RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Roma confermava la condanna disposta in primo grado nei confronti di Ma.Ne. per il delitto di cui all'art. 374-bis cod. pen., per aver falsamente dichiarato in udienza, durante il giudizio di appello, allegando, per il tramite del proprio difensore, un falso certificato medico apparentemente rilasciato dalla casa di cura in data (Omissis), di essere impossibilitato a presenziare all'udienza in quanto ricoverato in una clinica per essere sottoposto ad intervento chirurgico, intervento mai effettuato essendosi l'imputato dimesso volontariamente dalla medesima casa di cura il giorno (Omissis).
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l'imputato, articolando, per il tramite del suo difensore, Avvocato Augusto Sinagra, due motivi.
2.1. Violazione dell'art. 178, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen.; abnormità dell'atto processuale impugnato.
Sebbene il ricorrente fosse stato chiamato a rispondere del reato di cui all'articolo 374-bis cod. pen. per la pretesa falsità della certificazione medica del (Omissis), rilasciata dalla clinica (Omissis), da entrambe le sentenze di merito emerge che è stato giudicato anche per il falso asseritamente provocato in relazione alla certificazione medica del prof. Lu.Ma. del (Omissis).
Le sentenze di merito parlano, infatti, di due certificati ben distinti in cui l'imputato avrebbe operato una falsa rappresentazione delle proprie condizioni di salute e che integrano due autonomi delitti, uno dei quali mai contestato.
La sussistenza del reato concorrente è emersa nel corso dell'istruzione dibattimentale, sicché il Pubblico Ministero avrebbe potuto provvedere a contestazione suppletiva, ma ciò non è accaduto.
Premesso che è abnorme l'atto che provochi una stasi irrimediabile - concetto ormai generalmente interpretato dalla giurisprudenza come situazione procedimentale che necessita, per ripristinare la corretta sequenza degli atti, del compimento di un atto nullo, e dunque inefficace - nel caso di specie, si tratterebbe comunque di atto abnorme perché compiuto contra legem e perché, seppure non abbia determinato una stasi irreversibile del procedimento, ex ante, ha insanabilmente compresso i diritti della difesa e, ex post, ha leso il primordiale diritto di libertà del cittadino.
In alternativa, non essendosi al cospetto di un difetto di correlazione tra accusa e sentenza, bensì dell'omesso esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero, l'atto sarebbe affetto da nullità assoluta (ar:. 178, lett. c, cod. proc. pen.), rilevabile anche d'ufficio.
Comunque, anche a voler ricondurre la violazione in oggetto all'art. 180 cod. proc. pen. (quindi, ad una nullità a regime intermedio), ciò condurrebbe egualmente alla cassazione della sentenza impugnata, avendo questa Corte (Sez. 2, n. 4339 del 06/11/1996, Arcidiacono, Rv. 206287) disposto che il giudice è tenuto non soltanto a trasmettere gli atti al pubblico ministero, ma anche a pronunciare sentenza con cui si dichiara la nullità di decisione della decisione di primo grado, per evitarne il passaggio in giudicato, e che l'omissione di tale pronuncia comporta l'annullamento della sentenza in sede di legittimità, che può essere disposto senza rinvio.
2.2. Vizio di motivazione e travisamento della prova in relazione alla falsa certificazione del (Omissis).
Al momento della certificazione, il ricorrente si trovava effettivamente ricoverato presso la clinica (Omissis) per essere sottoposto ad intervento chirurgico cistoscopico e laparoscopico addominale, con posizionamento di stent, prevedendosi un ricovero di tre giorni e successivo riposo assoluto per ulteriori 20 giorni.
Il fatto che parte di quanto previsto nella certificazione medica - ovvero il prolungarsi del ricovero per ulteriori tre giorni per l'effettuazione dell'intervento citoscopico e laparoscopico addominale - non si sia verificato non significa che, alla data in cui è stata rilasciata, la certificazione fosse falsa.
Ciò, a meno di pensare che l'imputato avesse concordato con i medici, che dunque dovrebbero risponderne, una falsa certificazione in termini di programmata attività chirurgica.
