RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Palermo riformava in parte la sentenza di primo grado, dichiarando l'intervenuta prescrizione del reato di induzione indebita di cui al capo G1), confermando la condanna per la restante imputazione formulata al capo F).
La Corte giungeva a tale conclusione rigettando l'appello degli odierni ricorrenti che, in punto di qualificazione giuridica del fatto, sostenevano l'inquadramento del reato nella fattispecie di corruzione, anziché in quella prevista dall'art. 319-quater c.p..
2. Avverso tale decisione, i ricorrenti R. e S. hanno proposto un motivo comune, con il quale - con sostanziale identità di argomenti - contestano la qualificazione del fatto in termini di induzione indebita, sottolineando come il rapporto con il privato - A.P. - si era svolto su base paritaria, nell'abito della quale non vi era stata alcuna forma di vessazione o di abuso della qualità, tale da indurlo alla dazione della somma di Euro 500. La vicenda, invero, vedeva proprio l' A. quale soggetto interessato ad evitare controlli sull'attività edificatoria in corso, ragion per cui offriva ai predetti appartenenti al Corpo forestale regionale una somma di denaro in cambio della loro accondiscendenza.
Entrambi i ricorrenti, inoltre, sottolineano come le intercettazioni acquisite dimostrerebbero l'assenza di qualsivoglia coartazione, come pure in tal senso andrebbe letta la circostanza che A., in occasione dell'incontro con gli imputati, aveva già con sé il denaro, a riprova della sua autonoma scelta di corrompere i predetti.
3. Nell'interesse di R. è stato formulato un secondo motivo di ricorso, con il quale lamenta l'omesso riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 323-bis c.p., avendo la Corte di appello immotivatamente escluso la rilevanza del contributo fornito dall'imputato, nonostante di ciò vi fosse ampia traccia già nella sentenza di primo grado.
Il giudice di prime cure, infatti, aveva ribadito che, fin dalle fasi iniziali delle indagini, R. aveva reso dichiarazioni auto e etero-accusatorie, fornendo anche elementi - relativi ai fatti avvenuti nel 2010 - rispetto ai quali non vi erano ulteriori elementi di prova.
Tale atteggiamento era proseguito nella fase dibattimentale, sicché risulterebbe viziata da illogicità il mancato riconoscimento dell'attenuante.
4. Il secondo motivo di ricorso formulato nell'interesse di S. è direttamente ricollegato a quello concernente la derubricazione del reato nell'ipotesi di corruzione. Si assume, infatti, che ove si addivenisse alla diversa qualificazione del fatto, le dichiarazioni rese da A. dovrebbero ritenersi inutilizzabili, in quanto rese dal privato corruttore e, quindi, da coimputato nel medesimo reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Prendendo le mosse dal motivo comune, concernente la dedotta erronea qualificazione giuridica del fatto, è opportuno richiamare sinteticamente l'elaborazione giurisprudenziale formatasi in relazione all'art. 319-quater c.p..
Fondamentali risultano le indicazioni contenute nella sentenza resa da Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep.2014, Maldera, Rv 258474, secondo cui il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l'extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l'accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l'incontro libero e consapevole della volontà delle parti.
Le difficoltà di differenziare le due fattispecie derivano dal fatto che la parcellizzazione delle condotte ha comportato l'introduzione del reato di induzione indebita che, pur essendo stato ritagliato con riferimento ad ipotesi in precedenza riconducibili alla concussione, è una fattispecie che orbita essenzialmente nel complesso latu sensu corruttivo, come desumibile dall'incriminazione anche del privato indotto. Ulteriore riprova di ciò è la stessa collocazione sistematica, non a caso infatti l'induzione indebita è stata aggiunta con l'introduzione dell'art. 319-quater c.p., subito dopo la figura "madre" della corruzione e non già quella della concussione.
Nel tentativo di dipanare i rapporti tra corruzione ed induzione indebita, le Sezioni unite hanno indicato nella connotazione del rapporto intersoggettivo tra il pubblico agente ed il privato il dato sulla base del quale operare il distinguo, nel senso che ove il privato denoti una soggezione psicologica nei confronti del primo si dovrà propendere per il reato di induzione indebita; qualora, invece, il rapporto sia di natura paritaria e difetti qualsiasi forma di abuso della qualità o dei poteri, si potrà configurare la corruzione.
Al contempo, la Corte ha anche chiarito che l'iniziativa del pubblico agente assurge a ruolo sintomatico del reato di induzione indebita, tuttavia, tale elemento non è di per sé determinante, potendo essere esclusivamente valorizzato sul piano probatorio ed in presenza di una condotta comunque caratterizzata dalla prevaricazione sul privato. In tal senso si veda di recente Sez.6, n. 52321 del 13/10/2016, Beccaro, Rv. 268520, che osserva come nell'enunciazione del principio di diritto, le Sezioni Unite "Maldera" non richiamano il profilo dell'iniziativa, mentre sottolineano l'esigenza della prevaricazione.
