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L’imputazione “chiusa” impone l’applicazione della legge più favorevole se non è provata la permanenza dell’associazione oltre la data indicata (Cass. pen. n. 38752/25)

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Premessa

La sentenza n. 38752/2024 della Seconda Sezione penale della Cassazione affronta una questione di diritto penale sostanziale di grande rilievo sistematico: l’individuazione del “tempus commissi delicti” nei reati associativi di stampo mafioso ex art. 416-bis c.p., ai fini dell’applicazione della lex mitior, in presenza di un'imputazione formulata in forma "chiusa". L’ordinanza di rinvio parziale si inserisce nel solco di un dibattito giurisprudenziale delicato, che concerne il rapporto tra contestazione, prova del fatto e principio di legalità in materia penale.


1. Il fatto processuale

Nel procedimento de quo, numerosi imputati erano stati condannati per partecipazione ad associazione mafiosa (clan "omissis"), con reati satellite variamente connessi, tra cui estorsione aggravata, detenzione di armi, narcotraffico e fittizia intestazione di beni. Le condanne, confermate in gran parte in appello, sono state impugnate per molteplici motivi, tra cui – per quanto qui rileva – la doglianza relativa alla determinazione del trattamento sanzionatorio, in ragione della modifica peggiorativa della pena per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., introdotta con la L. n. 69/2015 (in vigore dal 14 giugno 2015).

Il capo d’imputazione contestava in modo “chiuso” la permanenza del vincolo associativo fino al 2016. Tuttavia, né il capo di imputazione né le motivazioni delle sentenze di merito offrivano elementi istruttori idonei a dimostrare l’operatività dell’associazione dopo aprile 2015, né a chiarire le ragioni della scelta della data terminale indicata.


2. La decisione della Cassazione

La Corte di cassazione accoglie parzialmente i ricorsi, limitatamente al profilo del trattamento sanzionatorio, annullando la sentenza impugnata per i ricorrenti Al.Al., An.Al., Ba.Fe., Ca.An. e Di.Ci. L’annullamento è fondato su un principio di diritto ben articolato: «Nel caso di imputazione formulata in forma “chiusa” (ovvero con indicazione di un termine finale di consumazione del reato associativo), la pubblica accusa è tenuta a dedurre e, almeno in via logica, a provare che l’associazione abbia continuato ad operare sino alla data indicata nel capo d’imputazione; in difetto, deve applicarsi il trattamento sanzionatorio vigente al momento dell’ultimo episodio provato o comunque collocato nel tempo».

In particolare, la Corte evidenzia che il reato associativo non può essere considerato “permanente” fino ad libitum, salvo che non si dimostri che il sodalizio criminoso ha continuato ad esistere e ad essere operativo oltre la data di entrata in vigore della legge più sfavorevole.


3. Principio di legalità e “offerta permanente di contributo”

La sentenza valorizza una distinzione concettuale rilevante:

  • se il capo di imputazione è “aperto”, l’accusa può beneficiare della presunzione secondo cui l’“offerta permanente di contributo” da parte dell’affiliato si prolunga sino a prova contraria (recesso volontario, esclusione, contrapposizione interna, ecc.);

  • se, invece, l’imputazione è “chiusa”, l’onere probatorio si ribalta sull’accusa, la quale deve giustificare la scelta del termine finale (es. 2016) ed offrire elementi a supporto della perdurante operatività del sodalizio.

In assenza di episodi dimostrati successivi all’aprile 2015, come nel caso di specie, la Corte esclude la possibilità di applicare la cornice edittale aggravata della L. n. 69/2015, ritenendo fondata la censura difensiva sull’applicazione della lex mitior.


4. Rilievo sistematico e prospettive

La pronuncia si inserisce in modo coerente nella giurisprudenza successiva alla sentenza Sez. II, n. 22646/2024, Calcagno, che aveva già segnalato l’esigenza di non abusare dell’automatismo fondato sull’“offerta permanente di contributo”, specie nei casi in cui l’imputazione sia delimitata temporalmente.

Il richiamo alla struttura dell’imputazione come vincolo ermeneutico per l’applicazione della norma più favorevole rappresenta un importante presidio del principio di legalità sostanziale (art. 25, comma 2, Cost.), nonché del canone convenzionale di cui all’art. 7 CEDU.


5. Esiti decisori

La sentenza è stata annullata in parte qua nei confronti di cinque imputati (Al.Al., An.Al., Ba.Fe., Ca.An. e Di.Ci.) limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio. È stato disposto il rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli. È stato invece dichiarato inammissibile il ricorso di Di.Gi., mentre per Gu.Fr. l’annullamento ha riguardato il solo aumento per la continuazione.


6. Principio di diritto

«In presenza di una contestazione del reato associativo di tipo mafioso formulata in forma “chiusa”, l’onere di dimostrare la permanenza della condotta criminosa oltre la data indicata nel capo di imputazione grava sull’accusa; in difetto, non può applicarsi il trattamento sanzionatorio previsto da una legge entrata in vigore successivamente, dovendo trovare applicazione la norma più favorevole».


La sentenza integrale

Cassazione penale sez. II, 11/06/2024, (ud. 11/06/2024, dep. 22/10/2024), n.38752



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta da:

Dott. VERGA Giovanna - Presidente

Dott. IMPERIALI Luciano - Consigliere

Dott. AIELLI Lucia - Consigliere

Dott. COSCIONI Giuseppe - Relatore

Dott. PERROTTI Massimo - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi

proposti da:

Al.Al. nato a N il (Omissis)

An.Al. nato a N il (Omissis)

Ba.Fe. nato a N il (Omissis)

Ca.An. nato a N il (Omissis)

Di.Ci. nato a N il (Omissis)

Di.Gi. nato a N il (Omissis)

Gu.Fr. nato a N il (Omissis)

avverso la sentenza del 16/06/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE COSCIONI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LIDIA GIORGIO

che ha concluso chiedendo l'inammissibilità di ricorsi proposti

nell'interesse di Di.Gi. e Gu.Fr. e il rigetto dei ricorsi proposti

nell'interesse di Al.Al., An.Al., Ba.Fe., Ca.An. e Di.Ci.;

udito l'Avv. BEATRICE SALEGNA, difensore di Al.Al., che ha insistito nei

motivi di ricorso e della memoria depositata;

udito l'Avv. MASSIMO AMORIELLO, difensore di An.Al., il quale ha insistito

per l'annullamento della sentenza impugnata;

udito l'Avv. MAURIZIO FORTE, difensore di Ba.Fe., il quale ha insistito per

l'accoglimento del ricorso;

Udito gli Avv. NUNZIO LIMITE e MAURO VALENTINO, difensori di Ca.An., i quali

hanno insistito per l'accoglimento dei ricorsi;

Udito gli Avv. ALFREDO GAITO e FRANCO MORETTI, difensori di Di.Ci., i quali

hanno insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso e della memoria

depositata;

Udito l'Avv. GIOVANNI CARLINO, in sostituzione dell'Avv. LUIGI BONETTI,

difensore di Di.Gi., che si è riportato ai motivi di ricorso;

udito l'Avv. GIOVANNI CARLINO, difensore di Gu.Fr., che ha insistito per

l'accoglimento dei motivi del ricorso e della memoria depositata;


RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 16 giugno 2023, rideterminava la pena alla quale era stato condannato An.Al. in anni venti di reclusione, riconosciuta la continuazione con i fatti di cui alla sentenza della Corte di appello di Napoli del 29 settembre 2011, riduceva la pena inflitta nei confronti di Ba.Fe. ad anni tredici e mesi sei di reclusione, previa concessione delle attenuanti generiche riconosciute equivalenti alle contestate aggravanti, escludeva le aggravanti di cui all'art. 629 commi 1 e 2 cod. pen, nei confronti di Gu.Fr. e confermava la sentenza di primo grado nei confronti di Al.Al., Ca.An., Di.Ci. e Di.Gi.


1.1 Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il difensore di Al.Al., condannato quale partecipe dell'associazione di tipo mafioso denominata "clan (Omissis)" per i seguenti motivi:


mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in quanto il materiale indiziario agli atti non poteva ritenersi sufficiente a supportare l'ipotesi accusatoria: in particolare, non risultavano riscontrate le intercettazioni, così come non era stata provata in alcun modo la qualità criminale del ricorrente, la condotta illecita era stata descritta in modo generico (anche in considerazione della mancanza di reati fine), non era dato conoscere la data di ingresso di Al.Al. nell'associazione e vi era mancata correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza emessa; Al.Al., secondo l'accusa, era alle dipendenze della Di.Ro. e di Bo.Sa., ma non risultava mai coinvolto in fatti o atti insieme a questi ultimi ed i testi nulla avevano riferito in proposito; l'unico teste che aveva fatto riferimento ad Al.Al. era il maresciallo Ve., che aveva relazionato solo in merito alle conversazioni intercettate.


