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Palpeggia il seno di una donna nel corso di una aggressione: è violenza sessuale.

Al fine della configurazione del reato di violenza sessuale è sufficiente il contatto corporeo con una zona erogena della vittima, non necessariamente coincidente con la zona genitale.

A ciò consegue che il tentativo è ipotizzabile o quando allorquando manchi un contatto fisico tra l'autore del reato e la persona purché sia ravvisabile l'oggettiva idoneità della condotta a violare la libertà di autodeterminazione sessuale della vittima, oppure quando i toccamenti riguardino parti corporee diverse da quelle genitali o dalle zone che la scienza medica, psicologica, antropologica, qualifica come zone erogene allorché, per cause indipendenti dalla propria volontà (pronta reazione della vittima o per altre ragioni), l'agente non riesca a toccare la parte corporea presa di mira.

E' stato pertanto ritenuto integrare la forma consumata e non tentata la condotta che si estrinsechi in toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime del corpo della vittima o su zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo incompleto, essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all'azione dell'aggressore o che quest'ultimo consegua la soddisfazione erotica (Sez. III, 15/03/2022, n.11624)

Cassazione penale sez. III, 15/03/2022, n.11624


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 13.5.2021 la Corte di Appello di Brescia ha integralmente confermato la pronuncia resa all'esito del primo grado di giudizio che ha condannato E.M. alla pena di sei anni e tre mesi di reclusione, ritenendolo responsabile di due episodi di violenza sessuale, l'uno nella forma consumata (capo 1) e l'altro tentata (capo 3) e di lesioni personali (capo 4) ai danni della stessa persona fisica, nonché del reato di tentata violenza sessuale ai danni di un'altra donna (capo 5).


2. Avverso il suddetto provvedimento l'imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..


2.1. Con il primo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 453 c.p.p., la riqualificazione del fatto di cui al capo A) dalla forma tentata nella forma consumata, rilevando come sulla originaria imputazione fosse stato lo stesso Pubblico Ministero ad aver richiesto il giudizio immediato e successivamente all'emissione del relativo decreto ad aver dapprima concordato la richiesta di patteggiamento con la difesa e solo all'esito del suo rigetto da parte del giudice, concernente peraltro solo l'entità del trattamento punitivo, ad aver richiesto, smentendo tutto il suo precedente operato, la condanna per la fattispecie consumata. Deduce pertanto che l'evidenza della prova si era formata sulla fattispecie tentata, senza che sul successivo mutamento della richiesta il difensore avesse avuto più modo di interloquire.


2.2. Con il secondo motivo lamenta l'erronea riqualificazione del fatto di cui al capo A) nella forma consumata, evidenziando come, avuto riguardo alle modalità della condotta, alle circostanze dell'azione stante il pronto intervento dei terzi che lo hanno allontanato dalla donna e al superficiale e fugace contatto con il corpo della vittima, la fattispecie fosse sussumibile nel tentativo.


2.3. Con il terzo motivo censura, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 609 bis c.p., u.c., il diniego della invocata attenuante avuto riguardo al minimo grado di coartazione, all'assenza di qualsiasi rapporto con la vittima che consentisse di spiegare altrimenti l'anomalia della condotta, all'assenza di danno psicologico attesa l'età avanzata della donna e il fatto che l'azione si fosse repentinamente interrotta per l'intervento di terzi.


2.4. Con il quarto motivo lamenta il diniego delle attenuanti generiche e la eccessiva severità del trattamento sanzionatorio senza che si fosse tenuto conto della completa confessione resa dall'imputato e della conseguente comprensione del disvalore delle sue condotte, delle sue problematiche legate al consumo di sostanze alcoliche e da un quadro sociale di assoluta marginalità, nonché della sua condizione di incensuratezza.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è manifestamente infondato.


