È configurabile il concorso omissivo doloso nei reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali gravi, ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p., in capo al genitore che, pur in presenza di una posizione di garanzia, omette consapevolmente di impedire gli abusi commessi dal convivente ai danni dei figli minori, quando l’inazione risulti frutto di adesione psichica all’evento o di consapevole indifferenza rispetto ad esso.
Cassazione penale , sez. V , 11/04/2024 , n. 18832
La sentenza in commento rappresenta un intervento di particolare rilievo sul piano sistematico, poiché riafferma con rigore la configurabilità del concorso omissivo nei reati commissivi, laddove l’obbligo giuridico di impedire l’evento derivi da una posizione di garanzia radicata nella genitorialità. La Corte di cassazione, infatti, rigetta il ricorso presentato da una madre condannata per maltrattamenti e lesioni in danno delle figlie minori, non per aver agito, ma per non aver fatto nulla.
L'imputata, convivente con un uomo autore materiale di violenze gravi e sistematiche sulle figlie, è ritenuta responsabile, ex art. 40, comma 2, c.p., per avere omesso di attivarsi per impedire gli abusi, nonostante ne fosse pienamente consapevole e in posizione giuridica di garanzia.
Il convivente dell’imputata, estraneo al vincolo genitoriale, aveva commesso ripetute violenze fisiche e psichiche sulle tre bambine, culminate in un tentato omicidio e in una violenza sessuale ai danni della più piccola, di appena 22 mesi. La madre, pur avendo piena consapevolezza delle condotte, scelse consapevolmente l'inazione, motivata – secondo la difesa – da uno stato di soggezione e paura. Le dichiarazioni rese in sede istruttoria, tuttavia, ne smentivano l’estraneità, rivelando anzi una certa collusione passiva: la donna aveva più volte assistito agli abusi, acquistato pomate per lenire le ferite delle bambine, e addirittura fissato la data delle nozze con l’aguzzino.
L’art. 40, comma 2, c.p. sancisce un principio fondamentale della responsabilità penale per omissione: “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. Tale equiparazione tra omissione e azione, tuttavia, è subordinata alla sussistenza di una posizione di garanzia, fondata su un obbligo specifico di tutela del bene giuridico.
Nel caso di specie, la Corte ribadisce che la madre è titolare, per effetto dell’art. 147 c.c., di un dovere primario e inderogabile di protezione dell’integrità fisica e psichica del figlio. Questo obbligo si traduce in un potere-dovere impeditivo, concretamente esercitabile attraverso l’allontanamento del convivente, la denuncia, la richiesta di aiuto.
Il concorso omissivo doloso, secondo la giurisprudenza consolidata, si configura quando il garante:
conosce la situazione di pericolo (che, nel caso in esame, emergeva plasticamente dai segni fisici delle violenze);
è in grado di agire, ma omette deliberatamente di farlo;
accetta consapevolmente il verificarsi dell’evento, che rientra nella sua sfera di rappresentazione causale.
Il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) non richiede, secondo la Suprema Corte, un arco temporale esteso: anche condotte violente reiterate in un breve periodo (come nel caso in esame, circa due mesi) possono integrare l’abitualità, se connotate da una frequenza significativa e da una costante sopraffazione. Ciò è stato affermato in linea con precedenti arresti (Cass., sez. VI, n. 21087/2022), secondo cui la brevità della convivenza non esclude, in sé, il carattere sistematico della violenza.
La Corte sottolinea inoltre come l’imputata, pur dichiarando di temere il proprio compagno, non avesse mai seriamente tentato di proteggere le figlie, né di interrompere la convivenza, né tantomeno di rivolgersi alle autorità. Una inerzia strategica, più che una paralisi psichica: la donna mentì ai medici sull’origine delle lesioni per coprire il compagno e si premurò di tornare a casa, lasciando le altre figlie sole con l’aggressore.
La difesa aveva tentato di introdurre l’elemento della paura come causa di non imputabilità o, quanto meno, come fattore escludente il dolo omissivo. La Corte, tuttavia, respinge questa lettura: non ogni soggezione psicologica rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità, specie quando non si traduce in una concreta incapacità di agire.
Nel caso di specie, la Corte rileva che non vi erano ostacoli oggettivi all’interruzione della relazione, né alla messa in sicurezza delle figlie, stante l’assenza di un legame giuridico tra l’autore materiale e le minori. Il giudizio finale della Cassazione è netto: la madre, non solo poteva impedire, ma ha scelto di non farlo, e tale inerzia integra pienamente il dolo omissivo.
La sentenza n. 18832/2024 costituisce un esempio paradigmatico di come la giurisprudenza penale – pur rispettando la distinzione tra atti e omissioni – non arretra di fronte al silenzio colpevole, specie quando la vittima è incapace di difendersi, come nel caso dei minori.
In tal senso, la responsabilità omissiva del garante non è una fictio, ma una vera e propria forma di causalità giuridica, fondata sulla titolarità di un potere-dovere la cui inosservanza rende l’inerzia equiparabile all’azione. In gioco, ancora una volta, non è solo il diritto, ma la coscienza del giurista.