Il difensore rileva che in appello era stata mossa una gravissima censura alla sentenza di primo grado nella parte in cui assumeva (pag. 219) che grazie all'allegazione della sentenza in merito alla vicenda A.M. Parking era stata sostanzialmente acclarata la tipologia mafiosa del lavoro di Al.Al.; tale assunto non rispondeva al vero, in quanto dalla semplice lettura della sentenza citata risultava essere stata esclusa l'aggravante mafiosa; nessuna risposta sul punto aveva fornito la Corte di appello, che aveva inoltre utilizzato il contenuto captativo in maniera concisa e confusa; in particolare, lo stesso Ve. aveva chiarito che non aveva mai usato il termine "mesata" con riferimento ad Al.Al.; quanto alla questione dei 600 Euro che Bo.Vi. non avrebbe consegnato a Di.Ro., in cui sarebbe stato coinvolto Al.Al., dalla conversazione n. 2339 del 10 novembre 2012, ore 18.52 si evinceva chiaramente l'assenza fisica di Al.Al. e che la condotta era stata posta in essere a sua insaputa, e la riprova si aveva dal contenuto della intercettazione n. 2331 del 10 novembre 2012 ore 18.06 e dalle dichiarazioni di Ve. in sede di controesame;


1.2 mancanza e manifesta illogicità della motivazione anche in tema di riscontri ai profili attinenti la figura dei collaboratori di giustizia e motivazione apparente: le dichiarazioni di Es.Do. non avevano ottenuto alcun preliminare vaglio di credibilità, ed Es.Do. non aveva mai militato né reso dichiarazioni a carico del c.d. "clan (Omissis)", essendo inserito nel clan (Omissis), per cui il difensore non aveva prestato il consenso all'acquisizione dei verbali di interrogatorio resi dal collaboratore innanzi al Pubblico Ministero, chiedendo che si procedesse ad esame e controesame dibattimentale; vi era quindi stata violazione di legge, in quanto il Tribunale aveva affermato che vi era stato il consenso della difesa alla utilizzazione dei contenuti dell'interrogatorio; la Corte di appello aveva evidenziato che in sede di esame e controesame il collaboratore aveva espressamente richiamato quanto già dichiarato in precedenza, omettendo di motivare in diritto sull'utilizzo integrale nella motivazione della sentenza di primo grado dei verbali acquisiti senza il consenso della difesa; inoltre Es.Do. non aveva mai operato una collocazione esatta dei fatti nel tempo, aveva fatto riferimento al collaboratore Ar.Da., che invece non aveva mai riferito nulla su Al.Al., rendendo propalazioni insensate ed incredibili e con dichiarazioni non riscontrate da quelle del collaboratore De.Te.; anche quest'ultimo aveva reso dichiarazioni che non confermavano il capo di accusa, contraddicendosi più volte e facendo confusione a causa di omonimie; del resto De.Gi., parte di De.Te., non aveva mai parlato di Al.Al., così come nessun altro collaboratore;


1.3 impugna l'ordinanza emessa il 20 gennaio 2023 dalla Corte di appello in riferimento alla impugnazione dell'ordinanza emessa dal Tribunale il 21 ottobre 2021 a seguito di richieste ex art. 507 cod. proc. pen. e conseguente rinnovazione dibattimentale; era stata chiesta l'escussione dei teste To.An., indispensabile per accertare il contesto lavorativo di Al.Al. e per acquisire elementi necessari per valutare l'attendibilità del collaboratore di giustizia Es.Do., richiesta su cui il Tribunale non aveva dato alcuna risposta e che, riproposta in appello, era stata rigettata senza motivazione;


1.4 violazione di legge in relazione all'individuazione del tempus commissi delicti ed all'applicazione del principio del favor rei in tema di trattamento sanzionatorio;


1.5 inosservanza della legge in merito all'esclusione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis commi 4 e 6 cod. pen., visto che non era riscontrabile in sentenza alcuna motivazione circa l'accertamento del profilo soggettivo.


Il difensore presentava poi motivi nuovi con i quali eccepiva:


1.6 violazione di legge in relazione all'individuazione del tempus commissi delicti ed all'applicazione del principio del favor rei in tema di trattamento sanzionatorio; il procedimento a carico di Al.Al. era il medesimo di cui alle ulteriori posizioni processuali di altri coimputati, che avevano scelto di definire il processo con rito abbreviato, nei riguardi dei quali era stata emessa da questa Corte la sentenza n. 49341/23, che aveva accolto il motivo relativo alla medesima questione.


2. Propone ricorso il difensore di An.Al., condannato quale partecipe dell'associazione di tipo mafioso denominata "clan (Omissis)" per i seguenti motivi:


2.1 erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 416-bis cod. pen., nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alla medesima fattispecie: la Corte di appello non si era confrontata con le problematiche sollevate dalla difesa circa la possibilità di ritenere il prevenuto intraneo alla consorteria criminale di cui al capo 1), tanto da pervenire ad una sintesi, alquanto scarna, della pronuncia di primo grado: il collegio giudicante aveva fatto riferimento a due episodi estorsivi, quello al Bar Rosa, oggetto anche del presente procedimento, e quello narrato da Es.Ma., dimostrando di non tenere in alcuna considerazione non solo quanto emergeva dai verbali di dibattimento, ma nemmeno delle allegazioni difensive, ossia la sentenza del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Napoli del 25 febbraio 2022, che aveva assolto An.Al. per l'episodio estorsivo raccontato da Es.Ma.; il difensore rileva inoltre che le dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia acquisite al fascicolo erano tutte antecedenti ai fatti contestati e si collocavano in epoca molto distante rispetto alla contestazione; per quanto riguardava l'estorsione al Bar Rosa, la Corte di appello, pur avendo riconosciuto che l'istruttoria non aveva consentito di provare l'avvenuta perpetrazione della richiesta estorsiva, assumeva che le indagini esperite avevano accertato la presenza dell'imputato nell'occasione dell'alterco avvenuto presso il suddetto esercizio commerciale, obliterando le dichiarazioni del teste Vi.; né poteva assumersi quel ruolo pregnante riconosciuto prima dal Tribunale e poi dalla Corte di appello sulla base di alcune conversazioni intercorse tra Mu., noto esponente del clan (Omissis), e la moglie di An.Al. (Am.Ro.), riferite dal teste Be., ma non trascritte, in cui si sarebbe rilevata la dazione di denaro e di alcuni viveri destinati da Mu. ad An.Al. tramite la consorte: sul punto aveva evidenziato che An.Al. era stato tratto in arresto in data 7 marzo 2013, per cui tale collegamento si sarebbe dovuto esplicitare sia in epoca antecedente a quanto asserito dal teste Be., sia successivamente a quanto riportato nell'annotazione di servizio acquisita agli atti, ovvero dopo aprile 2014; tale considerazione prendeva le mosse anche dalla circostanza che Mu. era stato arrestato nel marzo 2016 per violazione dell'art. 74 D.P.R. n. 309/90 aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen. che, vista la tipologia di contestazione ed il contesto territoriale dell'attività di spaccio, appariva in contrasto con il ruolo attribuito ad An.Al.;


2.2 erronea applicazione dell'art. 2 comma 4 cod. pen. relativamente alla permanenza del reato ed all'applicazione della nuova disciplina sanzionatoria prevista dalla legge 27.05.2015 n. 69: la Corte di appello aveva affermato che era onere delle difese provare che la condotta non si era protratta per tutto il periodo contestato, e non aveva considerato che An.Al. era stato arrestato nel marzo 2013, tanto che al momento del provvedimento cautelare relativo al presente procedimento era ancora ristretto presso il carcere di Spoleto, per cui aveva patito uno stabile isolamento dal gruppo in forza della detenzione; inoltre, gli stessi propalanti avevano collocato un suo inserimento nella associazione negli anni 90 e non era stata fornita la prova della permanenza di un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita ed alla organizzazione del gruppo stesso; non appariva quindi condivisibile l'applicazione del trattamento sanzionatorio introdotto con legge n. 69/2015.


3. Propone ricorso il difensore di Ba.Fe., condannato quale partecipe dell'associazione di tipo mafioso denominata "clan (Omissis)" e per i reati di cui al capo 67 (artt. 61-bis, 110,453 e 416-bis 1 cod. pen.) e 71 (artt. 110 cod. pen., 10 e 14 L. n. 497/74, 416-bis 1 cod. pen.) per i seguenti motivi:


3.1 violazione dell'art. 438 cod. proc. pen. in relazione al punto in cui si respingeva la questione relativa alla impugnazione dell'ordinanza del Tribunale di Napoli dell'8 settembre 2020, con la quale era stata rigettata la richiesta di ammissione al giudizio abbreviato condizionato alla escussione del teste Sa.Fa., ovvero del deposito delle investigazioni difensive con le quali quest'ultimo era stato assunto a sommarie informazioni testimoniali, nonché dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 28 maggio 2020 con la quale era stata rigettata medesima istanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato; rileva l'omessa motivazione in punto di rigetto relativamente alla richiesta di ammissione a giudizio abbreviato condizionato e lamenta l'assenza di motivazione in punto della sentenza della Corte di appello che aveva rigettato la richiesta di applicazione della riduzione premiale; premette che l'architrave portante dell'ipotesi di accusa era costituito anche dalla disponibilità di Ba.Fe. a fornire il piazzale per il ricovero dei mezzi con all'interno la sostanza stupefacente per conto del clan (Omissis), e Sa.Fa., che aveva disponibilità di locali nella stessa zona dove c'era il deposito di Ba.Fe., avrebbe potuto chiarire che il deposito e la persona cui si riferivano Ai.An. e Gr. in una conversazione intercettato non erano né di Ba.Fe., né Ba.Fe.;


