentre nel referto del 19 dicembre 2012 si legge "trauma mano sinistra in gravida alla 17 settimana. Trauma di stamattina a seguito di diverbio con il marito... Obiettivamente ecchimosi dolente alla palpazione..").

Va detto che anche gli ulteriori testi sentiti in dibattimento sono parsi sinceri e del tutto credibili. Questo vale in particolar modo per i genitori della persona offesa, i quali hanno del tutto onestamente ammesso di non avere mai assistito prima del 2020 ad episodi di aggressione fisica o verbale da parte dell'imputato nei confronti della figlia.

Non è credibile, invece, la versione dei fatti offerta dall'imputato, il quale ha negato ogni forma di addebito ed ha dichiarato che le condotte da lui tenute sono state semmai poste in essere come reazione a condotte aggressive o violente della moglie ai suoi danni. La non credibilità della versione dei fatti da lui offerta si trae in particolare dalla ricostruzione dell'episodio del 19 dicembre 2012, in relazione al quale ha riferito di aver accidentalmente "lanciato" la mano della moglie sulla porta, mentre lei gli stava rompendo la camicia.

Stando così le cose, venendo al reato contestato in imputazione, va, al riguardo, rammentato che nella nozione di "maltrattamenti" rientrano i fatti lesivi dell'integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento o con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non lasciare traccia (Sez. 6, 16 ottobre 1990, Mengo; Sez. 6, 22 dicembre 1992, Sortini). Non è necessario, quindi, per la configurabilità del reato in esame un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto (Sez. 6,6 novembre 1991, Faranda), perché il reato è caratterizzato da un'unità significante costituita da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo: cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze; ad integrare l'abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed "unificati", anche se per un limitato periodo di tempo (Sez. 5, 9 gennaio 1992, Giay), pur non di meno dovendosi sottolineare che il lasso di tempo, ancorché limitato, è tuttavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Sez. 6, 9 dicembre 1992, Gelati). Per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all'autore in quanto la norma, nel reprimere l'abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza (Sez. 6, 4 marzo 1996, Gazzette). Tanto che nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, senza che assuma rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto, l'intervallo di tempo tra una serie e l'altra di episodi lesivi non fa venir meno l'esistenza dell'illecito (Sez. 6, 7 giugno 1996, Vitiello).

Così precisata l'oggettività del reato in esame, non vi è dubbio che la condotta tenuta dall'imputato fino al gennaio 2013 nei confronti della moglie avesse integrato quell'atteggiamento di abituale prevaricazione richiesto dalla norma incriminatrice, avendo egli, con i suoi comportamenti irragionevolmente autoritari e violenti, imposto alla stessa un regime di vita vessatorio e intollerabile, caratterizzato da plurimi episodi di violenza morale e fisica, che ella aveva continuato a sopportare fino a quando si era trasferita dai genitori, continuando poi ad ulteriormente tollerare le condotte del marito sino al 2020, quando, di fronte all'ennesima minaccia di morte, aveva deciso di denunciarlo. L'imputato, infatti, con la sua reiterata condotta, ha sottoposto Ge. (prima sua convivente e poi sua moglie) dal dicembre 2011 al gennaio 2013 ad un sistema di vita vessatorio, umiliante, mortificante e lesivo finanche della dignità personale, picchiandola, per futili motivi (a dicembre 2011, ad esempio, solo perché lei lo aveva svegliato per mandarlo al lavoro, ma in molte altre occasioni tirandola per i capelli o schiaffeggiandola per qualsiasi motivo), in plurime occasioni e talvolta quando la donna era in stato di gravidanza. Se, come visto, il reato si configura qualora sia dimostrata la "sistematicità" di condotte violente e sopraffattici, nel caso di specie le vessazioni dell'imputato hanno determinato in almeno due occasioni vere e proprie lesioni personali sulla parte offesa. Le continue vessazioni nei confronti della moglie sono derivate, oltre che dai singoli episodi di aggressione fisica descritti dalla persona offesa, anche dalla condotta generalmente tenuta dall'imputato nei confronti della donna, rivolgendosi a lei sempre con espressioni offensive e minacciose (come, ad esempio, dandole della "puttana" e minacciandola di morte). È evidente, dunque, la continuità e l'abitualità delle condotte violente e delle prevaricazioni dell'uomo nei confronti della moglie, condotte senza ombra di dubbio idonee ad integrare la fattispecie delittuosa in esame.