Difettano, quindi, i presupposti per ritenere la certificazione ideologicamente o materialmente falsa: semplicemente, essa divenne inefficace perché l'interessato scelse di soprassedere all'intervento chirurgico in quanto rivelatosi più impegnativo rispetto a quello programmato, dimettendosi dalla clinica, precisamente alle ore 22.00 (laddove la certificazione fu trasmessa all'allora difensore dell'imputato alle 10.38) del (Omissis).
Ciò, senza considerare che proprio in tale data il ricorrente venne sottoposto a colonscopia, intervento chirurgico realizzato anestesia generale, come confermato nella cartella clinica prodotta nel giudizio di primo grado, evidentemente non considerata né da quel giudice né da quello dell'appello.
Dalla medesima cartella si ricava, peraltro, l'assenza di falsità ideologica o materiale della seconda certificazione medica, quella del (Omissis), in relazione alla quale le prove raccolte in giudizio sono state all'evidenza travisate.
La motivazione della sentenza di appello aderisce pedissequamente a quella di primo grado ed è quindi viziata, già sotto questo profilo.
D'altronde, già in primo e poi in secondo grado si era rilevato che il ricorrente è affetto da una grave malattia neoplastica per cui è stato sottoposto, in un recente passato, a delicati interventi chirurgici ablatori, a trattamenti chemioterapici e radioterapici, nonché da affezioni renali che lo costringono attualmente a sottoporsi a dialisi quasi giornaliere. Di conseguenza, ove la sua intenzione fosse stata quella di ottenere un indebito rinvio dell'udienza, sarebbe stato per lui più semplice produrre certificazione attestante uno stato febbrile, nel quale sovente incorre.
Ancora, era stato provato che il Ne.Ma. corrispose anticipatamente l'intera somma richiesta dalla clinica (Omissis) (Euro 5000).
Infine, in precedenza, proprio a causa delle sue precarie condizioni di salute, l'imputato aveva già ottenuto dodici rinvii, e non aveva, dunque, motivo di ricorrere alla commissione di un reato per chiedere il tredicesimo.
La mancata considerazione delle deduzioni difensive volte ad evidenziare la illogicità delle decisioni di primo e secondo grado integra un ulteriore aspetto del denunciato vizio motivazionale.
La sentenza impugnata è poi affetta da vizi di illogicità intrinseca.
Incorre, infatti, in tautologie, come quando cerca riscontri in una certificazione ulteriore rispetto a quella della cui falsità si discute, senza realizzare che tale certificazione è invece la stessa.
Richiama, a riprova della falsità del certificato, le dichiarazioni del direttore della clinica (Al.La.) il quale mai ha dichiarato che la certificazione del (Omissis) fosse falsa.
Parla del disconoscimento di paternità dei certificati da parte del Lu.Ma., che era il medico curante del ricorrente, sebbene da ciò non sia consentito inferire la falsità del documento.
Desume inspiegabilmente la falsità della certificazione dalle affermazioni rese dall'imputato in sede di interrogatorio, nonostante questi avesse chiarito in modo sincero e lineare che, a fronte di un intervento di colonscopia da effettuare ad opera del Lu.Ma., il dott. Ba. aveva prospettato un intervento diverso e più invasivo, e che per questa ragione aveva chiesto di essere dimesso.
I giudici, sostituendo la propria valutazione a quella dei medici, scrivono poi che la prognosi di riposo assoluto e terapia antibiotica per almeno sette giorni non integrava un assoluto impedimento a comparire in udienza e desumono dal fatto che il ricorrente, il (Omissis), non fosse più presente nella clinica la prova della falsità ideologica delle due autocertificazioni prodotte all'autorità giudiziaria.
A parte l'improprio richiamo alla "autocertificazione", non si comprende tuttavia come inferire la falsità ideologica del certificato del (Omissis) e, ancor meno, quella della seconda autocertificazione, peraltro non specificamente indicata ma induttivamente individuabile in quella del 28 dello stesso mese.
La sentenza impugnata è affetta inoltre da vizi di illogicità estrinseca, ricavabili dagli atti del processo.