3.2 errata dosimetria della pena e violazione dell'art. 587 cod. proc. pen. nel punto in cui fissava la pena base in misura superiore a quella del primo grado: il Tribunale aveva fatto riferimento al minimo edittale previsto, mentre la Corte di appello si era discostata dal suddetto minimo alla luce della risalenza della affiliazione, malgrado il Tribunale avesse parlato di condotte poste in essere in un arco di tempo limitato, e di poliedricità del contributo, che doveva essere compreso nella riconducibilità al contesto associativo; nessuna motivazione vi era poi sull'aumento per continuazione con i reati contestati ai capi 67) e 71), identico per tutte e due le fattispecie malgrado la differenza delle pene previste per gli stessi (da tre a dodici anni per il reato sub 67, da uno a otto anni per il reato sub 71)


3.3 violazione degli art. 2 comma 4 cod. pen. e 416-bis cod. pen. e l'illogicità della motivazione in relazione al tempus commissi delicti: la condotta contestata a Ba.Fe. sub 67) era circoscritta dal novembre 2013 al gennaio 2014, quella sub 71) il 9 ottobre 2014, e Ba.Fe. era stato arrestato nel 2015, data in cui sicuramente doveva ritenersi cessata la condotta, e la Corte di appello aveva posto un onere probatorio a carico dell'imputato relativo al fatto che la condotta criminosa si fosse protratta anche dopo la modifica normativa; non vi era un solo indizio che consentisse di affermare che Ba.Fe. avesse dato un contributo al sodalizio dopo l'autunno del 2014;


3.4 violazione di legge in relazione alla confisca allargata ex art. 240-bis cod. pen., omessa motivazione in punto di acquisizione temporale dei beni, violazione del criterio di ragionevolezza temporale: per i beni acquisiti negli anni 2005-2006, la presunzione di provenienza illecita dei beni non poteva che essere relativa, in quanto trovava un limite nel dato temporale, e a Ba.Fe. era stato riconosciuto l'ingresso nel contesto associativo a partire dal settembre 2013, per cui non poteva certo essere disposta la confisca per beni acquistati ben 7-8 anni prima della commissione del reato; inoltre, l'immobile nella titolarità formale della moglie di Ba.Fe. era stato acquistato dalla stessa in data 24 ottobre 2005 e non risultava alcuna contestazione di intestazione fittizia; non era poi stata compiuta alcuna indagine patrimoniale esaustiva per dimostrare la sproporzione reddituale, soprattutto per quanto riguardava l'immobile acquistato nel 2013 a mezzo assegni bancari tratti sul conto corrente di Ba.Fe. (titolare di una attività di commercio), che consentivano di verificare e tracciare la provenienza del denaro;


3.5 insussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. relativa al reato di cui al capo 71), ritenuta provata dal solo possesso di un'arma in capo a Ba.Fe.; stessa censura veniva svolta in relazione al reato di cui al capo 67), laddove la spendita di monete false, se anche dimostrata, non poteva dirsi certamente commessa in favore del clan; quanto al primo aspetto, mai Ba.Fe. aveva affermato di avere utilizzato o di dover utilizzare l'arma per finalità legate all'associazione;


3.6 violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. con riferimento al reato di cui al capo 1) della rubrica e illogicità della motivazione in punto di riconoscimento della responsabilità in ordine alle condotte relative agli stupefacenti: si era già evidenziato in appello che il doppio ruolo ascritto a Ba.Fe. poteva far pensare ad un concorso esterno, e il collegio giudicante non aveva letto nella giusta ottica le dichiarazioni che Ba.Fe. aveva reso in ordine alla sua posizione di vittima di estorsione da parte di componenti del clan (Omissis), posizione di per sé incompatibile con quella di partecipe; la Corte di appello aveva anche ritenuto provato un fatto storico inesistente, cioè che Ba.Fe. fosse stato a casa di Ma.Fr.; il difensore passa poi in rassegna gli elementi probatori scrutinati e, in particolare: la sentenza della Corte di appello di Perugia, che aveva chiarito che i rapporti di Ba.Fe. con Cr. erano leciti e che non vi era alcuna attività che riguardasse l'importazione di stupefacenti dall'O; la sentenza del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Napoli nella quale si registrava l'assenza di un coinvolgimento di Ba.Fe. nel narcotraffico (nel quale vi erano le stesse intercettazioni del presente procedimento) e il tempus commissi delicti di quel processo, in cui era contestato un reato associativo finalizzato al narcotraffico, coincideva con lo stesso periodo in relazione al quale veniva contestata la partecipazione al sodalizio ex art. 416-bis cod. pen.; le dichiarazioni di De.Te., dalle quale non si rinveniva alcun accenno, se non generico, ad un eventuale coinvolgimento di Ba.Fe. nel settore della droga, comunque prive di riscontri esterni; le conversazioni ambientali intercettate, in merito alle quali non emergeva che il soprannome "o cecato" identificasse Ba.Fe. e che erano state travisate nella parte in cui non si era osservato che si parlava di un cancello che si apriva con il telecomando, mentre al locale di Ba.Fe. si accedeva tramite un cancello apribile a mani (come confermato anche da Sa.Fa., la cui testimonianza era oggetto di abbreviato condizionato).


Il difensore esamina poi la posizione della Corte di appello in relazione al passaggio in cui la stessa Corte aveva ritenuto non incidente la questione relativa alla associazione per il reato di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309/90 in concorso con i Cr. (asse portante della ipotesi accusatoria circa il ruolo di importatore) e la partecipazione di Ba.Fe. al clan (Omissis) con il ruolo di gestire i rapporti tra capi clan, rilevando l'assenza di una stabile messa a disposizione in favore di clan e di contatti assidui; inoltre, Ai.An., nel corso di una conversazione con Gr., aveva indicato i nomi di coloro che costituivano l'ossatura del sodalizio, e tra questi non vi era Ba.Fe.


4. Propone ricorso per cassazione l'Avv. NUNZIO LIMITE nell'interesse di Ca.An., condannato quale partecipe dell'associazione di tipo mafioso denominata "clan (Omissis)" per i seguenti motivi:


4.1 violazione di legge per contraddittorietà ed illogicità della motivazione per quanto attiene alla valutazione della prova, nonché assoluta mancanza di motivazione; il difensore rileva che le dichiarazioni dei collaboratori De.Te. e De.Gi. erano non solo contrastanti tra di loro, ma anche smentite da fatti processuali che non erano stati valutati ex art. 192 cod. proc. pen., derivanti da due provvedimenti giurisdizionali: la sentenza del 25 maggio 2022 emessa nei confronti di Co.Ed. e della moglie Ai.Ma., entrambi assolti dal reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. e l'archiviazione disposta il 25 gennaio 2021 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli nei riguardi dell'avv. Raffaele Chiummariello, provvedimenti non valutati dalla Corte di appello, che aveva motivato per relationem senza considerare che i due provvedimenti erano successivi alla sentenza di primo grado; il difensore lamenta inoltre che la motivazione della sentenza impugnata era affetta da illogicità e contraddittorietà anche per quanto concerneva l'altro ruolo che era stato addebitato al ricorrente, quello di esattore, visto che era stato travisato il contenuto della conversazione che Ca.An. aveva avuto con la compagna Fi.As.; illogica e contraddittoria era anche la valutazione che era stata fatta sulla conversazione intercettata il 15 aprile 2017.


4.2 violazione di legge in riferimento al tempus commissi delicti.


5. Propongono ricorso gli Avv. NUNZIO LIMITE e MAURO VALENTINO nell'interesse di Ca.An. per i seguenti motivi:


5.1 né nella sentenza di primo grado, né in quella di appello, vi era un solo passaggio dal quale evincere che Ca.An. svolgeva il ruolo di esattore: a Ca.An. veniva imputato di essere latore di messaggi tra esponenti di vertice del clan ed altri affiliati o che procedesse alla elargizione di stipendi; quanto al primo aspetto, Co.Ed. era stato assolto dal parallelo processo, non essendo emersa alcuna prova che inviasse messaggi verso l'esterno del carcere, analogamente a quanto accaduto per l'avv. Chiummariello, nei cui confronti era stato emesso provvedimento di archiviazione.


I difensori censurano inoltre un palese travisamento della prova, laddove si esaminavano le chiamate in correità di De.Te. e De.Gi., ritenendo che si ricontrassero vicendevolmente, quando invece vi era un contrasto insanabile tra le stesse e con le due pronunce sopra richiamate; tra l'altro De.Gi. aveva affermato di conoscere da anni il ricorrente, salvo poi non riconoscerlo in fotografia; relativamente poi al reperimento del denaro per le "mesate", dalla lettura della conversazione del 10 ottobre 2022 non emergeva che ci si rivolgesse a Ca.An. per reperire i soldi per l'avvocato, ma esattamente il contrario; parimenti laddove si analizzava la conversazione tra Ma.Fr. e la cognata Ai.Ma., dove non si parlava di una somma che doveva giungere alla donna, bensì destinata all'avvocato, con estromissione di Ca.An.; anche la vicenda relativa a tale Fi.Ma. era stata male interpretata, non essendo stato considerata la testimonianza di Fr.An.