La limpidezza ed univocità degli atti concreti compiuti in più occasioni è segno inconfondibile dell'esistenza dell'elemento soggettivo del delitto in questione, non potendo nutrirsi alcun dubbio che, così agendo, mai cambiando modo d'essere, l'imputato avesse la coscienza e la volontà di sottoporre la moglie ad una serie di sofferenze in modo continuativo ed abituale. Rimane solo da chiarire che il reato di maltrattamenti si ritiene consumato sino al gennaio 2013, quando Ge. si era trasferita a casa dei genitori. Nel corso della sua deposizione la persona offesa ha in un primo momento dichiarato di essersi allontanata da casa a "marzo 2013", salvo poi aver riferito di averlo fatto due mesi prima della nascita di Om., nato ad aprile, e salvo ancora aver poi ripetuto più volte di essersi trasferita a inizio anno 2013 ("all'inizio del 2013 ... cioè me ne sono andata subito. Appena successe l'incidente sono andata da mia mamma ma poi avevo il lavoro e quindi sono tornata un attimo lì, e me ne sono andata via definitivamente"). Nell'ottica del favor rei, dunque, viene stabilita nel mese di gennaio 2013 la data del trasferimento della persona offesa presso i genitori.

Quanto ai fatti contestati come commessi dal gennaio 2013 in poi, deve essere osservato che per essi dovrà essere pronunciata sentenza assolutoria nei confronti dell'imputato per il reato di maltrattamenti in famiglia per mancanza del requisito della abitualità della condotta. Come dichiarato dalla stessa persona offesa, a gennaio del 2013 la stessa, esausta in conseguenza della situazione familiare e delle continue vessazioni, si era trasferita a casa dei genitori, quando era incinta.

Prima della nascita del figlio Om., avvenuta il 29 aprile 2013, l'imputato si era recato a trovarla "pochissime volte". Be.Na. si era poi recato a far visita al figlio quando era nato e qualche volta nel mese successivo, mentre già dal mese di giugno 2013, come riferito da Ge., "non si vedeva quasi più". Nei mesi successivi era stata Ge. a portare il figlio a Pordenone in visita al padre, ma tali incontri erano avvenuti raramente e la persona offesa ha dichiarato che comunque non era successo nulla tra di loro (cfr pag. 14 delle trascrizioni dell'udienza del 23 settembre 2022). Poi nel gennaio 2014 Ge. di sua spontanea volontà aveva portato il figlio in Tunisia per farlo conoscere alla famiglia dell'imputato e durante una discussione l'imputato l'aveva colpita con un ceffone, ragion per cui la donna era tornata in Italia. Dopo il rientro in Italia, l'imputato aveva continuato a fare visita al figlio una volta ogni due settimane e poi sempre più raramente: in relazione a tale periodo la persona offesa ha raccontato di essere stata colpita solo in due occasioni con sberle dal marito. Be.Na. era poi sparito completamente per circa tre anni. Ge. e Be.Na. avevano ripreso i contatti dopo una telefonata avvenuta nel 2016 e in seguito gli incontri tra i due erano avvenuti "raramente ... una volta ogni morte di papa" (pag. 19 delle trascrizioni citate). La persona offesa ha riferito che durante tali incontri vi erano sempre litigate, Be.Na. la offendeva e pertanto Ge. cercava di non essere presente quando l'imputato andava a trovare il figlio. L'ultimo incontro tra i due rilevante ai fini dell'imputazione era avvenuto a giugno 2020 e in quella occasione l'imputato aveva minacciato Ge. di ucciderla se avesse avuto un altro uomo.

Dunque, appare evidente che dal gennaio 2013 in poi, pur essendo continuata la condotta denunciata dalla persona offesa, tuttavia gli incontri sono stati del tutto sporadici, intervallati da lunghi periodi e addirittura del tutto interrotti per tre anni. Difetta, dunque, come anticipato, il requisito della abitualità della condotta necessario per ritenere perfezionato il reato di maltrattamenti in famiglia, quantomeno con il sufficiente grado di certezza processuale.

Che rimane, dunque, di penalmente rilevante per tale periodo?

La persona offesa, come visto, ha riferito di continui insulti (non penalmente rilevanti), di un episodio di aggressione fisica avvenuto in Tunisia, di sputi, e, infine, ha raccontato di una specifica minaccia1. In relazione a tale ultima condotta, la persona offesa ha riferito che a giugno 2020 l'imputato le aveva detto che se l'avesse vista con un altro uomo avrebbe ucciso entrambi.

In relazione a tale specifico episodio possono ritenersi integrati gli estremi del reato di cui all'art. 612 comma 2 c.p., così qualificato in quanto vi è stata una esplicita minaccia di morte. Rimane solo da osservare, in punto di diritto, che il reato in questione consiste nel prospettare - con qualsiasi modalità idonea - ad una persona un male, futuro o prossimo, avente quale destinatario il soggetto passivo o un terzo, legato al soggetto passivo da una peculiare relazione di parentela o affettiva. La giurisprudenza ha precisato che, affinché il delitto di minaccia si configuri, non è necessario che la vittima versi concretamente in uno stato di intimidazione, essendo sufficiente che la condotta realizzata dall'agente, tenuto conto della situazione contingente, sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale ("Nel reato di minaccia, elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall'autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest'ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante, invece, l'indeterminatezza del male minacciato, purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente" Cass. Sez. V, sentenza n. 45502 del 2014). Essendo, dunque, da un lato irrilevante il fatto che la persona offesa non sia rimasta in concreto intimidita dalle minacce poste in essere dall'imputato e d'altro lato evidente il significato intimidatorio delle condotte da lui tenute, che si è sostanziato in un atteggiamento univocamente idoneo a ingenerare timore nella persona offesa, nessun dubbio vi è sulla configurazione del reato in esame nell'episodio sotto esame, anche alla luce della già riferita credibilità della persona offesa.