Nessuna preclusione è ravvisabile in capo al PM in ordine alla diversa qualificazione del fatto contestato e ciò sia perché il fatto storico, ovverosia la condotta descritta nel capo di imputazione, comprensiva delle circostanze di luogo, di tempo e di persona, è rimasto identico nella sua materialità, sia perché l'esercizio del diritto potestativo da parte della difesa in ordine alla scelta del rito abbreviato fa si che il compendio probatorio valutabile sia quello già acquisito, ovverosia risultante dallo stato degli atti. Del tutto fuorviante risulta il richiamo operato dalla difesa all'evidenza probatoria che segna il limite dell'ammissibilità del giudizio immediato, binario dal quale con l'accoglimento della richiesta del rito abbreviato si era comunque già usciti, tenuto conto che proprio per effetto del procedimento prescelto e della mancata attivazione dei propri poteri ufficiosi da parte del giudice nessuna prova ulteriore è stata espletata. E ciò al di là del fatto che l'evidenza della prova che aveva originariamente determinato l'emissione del decreto di giudizio immediato, che comunque concerne la fondatezza dell'accusa e non già l'accertamento della responsabilità, era riferita al fatto nella sua accezione storico-naturalistica, onde deve alla radice essere esclusa la violazione del diritto di difesa la quale per poter essere ritenuta sussistente, deve aver comportato un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente determinato una novazione dei termini dell'addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono scaturiti.


Del resto, passando alla disamina del secondo motivo, è lo stesso fatto descritto nell'imputazione a configurare il delitto di violenza sessuale nella forma consumata. Il palpeggiamento del seno nel corso dell'aggressione fisica della donna ha comportato a tutti gli effetti il contatto non solo con il corpo della vittima ma altresì con una zona dichiaratamente erogena, rientrando perciò la condotta a pieno titolo nella fattispecie criminosa prevista dall'art. 609 bis c.p., che comprende, oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale di quest'ultimo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, indipendentemente dall'appagamento da parte dell'agente di un istinto libidinoso (cfr. sez. 3, n. 33464 del 15.6.2006, Beretta, rv. 234786; conf. sez. 3, n. 41096 del 18.10.2011, M., rv. 251316 che richiama i precedenti costituiti da sez. 3, n. 21336/2010; sez. 3 n. 39718/2009; sez. 3, n. 7772/2000).


Al fine della configurazione del reato di violenza sessuale è infatti sufficiente, muovendo dalla formulazione dell'art. 609-bis c.p., che fa riferimento al mero atto sessuale e dalla ratio incriminatrice volta a tutelare la autodeterminazione del soggetto relativamente alla propria sfera sessuale, il contatto corporeo con una zona erogena della vittima, non necessariamente coincidente con la zona genitale. A ciò consegue che il tentativo è ipotizzabile o quando allorquando manchi un contatto fisico tra l'autore del reato e la persona purché sia ravvisabile l'oggettiva idoneità della condotta a violare la libertà di autodeterminazione sessuale della vittima, oppure quando i toccamenti riguardino parti corporee diverse da quelle genitali o dalle zone che la scienza medica, psicologica, antropologica, qualifica come zone erogene allorché, per cause indipendenti dalla propria volontà (pronta reazione della vittima o per altre ragioni), l'agente non riesca a toccare la parte corporea presa di mira. E' stato pertanto ritenuto integrare la forma consumata e non tentata la condotta che si estrinsechi in toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime del corpo della vittima o su zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo incompleto, essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all'azione dell'aggressore o che quest'ultimo consegua la soddisfazione erotica (Sez. 3, n. 41096 del 18/10/2011 - dep. 11/11/2011, P.G. in proc. M., Rv. 25131601; Sez. 3, n. 4674 del 22/10/2014 - dep. 02/02/2015 - Rv. 262472).


Manifestamente infondata deve ritenersi perciò il dedotto vizio di violazione di legge, avendo al contrario i giudici di merito correttamente riqualificato il fatto, a fronte della compiuta profanazione della sfera sessuale della p.o., nella forma consumata, a nulla rilevando nella dinamica dell'azione delittuosa il successivo intervento di terzi in soccorso della vittima.