Relativamente poi all'interfacciarsi Ca.An. con gli avvocati, i difensori rilevano che occorre chiedersi quale sia l'apporto che un soggetto reca al sodalizio criminoso se si interfaccia solo con alcuni avvocati per comprendere l'andamento dei processi di alcuni sodali;


5.2 nullità della sentenza in riferimento alla sussistenza del comma 6 dell'art. 416-bis cod. pen. per erronea applicazione delle norme sostanziali e procedurali e per non coerente motivazione;


5.3 nullità della sentenza in riferimento alla norma disciplinante le pene del delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. ante luglio 2015, considerato che l'ultima emergenza probatoria per Ca.An. era precedente al suddetto periodo;


5.4 nullità della sentenza in riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed alla pena irrogata in concreto.


6. Propongono ricorso i difensori di Di.Ci., condannato quale organizzatore e promotore dell'associazione di tipo mafioso denominata "clan (Omissis)" per il reato di cui al capo 1 (art. 416-bis commi 1,2,3,4,5,6 e 8 cod. pen.) per i seguenti motivi:


6.1 mancanza e manifesta illogicità della motivazione; inattendibilità intrinseca delle dichiarazioni rese da De.Gi. e De.Te., da Ov.Ma. e Lo.Ma. in ordine alla qualifica di Di.Ci. quale dirigente ed organizzatore del clan (Omissis); la motivazione con la quale erano state eluse le osservazioni difensive al riguardo era illogica, anche considerando che la sentenza di questa Corte n. 23890 del 2021 aveva correttamente osservato che "la figura di Di.Ci. ed il suo ruolo non fossero a tutti noti all'esterno della cerchia di soggetti che gravitavano più direttamente nel clan (Omissis)", mentre i due De.Gi. e De.Te., avevano più volte ribadito che Di.Ci. era ben conosciuto, nell'ambiente camorristico napoletano, quale capo indiscusso del clan (Omissis); inoltre, oggetto di dimostrazione era la permanente qualifica di organizzatore della compagnia camorristica di Di.Ci. tra il 2011 e il 2016, periodo in ordine al quale né De.Gi. (che non faceva più parte del clan (Omissis) dal 2010, essendosi trasferito ad U), né il figlio De.Te. (mai ritenuto partecipe) potevano sapere alcunché; era poi impossibile che Di.Ci., come riferito da De.Te., avesse concordato con Bo.Sa. e Ce.Gi. di compiere un attentato ai danni di De.Sa. nel 2011, visto che Ce.Gi. era stato detenuto presso la Casa di reclusione di Milano Opera dal 2007 al 2015.


Quanto alle dichiarazioni di Ov.Ma. e Lo.Ma., le stesse erano estremamente generiche, non avendo precisato il periodo della loro frequentazione con Di.Ci., né tanto meno il ruolo da questi ricoperto nel clan (Omissis); quanto al riscontro secondo cui Di.Ci. sarebbe stato investitore dei proventi illeciti conseguiti dalla nuova federazione "Alleanza di Secondigliano" dalla conversazione del 15 ottobre 2014 tra Es.Ga. e Ma.Fr., il capo di uno dei clan di cui il ricorrente avrebbe gestito il patrimonio, risultava che quest'ultimo non conosceva Di.Ci.


Relativamente all'estorsione ai danni dei fratelli Es., i difensori osservano che era stata ignorata la sentenza del Tribunale di Napoli da cui risultava che Ma.Sa., autore materiale dell'estorsione, non aveva avuto un rapporto diretto con l'imputato; relativamente alle minacce all'avvocato Sabbatini, era frutto di mera illazione che l'avvocato fosse stato minacciato da Di.Ci., tanto che nella lettera sequestrata presso l'abitazione di Pi.Ca. ed indirizzata a Di.Ci. non si coglieva alcun riferimento a pregresse minacce subite dal legale, che invece si rivolgeva al ricorrente confidando nella sua comprensione; inoltre, sulle utenze telefoniche di Sabbatini non era stato registrato neanche un colloquio con il ricorrente.


6.2 erronea applicazione degli artt. 416-bis cod. pen. e 5, comma 1 lett. c) I. n. 69/2015, nonché manifesta illogicità della motivazione in quanto: a) Di.Ci. era stato tratto in arresto il 1 ottobre 2014; b) il provvedimento di applicazione del regime detentivo previsto dall'art. 41-bis L. n.354/75 era stato revocato dal Tribunale di Roma, che aveva osservato "...non si evincono dopo il 2014 ulteriori contatti tra il Di.Ci. e gli appartenenti all'associazione criminale..."; con riferimento al periodo successivo al suo arresto dell'ottobre 2014, Di.Ci. era stato condannato per organizzazione e direzione di associazione mafiosa in assenza della minima motivazione che desse atto di della presenza di qualsiasi elemento di sospetto che potesse convalidare la mera ipotesi di una sua perdurante ingerenza negli affari del clan (Omissis); anche a voler dare per accertata la partecipazione del ricorrente, l'onere probatorio di dimostrare la permanenza del suo ruolo apicale non poteva essere eluso in base a presunzioni, come avevano fatto i giudici di merito.


I difensori presentavano motivi aggiunti con i quali allegavano la pagina 42 dell'informativa di reato del 6 febbraio 2017 e rilevavano:


6.3 la collusione emergente dalle dichiarazioni di De.Gi. e De.Te., risultante dalle intercettazioni in carcere tra De.Gi., la moglie ed il fratello De.Pi.;


6.4 l'importanza del certificato storico di detenzione di Bo.Pa. per smentire il narrato di De.Te. (in riferimento al primo motivo di ricorso);


6.5 il travisamento di una circostanza decisiva oggetto di deduzione difensiva, relativamente al tema del possibile scambio di persona di cui poteva essere stato vittima il ricorrente, in quanto il Di.Ci. delegato a investire le risorse del clan non era il ricorrente, ma Di.An., zio e fratello di chi aveva nascosto il capo di quel clan il cui denaro, in ipotesi accusatoria, andava reinvestito;


6.6 erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla questione dell'applicabilità del più severo regime sanzionatorio, risolta da questa Corte con l'accoglimento del motivo di ricorso proposto dai coimputati che avevano scelto il rito abbreviato; visti i contrasti esistenti sul tema, si chiedeva di rimettere la questione alle Sezioni Unite, nel caso non si ritenesse di aderire al principio applicato dalla Prima sezione di questa Corte.


7. Propone ricorso il difensore di Di.Gi., condannato per il reato di cui al capo 69 (artt. 81,110,628 comma 1 e 3 n. 1 cod. pen.) per i seguenti motivi:


7.1 premesso che a Di.Gi. non era addebitato alcun contributo materiale nella esecuzione della rapina contestata, ma soltanto di aver noleggiato un furgone sul quale sarebbe stato trasportato il ciclomotore attraverso il quale sarebbe stata commessa la rapina, e che la Corte di appello aveva respinto le censure difensive relative al fatto che i rapinatori si erano avvicinati a piedi alla vittima affermando che non si poteva escludere che gli stessi avessero utilizzato i ciclomotori per spostarsi in un territorio lontano a quello di provenienza, la motivazione era manifestamente illogica, visto che aveva ignorato la deposizione del teste Ma., che aveva affermato un dato contrario a quello congetturato dalla Corte di appello; la Corte aveva individuato nella condotta del Di.Gi. un contributo causale del tutto inesistente nella rapina, commessa in un territorio dove egli non si era mai recato e in assenza dei mezzi che lo stesso avrebbe fornito;


7.2 violazione dell'art. 62-bis cod. pen.: nell'atto di appello si era evidenziato il ruolo minoritario svolto dell'imputato, ma la Corte di appello aveva motivato in via generica sulla gravità dei fatti contestati.


7.3 inosservanza o erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riferimento agli artt. 133 cod, pen. e 27 Cost., osservando che non erano stati tenuti in alcuna considerazione i criteri oggettivi e soggettivi indicati dalle disposizioni richiamate.


8. Propone ricorso il difensore di Gu.Fr., condannato per il reato di cui al capo 75 (artt. 110, 81 cpv., 629, 416-bis 1 cod. pen.) per i seguenti motivi:


8.1 vizio di motivazione per omessa valutazione della prova dichiarativa consistente nella deposizione del dott. Co.Ar. in relazione alla questione afferente il luogo di consumazione delle condotte del reato di cui al capo 75): in particolare dalle conversazioni intercettate e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Or. ed Es.Do. aventi ad oggetto l'attività di Me.Sa. si era appurato che costui era responsabile di estorsioni commesse in danno dei commercianti ambulanti di Borgo (Omissis) e le intercettazioni azionate sull'utenza in uso a Me.Sa., che vedevano lo stesso colloquiare con Gu.Fr. per le vicende del mercato, unitamente alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Ar.Da. rappresentavano la base probatoria che fondava la statuizione di responsabilità del ricorrente; nell'atto di appello si era rilevato che Gu.Fr. operava come rappresentante degli ambulanti nel mercato di piazza (Omissis), area mercatale diversa da quella di Borgo (Omissis), per cui il ragionamento della Corte di appello era errato, visto che il teste Co.Ar. aveva chiarito che i mercati di piazza (Omissis) e quello di borgo (Omissis) erano diversi;


8.2 vizio di motivazione con riferimento alla omessa valutazione di prove decisive in ordine alla attendibilità del collaboratore di giustizia Ar.Da., nonché omessa valutazione di prove decisive e la manifesta illogicità della sentenza in ordine ai criteri inferenziali utilizzati con riferimento alle intercettazioni telefoniche: la sentenza impugnata aveva affermato che i testi della difesa non avevano smentito le dichiarazioni del collaboratore Ar.Da., quando invece le circostanze narrate dagli stessi erano inconciliabili con quanto detto da Ar.Da., il quale aveva anche aggiunto di aver saputo alcune circostanze da Fr.Sa., che negava di averle mai riferite ad Ar.Da.