1 II capo di imputazione non consente di tenere conto dei fatti narrati come avvenuti dopo il giugno 2020.

Peraltro, la conferma della credibilità del racconto fatto in merito a tale minaccia si può trarre anche dal rilievo che la madre della persona offesa - la quale ha ammesso di non avere mai assistito ad alcun episodio specifico prima del 2020 - ha confermato di avere assistito a minacce ai danni di Ge. nell'anno 2020 ed in particolare di avere udito una minaccia di morte proferita dall'imputato al telefono con il figlio diretta alla persona offesa.

Per quanto riguarda il dolo, questo si deduce agilmente dalla pregnanza e dall'univocità del comportamento posto in essere dall'imputato.

Va, pertanto, affermata la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato di rubrica, per i fatti contestati sino al gennaio 2013 e per il reato di cui all'art. 612 comma 2 c.p., così riqualificato l'episodio di giugno 2020.

Deve essere esclusa l'aggravante contestata, non vigente all'epoca dei fatti.

Venendo al trattamento sanzionatorio e valutati, dunque, i criteri di cui all'art. 133 c.p., denegato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non essendoci alcun elemento favorevole da poter valorizzare ex art. 62 bis c.p. (nessun ravvedimento, nessun risarcimento e nessuna ammissione di responsabilità), esclusa la recidiva (in considerazione del fatto che la condotta contestata è stata ritenuta perfezionata sino al gennaio 2013, e che comunque non la si può ritenere sussistente per l'episodio di giugno 2020, non ritenendolo espressione di una maggiore pericolosità sociale dell'imputato), è da ritenersi pena congrua quella di anni due di reclusione per il reato di cui all'art. 572 c.p., così determinata nel minimo edittale vigente all'epoca dei fatti, e di mesi due di reclusione per il reato di minaccia, così determinata considerando la gravità della condotta. I due reati non possono essere ritenuti avvinti nel vincolo della continuazione, considerando il rilevante lasso temporale trascorso.

Alla condanna dell'imputato consegue ex lege anche quella al pagamento delle spese processuali.

Esaminato il casellario dell'imputato e ternato conto dell'entità della pena irrogata, non sono concedibili i benefici di legge.

Inoltre, ai sensi degli artt. 538 e ss. c.p.p., l'imputato deve essere condannato al risarcimento degli evidenti danni morali subiti dalla costituita parte civile, che possono essere liquidati in via equitativa in Euro 5.000,00, considerando il non ristretto lasso temporale delle condotte poste in essere. L'imputato andrà, altresì, condannato al rimborso delle spese processuali sostenute dalla parte civile costituita, liquidate in complessivi Euro 1.400,00 (Euro 300,00 per la fase di studio, Euro 350,00 per la fase introduttiva, Euro 640,00 per la fase istruttoria e Euro 810,00 per la decisionale, importi da ridurre di un terzo ex art. 106 bis DPR 115/02), oltre a IVA, CPA e spese forfettarie, da distrarsi in favore dello Stato.

La motivazione è riservata ex art. 544 comma 3 c.p.p. in giorni trenta, avuto riguardo alle questioni trattate.


P.Q.M.

Il Tribunale di Udine, Sezione Penale, in composizione monocratica, visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.,

DICHIARA

Be.Na. colpevole del reato a lui ascritto in rubrica limitatamente ai fatti contestati come commessi sino a gennaio 2013 e del reato di cui all'art. 612 comma 2 c.p. così riqualificati i fatti commessi a giugno 2020 e, escluse l'aggravante contestata e la recidiva, lo

CONDANNA

alla pena di anni due di reclusione per il reato di cui all'art. 572 c.p. e di mesi due di reclusione per il reato di cui all'art. 612 c.p., oltre al pagamento delle spese processuali; visti gli artt. 538 e ss. c.p.p.,

CONDANNA

l'imputato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, che liquida equitativamente in Euro 5.000,00, nonché al rimborso delle spese processuali dalla stessa sostenute, che liquida in complessivi Euro 1.400,00, oltre al rimborso delle spese forfettarie, I.V.A. e C.P.A., come per legge, da distrarsi in favore dello Stato;

motivazione riservata ex art. 544 co. 3 c.p.p. in giorni 30.

Così deciso in Udine il 7 novembre 2023.

Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2023.


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