Che la certificazione medica del (Omissis) non recasse la sottoscrizione nominativa di un medico curante non significa che fosse falsa e che tale falsità fosse attribuibile al ricorrente.
Non è vero che il trattamento sanitario in essa indicato non era stato prescritto da alcun sanitario né concordato con il paziente, essendo stato invece concordato tra il Ne.Ma. e il Lu.Ma., come si evince dalla certificazione a firma di Al.Lo. della clinica (Omissis).
Che gli interventi chirurgici previsti nella certificazione del (Omissis) fossero stati concordati previamente con il chirurgo trovava riscontro nel preventivo di spesa accettato e pagato in anticipo dal ricorrente, che elenca tutte le analitiche voci di spesa.
Nella sentenza si spiega che il Lu.Ma. riferì che il controllo dell'imputato era finalizzato a verificare le cause di un'infezione in corso emersa dalle analisi del sangue e che per la data del (Omissis) stato concordato un day-hospital per approfondimenti diagnostici, sicché soltanto a seguito della colonscopia emerse l'esistenza di una situazione tale da imporre un intervento chirurgico. Tali affermazioni non sono distoniche rispetto alle deduzioni difensive, per cui temporalmente il da farsi era concordato all'esito della colonscopia, la certificazione medica del 21/09/2016, essendo coerente con gli interventi previsti in quella del (Omissis) ed essendo, d'altronde, inimmaginabile che il preventivo di spesa fosse stato redatto dall'ufficio amministrativo della clinica senza prima consultare il chirurgo.
Ancora, la cartella clinica recava al suo interno non solo la dichiarazione di avvenuta informazione e consenso all'anestesia, ma anche la dichiarazione di avvenuta informazione e consenso all'atto medico programmato, documentazione che destituisce di fondamento l'affermazione, contenuta in sentenza, per cui l'intervento da eseguire non era stato concordato tra paziente e medico.
Ciò, in disparte l'acquisita prova dell'esistenza della modulistica, invece negata durante il dibattimento dal direttore sanitario della clinica, e della scheda di accettazione infermieristica (nella quale, incidentalmente, il ricorrente aveva indicato soltanto la moglie, il padre e la madre quali persone autorizzate a rendere nota la sua presenza presso la struttura, per cui non si comprende come la parte civile abbia avuto notizia dell'avvenuta dimissione la sera del (Omissis)).
Con certificazione recante pari data ad integrazione del foglio di dimissione, il Lu.Ma. precisava che il paziente aveva rifiutato l'intervento di refrostomia destra suggerito dal consulente della casa di cura per rivolgersi ad altro urologo di sua fiducia e verificare la possibilità di trattamenti alternativi e meno invasivi, pur essendo stato informato dell'urgenza dell'intervento, in quanto la condizione di idroureteronefrosi esita immancabilmente nella perdita della funzione del rene interessato.
Tale certificazione rende chiaro e lineare lo svolgimento della intera vicenda e manifesta la piena attendibilità di quanto dichiarato dal ricorrente il (Omissis) alla polizia giudiziaria.
Sempre in data (Omissis), il Lu.Ma. attestava, successivamente alle dimissioni del ricorrente, che era stato effettuato un intervento chirurgico di pancolonscopia con diagnosi di sospetta fistola rettovescicale in paziente affetto da ossiuriasi, prescrivendo terapia farmacologica a base antibiotica.
Ancora il Lu.Ma., assunto a sommarie informazioni, in data (Omissis), dichiarava che il secondo certificato medico, quello del (Omissis), era sicuramente originale e che era stato richiesto dal paziente ad integrazione del foglio di dimissione relativa alla degenza del (Omissis), precisando anche che risultava congruo in rapporto alla patologia in essere all'epoca dei fatti.
In realtà, il certificato cui il Lu.Ma. fa riferimento è quello di cui si è appena detto, e cioè l'integrazione del foglio di dimissioni, in cui attestava l'avvenuto intervento chirurgico di pancolonscopia nella stessa data, in anestesia generale, e confermava la terapia farmacologica prescritta sempre il (Omissis) e sempre a seguito delle dimissioni del paziente.