Quanto alle intercettazioni telefoniche, la Corte di appello non aveva risposto alle censure della difesa relative alla interpretazione delle conversazioni e del loro contenuto;


8.3 erronea applicazione dell'art. 629 cod. pen. e dell'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. contestata nelle forme del metodo e della agevolazione mafiosa, visto che in nessuna della conversazioni richiamate nelle sentenze vi erano minacce, esplicite o implicite, né riferimenti espliciti o in forma larvata al sodalizio denominato clan (Omissis); inoltre, la Corte di appello aveva ritenuto che la sentenza di primo grado avesse escluso le aggravanti di cui ai numeri 1 e 3 dell'art. 628 cod. pen., esclusione che incideva in maniera diretta sulla tenuta logica della sentenza, in relazione alla suddetta aggravante, visto che le aggravanti originariamente contestate postulavano la presenza di più persone, e in particolare di uno dei soggetti appartenenti ad un sodalizio mafioso (Me.Sa.), per cui da una parte di sosteneva che la presenza di Me.Sa. era atta a radicare il metodo mafioso, mentre dall'altra si escludeva proprio la specifica aggravante che fondava l'assunto; quanto al profilo della agevolazione, la sentenza affermava apoditticamente che i soggetti condividevano fini e modalità dell'associazione.


8.4 erronea applicazione dell'art. 81 cod. pen., visto che non vi era motivazione sulla continuazione interna applicata, non precisando quale episodio aveva portato all'aumento di pena.


Il difensore presentava memoria nella quale rilevava che:


8.5 le deposizioni dei testimoni Mo.Pi., Co.Ar. e Fr.Sa. erano inconciliabili con il narrato di Ar.Da.;


8.6 la Corte di appello non aveva risposto alle doglianze relative alla valutazione della prova avente ad oggetto le intercettazioni telefoniche e i criteri adottati per l'interpretazione delle stesse;


8.7 la motivazione della Corte di appello era contraddittoria relativamente all'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. sotto il profilo sia del metodo mafioso che dell'agevolazione mafiosa.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO


1.Preliminarmente, si deve affrontare il tema relativo alla disciplina applicabile.


Come noto, la legge 27 maggio 2015 n. 69 entrata in vigore il 14 giugno 2015, ha disposto un inasprimento delle pene per quanto riguarda il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., contestato ad Al.Al., An.Al., Ca.An., Di.Ci. e Ba.Fe.; sul punto, si deve premettere che questa Sezione ha più volte affermato che "in presenza di una contestazione del delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso in forma "chiusa", che abbracci un lungo arco temporale nel corso del quale sia intervenuta una modifica "in peius" del trattamento sanzionatorio (nella specie, la legge 27 maggio 2015, n. 69), l'applicazione della nuova cornice sanzionatoria non richiede la dimostrazione, da parte dell'accusa, che la condotta si sia protratta anche dopo detta modifica, in quanto, accertata l'esistenza dell' offerta di contribuzione permanente" dell'affiliato all'associazione, questa deve ritenersi valida e produttiva di effetti fino alla dimostrazione del recesso spontaneo o provocato "ab externo" (Sez. 2, n. 1688 del 26/10/2021, dep. 17/01/2022, Giampà, Rv. 282516 - 03); è stato anche precisato che "in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo non esclude la permanenza della partecipazione al sodalizio, che viene meno solo in caso di cessazione della consorteria criminale ovvero nelle ipotesi, positivamente acclarate, di recesso o esclusione del singolo associato. (In motivazione la Corte ha precisato che la rescissione del legame può essere desunta, a titolo meramente esemplificativo, da un lungo periodo di detenzione in assenza di contatti con la consorteria, dal trasferimento in luogo distante da quello della sua operatività, o da una contrapposizione interna al sodalizio seguita dall'allontanamento di uno dei sodali, elementi in relazione ai quali grava sull'interessato un mero onere di allegazione e che non devono essere contrastati da altri significativi dati di segno contrario)" (Sez.6, n. 1162 del 14/10/2021, dep. 13/01/2022, Di Matteo, Rv. 282661 - 02); ciò presuppone, però, che si sia data comunque la prova, da parte della pubblica accusa, dell'esistenza dell'associazione fino alla data indicata nel capo di imputazione; in altri termini, giacché è l'esistenza stessa dell'ente, composto da soggetti che offrono il proprio contributo al perseguimento dei fini sociali, che pone in pericolo l'ordine pubblico, è necessario che la pubblica accusa quanto meno deduca che l'associazione permaneva dopo l'entrata in vigore della nuova normativa (vedi, sul punto, Sez.2, n. 22646 del 10/05/2024, Calcagno e altri).


Nel caso in esame, la pubblica accusa ha scelto di formulare una imputazione cd. "chiusa", indicando nel capo di imputazione "per tutti con condotta perdurante a tutto il 2016"; tale scelta porta quindi a ritenere che dopo il 2016 l'associazione non fosse più operante (posto che altrimenti la contestazione avrebbe dovuto essere effettuata in forma "aperta" con permanenza del reato fino alla sentenza di primo grado), il che può avvenire per i più svariati motivi, quale cessazione per sopravvenuta carcerazione degli affiliati o creazione di una nuova associazione.


In altri termini, una volta effettuata una contestazione "chiusa", seppure si possa ritenere che l'offerta di partecipazione dell'affiliato duri fino a che l'associazione esista, deve essere precisato da parte dell'accusa il criterio in base al quale si è ritenuto di fissare una determinata data quale termine finale del commesso reato -potendosi altrimenti indicare date sganciate da qualsiasi accadimento (perché un anno anziché un altro?) in maniera del tutto arbitraria- e se l'associazione in questione abbia o meno continuato ad operare dopo la data indicata nel capo di imputazione.


Ciò premesso, nel caso in esame non si evince né dal capo di imputazione, né dalle sentenze di merito per quale motivo sia stato indicato il 2016 quale data finale di commissione del reato, visto che non è riportato alcun episodio successivo ad aprile 2015, e quindi non si è neppure a conoscenza del perdurare dell'associazione dopo l'ultimo episodio indicato; sono pertanto fondate le eccezioni dei difensori secondo cui non vi è adeguata motivazione da parte della Corte di appello sulle ragioni che impedivano di applicare ai ricorrenti il trattamento sanzionatorio antecedente alla novella del 2015, posto che la Corte di appello si è limitata ad affermare che nessun onere probatorio gravava sull'accusa; la sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alla determinazione della pena relativamente ai ricorrenti Al.Al., An.Al., Ba.Fe. Ca.An. e Di.Ci., con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto.


Si passa ora ad esaminare le rimanenti doglianze dei singoli ricorsi.


1.1 Ricorso nell'interesse di Al.Al.: il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, posto che la Corte di appello ha richiamato gli elementi già evidenziati dal giudice di primo grado, e il ricorso è meramente reiterativo di quanto già eccepito nell'atto di appello; a tale proposito si deve ribadire che secondo il consolidato e condivisibile orientamento di legittimità è inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con l'aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti. Si è, infatti, esattamente osservato che la funzione tipica dell'impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta (vedi Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521).


In particolare, la condotta di Al.Al. è stata delineata sia nel capo di imputazione che con riferimento a singoli episodi contestati, per cui Al.Al. è stato posto in grado di difendersi da quanto a lui contestato (si vedano in particolare, pagg. 217 in avanti della sentenza di primo grado, in cui sono evidenziate le singole intercettazioni e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia riguardanti il ricorrente, e le pagine da 13 a 18 della sentenza della Corte di appello); a tale proposito, si deve ribadire che in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (cfr. Cass., sez. un., 19/06/1996, n.16, Di Francesco).


La Corte di appello ha evidenziato l'esito dell'attività di captazione dei colloqui in carcere di Bo.Sa., da cui emergeva il ruolo di Al.Al. quale tramite per la diffusione all'esterno dei messaggi mandati dal carcere (pag. 13), il suo coinvolgimento nel recupero della somma da Ca.Vi. quale corrispettivo per la sua assunzione presso un garage riferibile a Bo.Sa. (AM Prking, pag.14), il suo intervento nella vicenda relativa all'ammanco di una "mesata") (pag.14), lo stipendio per le attività svolte (pag. 14), le dichiarazioni di Es.Do. e De.Te.


1.2 Quanto alla attendibilità dei collaboratori di giustizia ed alle dichiarazioni del ricorrente, la Corte di appello ha motivato su entrambi i profili (pag.15 e 16); analogamente, sulla richiesta di rinnovazione dibattimentale, la Corte di appello ha risposto con la motivazione contenuta a pag. 18, segnalando l'assoluta inconferenza del tema di prova proposto, rimandando all'ordinanza del 20 gennaio 2023.