3. Ad analoga censura non si sottrae neanche il terzo motivo.


Non soltanto gli elementi valorizzati dalla difesa nel tentativo di sollecitare questa Corte ad un inammissibile rivalutazione del fatto si rivelano allegazioni del tutto generiche, prive come sono di riferimenti al caso concreto, ma viene in ogni caso tralasciato l'apprezzamento del fatto nella sua complessità su cui si incentra il diniego dell'invocata attenuante.


La Corte lombarda, nella coerente declinazione della consolidata interpretazione dell'art. 609 bis c.p., u.c., che impone di considerare tutte le caratteristiche oggettive e soggettive del fatto nella sua globalità che possano incidere in termini di minore lesività rispetto al bene giuridico tutelato, e dunque valutando la qualità dell'atto compiuto, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di quest'ultima, l'entità della compressione della libertà sessuale ed il danno arrecato anche in termini psichici, ha ritenuto, oltre ad aver richiamato la pronuncia del primo giudice che aveva già evidenziato in relazione all'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 5), la particolare gravità della condotta posta in essere ai danni di una donna anziana, claudicante e trovatasi sola in una strada cittadina deserta, elementi ostativi all'applicabilità dell'attenuante sia le condizioni di vulnerabilità fisica della donna, quasi novantenne, a fronte della brutalità dell'aggressione che ne aveva visto la rovinosa caduta in terra dopo essere stata sollevata in aria, sia il grave turbamento arrecatole, sia l'intensità del dolo, desunto anche dall'apprezzabile lasso temporale dell'azione delittuosa ripresa fortuitamente da una telecamera posizionata nei pressi, senza che peraltro la difesa si confronti con alcuno di tali fattori.


4. L'ultimo motivo di ricorso - con cui si censurano il vizio di motivazione e la violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione della pena al di sopra del minimo edittale - è inammissibile, afferendo ad un profilo della rejudicanda riservato al discrezionale apprezzamento del giudice di merito. La Corte d'appello ha correttamente evidenziato le ragioni del diniego del riconoscimento delle circostanze ex art. 62 bis c.p. e del computo della pena consistenti, quanto al primo addendo, nel grave squilibrio dell'imputato, incapace di contenere le sue pulsioni sessuali, come dimostra la sequenza ravvicinata delle plurime azioni delittuose in contestazione ai danni di vittime addirittura casuali, aggredite in pieno giorno e concentratesi quanto alla prima vittima su una donna condizioni di particolare vulnerabilità, e quanto alla determinazione della pena nella capacità a delinquere mostrata dall'uomo in tali frangenti. Così argomentando, i giudici del gravame hanno correttamente applicato il principio secondo cui la concessione delle circostanze attenuanti generiche non impone che siano esaminati tutti i parametri di cui all'art. 133 c.p., essendo sufficiente che si specifichi a quale di esso si sia inteso fare riferimento, restando tutti gli altri disattesi (ex plurimis, Sez. 5., n. 43952 del 13/04/2017).


Con riferimento invece al trattamento sanzionatorio, occorre rilevare che allorquando la pena si assesti, come nel caso di specie, ampiamente al di sotto della media edittale non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice del merito, reputandosi a tal sufficiente il solo richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 - dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283), essendo la stessa contenuta quantificazione ad evidenziare un corretto esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice di merito, frutto di una valutazione globale in rapporto alla complessiva considerazione del fatto ed alla personalità dell'imputato. Ciò vale, "a fortiori", per il giudice d'appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante, non è tenuto a un'analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che faccia emergere la sua valutazione in punto di adeguatezza della pena concretamente inflitta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo, senza che la relativa sia censurabile in sede di legittimità all'infuori del caso in cui la motivazione resa risulti manifestamente illogica o frutto di arbitrio. (ex multis Sez. 2, n. 53266 del 23/11/2017). Doglianza questa che la difesa neppure prospetta.


Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile, seguendo a tale esito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata come in dispositivo.


PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.


In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.


Così deciso in Roma, il 15 marzo 2022.


Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2022



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