Ne discende che il reato di induzione indebita si differenzia dalla fattispecie corruttiva, in quanto l'art. 319-quater c.p. richiede una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea a indurre l'extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l'accordo corruttivo presuppone un incontro assolutamente libero delle volontà delle parti.
L'elemento che meglio consente di distinguere tra le due ipotesi di reato, pertanto, è ravvisabile nel fatto che nell'induzione indebita la spinta a dare o promettere non è ravvisabile nella libera scelta del privato che persegue un proprio interesse, bensì in una indotta esigenza di conseguire un vantaggio indebito, in un contesto di preminenza del pubblico agente, tant'e' che la condotta deve necessariamente essere frutto di un abuso della qualità o dei poteri di cui si prospetta l'utilizzo in danno dell'indotto.
Nella condotta corruttiva, invece, l'abuso della qualifica soggettiva si manifesta in modo diverso, in quanto l'esercizio della funzione si pone come connotazione di risultato, nel senso che costituisce il presupposto per consentire al privato di ottenere il risultato illecito voluto e non già come strumento di pressione.
2.1. Sulla base di tali premesse, peraltro ampiamente recepite ed esposte anche nella sentenza di appello, risulta agevole pervenire al giudizio di manifesta infondatezza della tesi difensiva volta a ricondurre la condotta degli imputati nell'ambito della corruzione.
Il quadro probatorio - così come ricostruito concordemente dalle sentenze di merito ed insuscettibile di rivalutazione in punto di fatto - descrive un contesto caratterizzato dall'abuso della funzione da parte dei pubblici agenti, consistita nel prospettare al privato l'esercizio dei poteri di controllo in ordine all'attività edilizia in corso di realizzazione, in modo tale da ostacolarne la prosecuzione.
Si rientra, pertanto, nella tipica ipotesi in cui il pubblico agente - a fronte di violazioni amministrative effettivamente esistenti - palesi, anche in maniera subdola ed indiretta, l'eventualità di omettere i dovuti controlli a fronte del pagamento di una somma di denaro.
E' innegabile che in tal caso il privato si propone il conseguimento di un vantaggio indebito, ma ciò non esclude che la genesi del rapporto è viziata dalla implicita costrizione a dare o promettere un'utilità, in mancanza della quale il privato ha la consapevolezza di non poter evitare un pregiudizio.
In tali ipotesi si è del tutto al di fuori della fattispecie della corruzione, proprio perché il privato non si pone in condizione di parità con il pubblico agente, bensì è indotto da questi ad una dazione che, in assenza della prospettazione delle conseguenze pregiudizievoli, egli non avrebbe avuto alcun interesse ad effettuare.
2.2. In definitiva, può affermarsi che la qualificazione giuridica del fatto è immune da censure ed insuscettibile di essere rivista sulla base della mera diversa lettura che i ricorrenti danno del materiale probatorio. Si tratta di prospettazioni alternative, peraltro fondate su una lettura parziale ed orientata delle prove non consentita in sede di legittimità.
3. Una volta ritenuta la manifesta infondatezza del motivo concernente la derubricazione del reato di induzione indebita in corruzione viene meno anche la fondatezza e la rilevanza del secondo motivo formulato nell'interesse di S., concernente l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da A..
4. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo formulato da R., in ordine al mancato riconoscimento dell'attenuante della collaborazione.
Il motivo è generico, nella misura in cui si risolve - come già evidenziato dalla Corte di appello - nell'elencazione degli apporti collaborativi forniti da R., ma non offre concreti elementi di valutazione in ordine alla rilevanza ed all'utilità processuale di tali condotte.
Sulla base di consolidati principi giurisprudenziali, elaborati con riferimento alle diverse ipotesi di collaborazione previste in riferimento a plurime fattispecie di reato, si ritiene che ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante, il colpevole deve fornire un contributo collaborativo significativo in relazione all'accertamento in corso di svolgimento, il che presuppone che i dati forniti siano nuovi, oggettivamente utili e costituiscano tutte le conoscenze a disposizione del dichiarante.
Nel caso di specie, la Corte di appello ha ritenuto che l'apparto collaborativo sia stato sostanzialmente privo di efficacia, sull'implicito presupposto che i fatti oggetto di confessione e di chiamata in correità erano stati già autonomamente accertati, il che fa venir meno il carattere della significatività e dell'utilità della collaborazione, con conseguente impossibilità di riconoscere il trattamento premiale.
5. Alla luce di tali considerazioni, i ricorsi proposti dagli imputati devono essere dichiarati inammissibili, il che preclude anche la dichiarazione di prescrizione del reato. Consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 28 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2023