Come già rilevato, già la sentenza di primo grado aveva evidenziato le intercettazioni che tratteggiavano la figura di Al.Al. (pag. 217 e seguenti della sentenza di primo grado), a partire da quella del 10 ottobre 2022 in cui Al.Al. viene designato da Bo.Sa., detenuto, quale soggetto che doveva far uscire dal carcere le "imbasciate", per proseguire con l'sms che aveva inviato Di.Ro. ad Al.Al., allora fidanzato della figlia di Bo.Sa. e della Di.Ro., con l'intercettazione ambientale in cui veniva spiegato ad Al.Al. come avrebbe dovuto recuperare i soldi da Ca.Vi. per l'assunzione nella AM Parking (confermata anche dalla conversazione intercettata il 20 novembre 2012) e con quelle relative al recupero dei 600 Euro mancanti dalla "mesata" e del 12 dicembre 2021, da cui risulta che Al.Al. era "stipendiato dal clan; quanto alla conversazione riportata a pag. 224 della sentenza di primo grado, il motivo di ricorso è inammissibile, posto che in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (vedi Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea e altri, Rv. 268389); pertanto, le dichiarazioni di De.Te. ed Es.Do. relative all'inserimento di Al.Al. nel clan (Omissis) sono state ampiamente riscontrate, non solo dalle intercettazioni sopra richiamate, ma anche dai controlli sul territorio nel corso dei quali Al.Al. era con alcuni noti componenti del clan (pag. 223 sentenza primo grado).


Anche a voler ammettere un travisamento della prova relativamente alla intercettazione sopra richiamata ed al fatto che le dichiarazioni del collaboratore Es.Do. siano state acquisite senza il consenso della difesa, si deve rilevare come le suddette eccezioni non superino comunque la cd. "prova di resistenza"; infatti, secondo l'orientamento di questa Corte allorché con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l'espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452); l'applicazione del suddetto principio al caso in esame comporta proprio l'inammissibilità del primo motivo di ricorso posto che la prova di cui il ricorrente lamenta l'inutilizzabilità non ha avuto incidenza determinante nel giudizio di colpevolezza affermato concordemente dai giudici di merito sulla base dei numerosi elementi di prova a carico del ricorrente sopra richiamati.


1.3 Manifestamente infondato, infine, è il quinto motivo di ricorso relativo alla sussistenza delle aggravanti, in merito al quale (fermo restando che la disponibilità di armi e gli interessi in attività economiche del clan (Omissis) sono già state ritenute sussistenti dalla sentenza n. 23890/21 di questa Corte) la Corte di appello ha osservato (come per gli altri appellanti che hanno proposto il medesimo motivo): per quanto riguarda l'aggravante di cui all'art. 416-bis comma 4 cod. pen., che lo stretto legame di Al.Al. con uno degli esponenti di vertice del clan (Bo.Sa.) e la natura degli incarichi che gli venivano affidati, tra cui quello recupero crediti in relazione ai quali l'uso delle armi è piuttosto comune, rendevano Al.Al. consapevole della disponibilità di armi in capo al clan (Omissis) di cui faceva parte; quanto all'aggravante di cui all'art. 416-bis comma 6 cod. pen., che visto l'intervento di Al.Al. in questioni strettamente connesse alle attività commerciali riferibili a Bo.Sa., non poteva ritenersi all'oscuro degli investimenti del clan; inoltre, la su tale ultimo aspetto, si deve rilevare che il motivo di appello relativo alle aggravanti contestate era estremamente generico, in quanto si limitava a riportare massime giurisprudenziali, per cui nessun onere di motivazione aveva la Corte di appello sul punto.


1.4 Fondato è, invece il motivo di ricorso relativo alla individuazione del tempus commissi delicti, di cui si è già detto in precedente, per cui la sentenza deve essere annullata limitatamente alla determinazione della pena.


2. Il ricorso proposto nell'interesse di An.Al. è fondato soltanto relativamente alla disciplina applicabile.


2.1 Quanto al primo motivo di ricorso, la Corte di appello ha ritenuto che la l'affiliazione di An.Al. al clan sia stata dimostrata dall'episodio estorsivo in cui è stato coinvolto (pag. 19, An.Al. è stato riconosciuto dal teste di Polizia giudiziaria Ch.) e che An.Al. era stato riconosciuto quale responsabile della zona V-A per la gestione degli stupefacenti non solo da Es.Ma., ma anche da Fi.Gi., Ri.Fa., Di.Nu., La.Ge., Gi.Ra., Ga.Ra., Gi.Gu. e Ri.Fa., Lo.Sa. ed Es.Ca. (si vedano le dichiarazioni degli stessi, riportate alle pagg. 240 e 241 della sentenza di primo grado); la Corte di appello ha inoltre rilevato che la suddetta circostanza era corroborata dalla sentenza, passata in giudicato, con la quale An.Al. è stato condannato per violazione dell'art. 74 D.P.R. n. 309/90 aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen., in cui era stata accertata la sua appartenenza al clan (Omissis) e il suo ruolo di capozona del rione V-A, argomento quest'ultimo con il quale il ricorso non si confronta affatto; i motivi di ricorso non superano, pertanto, la ed. prova di resistenza.


Peraltro, con riferimento all'episodio del Bar Rosa, anche se il ricorrente non è stato condannato per estorsione (si rileva che il titolare del bar, malgrado il figlio fosse stato picchiato, aveva comunque riferito di avere avuto richieste somme di denaro), lo stesso non ha fornito alcuna spiegazione alternativa alla sua presenza in occasione di quella che gli inquirenti avevano ritenuto essere non una rissa, ma un episodio di estorsione, per cui corrette sono state le valutazioni dei giudici di merito che hanno ritenuto essere prova della partecipazione del ricorrente al clan (Omissis).


2.2 Fondato il secondo motivo di ricorso relativo al tempus commissi delicti, per quanto si è già precisato.


3. Il ricorso di Ba.Fe. è fondato soltanto limitatamente alla eccezione sulla disciplina applicabile, essendo infondato nel resto.


3.1 Relativamente al primo motivo, deve essere ribadito che, in tema di giudizio abbreviato, la prova sollecitata dall'imputato con la richiesta condizionata di accesso al rito, che deve essere integrativa e non sostitutiva rispetto al materiale già raccolto ed utilizzabile, può considerarsi "necessaria" allorquando risulti indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico-valutativo per la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della regiudicanda (SU, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229173). Peraltro, ai fini dell'ammissione al giudizio abbreviato condizionato, la necessità dell'integrazione probatoria presuppone, da un lato, l'incompletezza di un'informazione probatoria in atti, insussistente nel caso concreto, e, dall'altro, una prognosi di oggettiva e sicura utilità, o idoneità, del probabile risultato dell'attività istruttoria richiesta ad assicurare il completo accertamento dei fatti del giudizio (Sez. 5, n. 600 del 14/11/2013, V., Rv. 258676).


Per tali ragioni, il giudice dibattimentale che debba sindacare il provvedimento di rigetto, deve operare una valutazione "ex ante", di verifica della ricorrenza dei requisiti di novità e la decisività della prova richiesta dall'imputato alla luce della situazione esistente al momento della valutazione negativa, tenendo tuttavia conto, come criterio ausiliario, e di per sé non risolutivo, anche delle indicazioni sopravvenute dall'istruttoria: la mancanza, constatata ex ante, dei requisiti dell'incompletezza dell'informazione probatoria in atti ovvero della necessità e decisività anche di una sola delle prove ulteriori richieste dall'imputato per la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della "regiudicanda", giustifica il rigetto dell'istanza.


Né può essere considerata meritevole di accoglimento la censura secondo la quale il giudice di appello avrebbe dovuto comunque procedere "alla riduzione premiale della pena illegittimamente inflitta" (pag. 11 ricorso), posto che non risulta che il teste Sa.Fa. sia stato citato in dibattimento, con la conseguenza che nessuna valutazione avrebbe potuto fare la Corte in ordine all'importanza della sua audizione; si veda la già citata Sez. U. n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229173 - 01, che in motivazione ha chiarito che può parlarsi di violazione dei criteri legali di quantificazione della pena solo quando la preclusione del rito sia dipesa dall'erronea deliberazione del giudice, e non dall'inerzia del soggetto cui la legge rimette in via esclusiva la possibilità di attivare il procedimento speciale, cosicché, nel caso in cui l'imputato non rinnova "in limine litis" una richiesta già respinta dal giudice preliminare, non può farsi più questione della eventuale erroneità del provvedimento reiettivo.


Alla stregua di quanto precede, le doglianze articolate sul punto dal ricorrente debbono ritenersi aspecifiche, in quanto non si confrontano con la parte della motivazione della sentenza nella quale si sottolinea l'irrilevanza di sentire come teste Sa.Fa., sia alla luce della motivazione sul coinvolgimento di Ba.Fe. nel traffico di stupefacenti (che faceva ritenere che avesse offerto il suo locale per ricoverare un camion di sostanza stupefacente), sia perché non vi era certezza sulla esatta ubicazione del deposito.


3.2 Il secondo motivo di ricorso è infondato: il giudice di primo grado, nel condannare Ba.Fe. ad una pena contenuta nel minimo edittale, aveva espressamente motivato tale decisione "tenuto conto dell'aumento già previsto dalla circostanza speciale di cui all'art. 416-bis comma VI c.p."(pag.303 sentenza primo grado); pertanto, una volta concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, il giudice di appello era libero di determinare la pena base senza attenersi al minimo edittale, avendo comunque fissato la pena finale in misura inferiore a quella del giudice di primo grado (sul punto si veda Sez.U., 33752 del 18/04/2013, dep. 02/08/2013, Papola, Rv. 255660 - 01: "Il giudice di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante o riconosciuto un'ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall'imputato, può, senza incorrere nel divieto di "reformatio in peius", confermare la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purché questo sia accompagnato da adeguata motivazione.") ed avendo motivato adeguatamente sulla misura della pena (pag.38 sentenza della Corte di appello).


3.3 Fondato è il terzo motivo di ricorso relativo alla disciplina applicabile, per quanto sopra precisato; il motivo relativo ai diversi aumenti per la continuazione con i due ulteriori reati contestati deve ritenersi assorbito.


3.4 Manifestamente infondato è il quarto motivo di ricorso: è vero che la presunzione di illegittima acquisizione da parte dell'imputato deve essere circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, dovendosi dar conto che i beni non siano "ictu oculi" estranei al reato perché acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua commissione, ma la Corte di appello ha rilevato che la risalenza del rapporto criminale di Ba.Fe. con gli Ai.An. risultava sia dal tenore delle conversazioni intercettate che dall'affermazione dello stesso Ba.Fe. che la sua famiglia era alle dipendenze degli Ai. da oltre trenta anni, così giustificando il principio di ragionevolezza temporale sopra richiamato.


Irrilevante è poi il fatto che l'acquisto dell'immobile in data 24.10.2005 sia stato effettuato dalla moglie di Ba.Fe., posto che è stata accertata la sproporzione tra i redditi e le spese necessarie per le comuni esigenze di vita quotidiana non del solo Ba.Fe., ma dell'intero nucleo familiare; né appare rilevate che l'acquisto del 2013 sia avvenuto con assegni, e quindi con modalità che consentivano di verificare la tracciabilità e la provenienza del denaro, posto che semmai si doveva fornire proprio la prova della provenienza del denaro confluito poi negli assegni.


3.5 Manifestamente infondata è anche la censura sulla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. relativa ai reati di cui ai capi 67 e 71; quanto al primo, la Corte di appello ha rilevato che il reato di spendita di monete false è stata svolta in concorso con altri associati, quanto al secondo, si deve rilevare che la sentenza di primo grado ha osservato che nella conversazione n. 17167 delle ore 16.59 del 9 ottobre 2014 Ba.Fe. aveva confessato di aver detenuto e portato fuori dalla propria abitazione un'arma (non vi è contestazione nel ricorso sul punto) "utilizzata al fine di consentirgli di svolgere al meglio i compiti che gli venivano delegati" (pag. 257 sentenza primo grado) con una deduzione del tutto logica, considerato che Ba.Fe. non ha fornito alcuna spiegazione alternativa del perché fosse in possesso di un'arma, che quindi non poteva che servire per agevolare l'associazione di cui faceva parte.


3.6 Relativamente al sesto motivo di ricorso, si deve rilevare che la sentenza di appello ha confermato quella di primo grado, e il motivo pretende di fornire una ricostruzione alternativa rispetto a quella dei giudici di merito, senza considerare che nel caso in esame si è di fronte ad una c.d. "doppia conforme" e cioè doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado; il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. "doppia conforme", superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 19/10/2009, Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/6/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/1/2007, Medina, Rv 236130; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432).


Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al Tribunale e, dopo aver preso atto delle censure dell'appellante, è giunto, con riguardo alla sua posizione, alla medesima conclusione della sentenza di primo grado evidenziando, in particolare, il non contestato accompagnamento di To. e Di.Gi. da Ma.Fr., con l'ammissione da parte dello stesso ricorrente di essere "consapevole di aver partecipato a dei summit di camorra" (così nell'interrogatorio del 17 giugno 2020 prodotto dal difensore), il che è sufficiente per ritenere Ba.Fe. partecipe dell'associazione, non vedendosi a quale altro titolo si potrebbe ascrivere la suddetta partecipazione; la Corte di appello ha anche ritenuto "poco incidente" l'esito del giudizio di revisione in relazione alla vicenda Cr. e l'esistenza di un contributo nella vicenda del motorino di illecita provenienza che To. doveva fornire a Di.Gi.; quanto alla questione del cancello che secondo la difesa si aprirebbe solo con il telecomando, trattasi di questione di fatto non esaminabile nella presente sede e quanto alla assoluzione di Ba.Fe. dal reato di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309/90, la Corte di appello ha valutato, con un giudizio qui non sindacabile, che se anche le condotte di Ba.Fe. non erano idonee ad integrare la suddetta fattispecie di reato, delineavano comunque il ruolo di Ba.Fe. all'interno del clan.


4. Il ricorso proposto dall'Avv. Limite nei confronti di Ca.An. è fondato soltanto relativamente alla disciplina applicabile.


4.1 II primo motivo di ricorso non si confronta assolutamente con la parte della motivazione della sentenza nella quale si fa riferimento al colloquio in carcere nel quale Bo.Sa. dava indicazioni alla moglie di mettersi in contatto con Ca.An. affinchè recuperasse i soldi da corrispondere al difensore di fiducia ed alle ulteriori conversazioni elencate alle pagine 40 e 41, che delineavano il ruolo di Ca.An. come persona incaricata dal sodalizio di assicurare il flusso di informazioni tra gli esponenti del clan detenuti e quelli in stato di libertà e di distribuire la paga settimanale ai membri del clan, come descritto dai collaboratori di giustizia.


4.2 Fondato è il secondo motivo di ricorso relativo al tempus commissi delicti, per quanto si è già precisato.


5 II ricorso proposto dagli avvocati NUNZIO LIMITE e MAURO VALENTINO fondato soltanto relativamente al terzo motivo proposto.


5.1 II primo motivo di ricorso è analogo al primo motivo del ricorso precedente; quanto alla contraddizione tra le dichiarazioni di De.Te. e De.Gi., si deve rilevare che l'eccezione sul punto è generica, non essendo stato precisato in quale parte delle dichiarazioni sussisterebbe il contrasto; viene poi contestata l'interpretazione di conversazioni, operazione non consentita nella presente sede.


5.2 Il motivo relativo alla erronea applicazione del comma 6 dell'art. 416-bis cod. pen. è inammissibile, posto che, a parte l'estrema genericità dello stesso, non era stato sollevato negli atti di appello, essendo noto che non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione, ad eccezione di quelle rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio e di quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza (Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745): possono comunque essere richiamate le considerazioni già svolte al punto 1.3 precedente.


5.3 Quanto all'ultimo motivo di ricorso, si deve rilevare che in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, è proprio la suindicata meritevolezza che necessita, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (così, ex plurimis, Sez. 1, Sentenza n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986 - 01); nel caso in esame, il motivo di ricorso non indica alcun elemento per il quale sarebbe meritevole del beneficio, con conseguente manifesta infondatezza del motivo.


6. Il ricorso di Di.Ci. è fondato soltanto relativamente al motivo relativo alla disciplina applicabile.


6.1 Quanto al primo motivo di ricorso, si deve rilevare che "In tema di valutazione delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia già esaminato in altro procedimento, il giudice, pur non essendo vincolato dalle valutazioni positive espresse in precedenti sentenze irrevocabili, deve, comunque, tenerne conto fornendo una puntuale motivazione ove intenda discostarsi dal precedente giudizio" (Sez.2, n. 13604 del 28/10/2020, PG/Torcasio Rv. 281127 - 04).


Relativamente alla eccezione sulle discrasie tra le dichiarazioni dei De Rosa nel precedente processo e quelle successive, si deve rilevare che tale discrasia non sussista, alla luce delle affermazioni di De.Te. riportate a pag. 49 della sentenza impugnata: "Il signor Di.Ci. non è stato un personaggio, fino ad un certo punto è stato una persone di profilo basso e nessuno lo conosceva..."; non sussiste pertanto alcuna discrasia tra le dichiarazioni precedenti e quelle del presente giudizio, posto che dalle stesse si evince che la "notorietà" di Di.Ci. è emersa in un periodo successivo alle prime dichiarazioni; si deve comunque rilevare che in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di prove, estrapolati dal complessivo contenuto dell'atto processuale, come avvenuto nel caso in esame, in cui si riportano singole dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sganciate dal contesto complessivo.


Il fatto che Ov.Ma. e Lo.Ma. abbiano reso dichiarazioni generiche è affermato anche dalla Corte di appello, ma la pronuncia di condanna si basa su altri elementi, tra i quali le intercettazioni a casa Ma.Fr. citate a pag. 270 della sentenza di primo grado, in cui si parla di investimenti fatti da Di.Ci., e le minacce all'avvocato Sabbatini, di cui si dirà in seguito.


È poi irrilevante la circostanza, nella vicenda della estorsione ai danni dei fratelli Es., che Ma.Sa. non abbia avuto contatti con Di.Ci., visto che l'elemento che è stato valorizzato è l'incontro tra Di.Ci., Es.Et. e At.Vi., nel corso del quale era stato stabilito che i fratelli Es. non avrebbero dovuto pagare la somma di 16.000,00 Euro chiesta da Ma.Sa., ma solo un quota mensile (pag. 59 sentenza impugnata); la sentenza di primo grado (pag. 271) aveva anche sottolineato l'intercettazione relativa all'incontro tra Di.Ci. e Es.Ga.


Quanto alla vicenda dell'avv. Sabbatini, già la sentenza di primo grado aveva evidenziato che il legale temeva Di.Ci. proprio per la sua caratura criminale: si vedano la lettera inviata da Sabbatini a Di.Ci. dove il primo si scusa per non avere investito i soldi e la conversazione n. 5623 del 6 aprile 2014, richiamata a pag. 273 ("...gli mando gli amici di Pi.Ca., gli mando Di.Ci. e tutti quanti, gli mando i camorristi più fetenti di Napoli..."


Si deve infine ribadire che "L'inammissibilità di un motivo del ricorso principale cui si colleghi un motivo aggiunto, idoneo, in astratto, a colmarne i difetti, travolge quest'ultimo, non potendo essere tardivamente sanato il vizio radicale dell'impugnazione originaria; e ciò vale anche nel caso in cui il ricorso non sia integralmente inammissibile perché contenente altri motivi immuni da vizi" (Sez. 5, n. 8439 del 24/01/2020), L., Rv. 278387; sono pertanto inammissibili i motivi elencati da 6.3 a 6.5


6.2 Fondato è il motivo relativo alla disciplina applicabile, per quanto si è già detto.


7. Il ricorso di Di.Gi. deve essere dichiarato inammissibile.


7.1 Quanto al primo motivo di ricorso, non è contestato che Di.Gi. fosse in contatto con Lo. e Ci., autori materiali della rapina, e che Lo. avesse incaricato Di.Gi. di noleggiare il furgone; la Corte di appello ha quindi evidenziato non il solo aspetto indicato in ricorso (e cioè che i ciclomotori trasportati sul furgone potessero essere utilizzati per raggiungere il luogo della rapina), ma che Di.Gi. aveva noleggiato il furgone con il quale Lo. si era recato sul luogo degli eventi, con ciò fornendo un mezzo per la realizzazione della rapina; inoltre, la sentenza di primo grado aveva rilevato che Di.Gi. era stato arrestato pochi giorni dopo per una rapina commessa con le identiche modalità di quella contestata (pag. 280 sentenza primo grado).


Ciò premesso, si deve rilevare la natura meramente fattuale delle censure proposte, in quanto con esse il ricorrente propone una mera rivalutazione del compendio probatorio, non consentita in questa sede, stante la preclusione, per il giudice di legittimità, di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289).


7.2 Quanto al secondo motivo di ricorso, si deve ribadire quanto precisato a proposito dell'analogo motivo di ricorso proposto da Ca.An., posto che anche in questo caso il ricorrente non indica alcun motivo per il quale sarebbe meritevole del beneficio se non il minor ruolo organizzativo, in contrasto con la motivazione della Corte di appello, che ha sottolineato la predisposizione di uomini e mezzi per la realizzazione di una pluralità di azioni criminose, con motivazione congrua e coerente con le risultanze processuali.


7.3 Relativamente alla dosimetria della pena, è vero che l'irrogazione di una pena base pari o superiore al medio edittale richiede una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall'art. 133 cod. pen., ma l'onere motivazionale è stato adempiuto dal giudice di primo grado che ha evidenziato la trasgressiva personalità dell'imputato, gravato da quattro condanne per rapina, e la commissione di due rapine in poco meno di due settimane, aggravate dall'uso di un'arma e con elevate modalità organizzative (pag. 305 sentenza di primo grado), motivazione richiamata dalla Corte di appello per confermare la pena inflitta.


Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 3.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.


8. Il ricorso di Gu.Fr. è fondato limitatamente al motivo sulla omessa motivazione per quanto riguarda l'art. 81 cod. pen.


8.1 La confusione di cui si parla nel primo motivo di ricorso tra il mercato di Borgo (Omissis) e quello di Piazza (Omissis) è assolutamente irrilevante: la sentenza di primo grado aveva evidenziato che Gu.Fr. era intervenuto per dilazionare un pagamento (pag. 292), che Me.Sa. aveva contattato Gu.Fr. per informarlo che aveva consegnato ad un terzo il "foglio" sul quale erano riportate le somme che bisognava incassare, ricordandogli che doveva passare da un tale Vi. per recuperare i soldi (intercettazione del 16 dicembre 2013, riportata a pag. 294), che Gu.Fr. era il soggetto solitamente delegato a riscuotere i soldi presso gli ambulanti, che poi consegnava a Me.Sa. (soggetto che si occupava della gestione delle estorsioni alle varie bancarelle del mercato, pag. 294), oltre alle altre intercettazioni riportate a pag. 295, tutte indicative del ruolo di Gu.Fr. come "addetto alla riscossione", indipendentemente dalla zona in cui l'estorsione veniva operata; le intercettazioni costituivano quindi riscontro a quanto dichiarato dal collaboratore Ar.Da., che ha affermato di avere consegnato somme di denaro i soldi richiesti dal clan a Gu.Fr. (indicato in un primo tempo come Gu.Fr.), presentatosi come responsabile del mercato; tale argomentazioni sono state riprese anche dalla Corte di appello, con argomentazioni esenti da censure.


8.2 Quanto alla minaccia, a parte la precisazione contenuta a pag. 296 della sentenza impugnata secondo cui Ar.Da. aveva precisato che "le somme erano richieste a nome del gruppo criminale del "Omissis", non si vede quale altra giustificazione potesse esserci alla corresponsione di somme non dovute ad alcun titolo per poter occupare il mercato con le bancarelle; trattasi di un caso di estorsione ambientale, ove "per estorsione "ambientale" si intende quella particolare forma di estorsione, che viene perpetrata da soggetti notoriamente inseriti in pericolosi gruppi criminali che spadroneggiano in un determinato territorio e che è immediatamente percepita dagli abitanti di quella zona come concreta e di certa attuazione, stante la forza criminale dell'associazione di appartenenza del soggetto agente, quand'anche attuata con linguaggio e gesti criptici, a condizione che questi siano idonei ad incutere timore e a coartare la volontà della vittima" (Sez. 2, n. . 53652 del 10/12/2014, Buonasorta e altri, Rv. 261632).


Relativamente alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen., l'esclusione delle aggravanti di cui all'art. 628 comma 3 n. 1 e 3 cod. pen. è del tutto irrilevante, considerato che la prima richiede la simultanea presenza, nota alla vittima, di non meno di due persone nel luogo e al momento di realizzazione della violenza o della minaccia, in modo da potersi affermare che queste siano state poste in essere da parte di ciascuno degli agenti, ovvero che la mera presenza di uno dei complici all'esercizio della violenza o della minaccia possa essere interpretata alla stregua di un rafforzamento delle medesime, e che per la seconda si deve ribadire che "in tema di estorsione, l'aggravante, soggettiva, di cui all'art. 628, comma terzo, n. 3), cod. pen., può concorrere con quella, oggettiva, dell'utilizzo di metodo mafioso, di cui all'art. 416-bis 1, nel caso in cui il delitto sia commesso, con minaccia "silente", da soggetto appartenente ad associazione di tipo mafioso, posto che la prima circostanza è funzionale a sanzionare la maggiore pericolosità individuale dimostrata dall'associato che abbia consumato l'ulteriore delitto, mentre la seconda è volta a punire la maggior capacità intimidatoria di condotte realizzate attraverso l'evocazione della capacità criminale dell'associazione mafiosa, potendo essere agita anche da chi non è associato" (Sez.2, n. 15429 del 08/03/2024, Zagaria, Rv. 286280)


8.3 Il motivo sulla omessa motivazione relativamente all'applicazione dell'art. 81 cod. pen. è fondato.


La censura contenuta nell'atto di appello era specifica, posto che rilevava che "da tale vuoto si perviene all'applicazione di un anno di continuazione, senza tuttavia essere in grado di affermare quante estorsioni siano state commesse, a quali l'imputato abbia partecipato, quanto abbia eventualmente estorto, se la stessa condotta sia suscettibile o meno di ulteriori attenuanti, quale ad esempio l'art. 62 n. 4 c.p."; a fronte di tale censura, la Corte di appello si è limitata ad affermare la congruità della dosimetria della pena come adottata dal primo giudice, con una motivazione quindi mancante; la sentenza deve pertanto essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.


P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Gu.Fr. limitatamente all'aumento di pena per la continuazione e nei confronti di Al.Al., An.Al., Ba.Fe., Ca.An. e Di.Ci. limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio su detti punti.


Rigetta nel resto il ricorso di Ba.Fe. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi di Gu.Fr., Al.Al., An.Al., Ca.An. e Di.Ci.


Dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità nei confronti dei predetti.


Dichiara inammissibile il ricorso di Di.Gi. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.


Così deciso in Roma, il 11 giugno 2024.


Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2024.

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