Invece, la sentenza di primo grado, alla quale la sentenza di secondo grado fa pedissequo richiamo, allude a diversa e distinta certificazione, resa in data (Omissis).
La sentenza di primo grado evidenzia in modo malizioso che il ricorrente, una volta edotto dell'inefficacia - e non falsità - della prima certificazione, avrebbe fatto pervenire alla Corte di appello un secondo certificato medico, recante la stessa data e sempre firmato dal Lu.Ma. che però disconobbe la sua firma, senza considerare quanto, a richiesta del giudice monocratico, aveva affermato lo stesso Lu.Ma., cioè che spesso i medici del suo staff firmavano al poste suo, non essendo possibile evadere personalmente tutti i certificati di ricovero e le richieste, e riconoscendo peraltro la carta intestata.
La sentenza di primo grado rileva inoltre che, in occasione del secondo esame testimoniale, il Lu.Ma. era stato richiesto di spiegare l'incongruenza "stilistica" derivante dal fatto che il ricovero era finalizzato non a un intervento chirurgico ma ad accertamenti diagnostici.
La colonscopia è un intervento chirurgico. E comunque, anche a ritenere diversamente, resta il fatto che il ricorrente era stato sottoposto ad anestesia generale e che dalla differente qualificazione della colonscopia (intervento chirurgico o diagnostico) non può inferirsi la falsità della certificazione.
D'altro canto, sempre il Lu.Ma., in occasione di altro ricovero del ricorrente (per idrocele bilaterale), qualificava la colonscopia come intervento chirurgico, e pure in quel caso prescriveva la terapia antibiotica (anche tale documento era presente gli atti del giudizio).
Ancora, nel corso della sua seconda deposizione, il Lu.Ma., che non ricordava esattamente l'accaduto, si riservava di verificarlo e forniva il nome della segretaria incaricata di effettuare le ricerche, Nonostante la richiesta del Pubblico Ministero, accolta dal Giudice, non risulta se tali ulteriori informazioni siano state acquisite o se la segretaria sia stata sentita, pur essendo stata avanzata in tal senso richiesta dell'imputato.
Alla luce di quanto osservato, affermare che la documentazione sanitaria avesse comprovato che il Ne.Ma. non versava in condizioni di assoluto impedimento a comparire in udienza non avrebbe potuto condurre ad affermare la falsità della certificazione medica: vieppiù considerato che la cartella clinica che, secondo i giudici, comproverebbe la falsità, in realtà la esclude in modo evidente.
Ciò, in disparte ogni considerazione sull'irragionevolezza delle circostanze di tempo e di luogo in cui il ricorrente avrebbe compiuto i falsi (mentre si trovava ricoverato o addirittura nel corso della preparazione per l'intervento).
Si ribadisce che la Corte di appello non ha tenuto in alcun conto le deduzioni difensive tra cui quelle volte ad evidenziare come nella citata cartella clinica la colonscopia era qualificata quale intervento chirurgico e la ricostruzione operata in una memoria difensiva della cronologia degli eventi del (Omissis).
Ancora, oltre ad evidenziare ulteriori incongruenze della pronuncia impugnata, si insiste sul fatto che il ricorrente era invalido al 100% e che, quindi, non aveva necessità di confezionare una certificazione falsa, aggiungendo che l'intervento in discorso fu poi effettivamente realizzato, una prima volta, da altro urologo di fiducia del ricorrente e, successivamente, dal medesimo Lu.Ma. proprio nella clinica (Omissis).
Nulla è stato detto nemmeno sulla sussistenza dell'elemento soggettivo, essendosi i Giudici limitati a desumere il dolo dalla professione di avvocato dell'imputato.
Si rappresenta, infine, come i testi Al.La. e Lo.Ca., della clinica (Omissis), siano stati palesemente reticenti allo scopo di fugare i sospetti sul funzionamento della clinica che ne avrebbero offuscato l'immagine.
In particolare, nonostante il Al.La. avesse dichiarato nelle sommarie informazioni testimoniali di aver chiesto ed ottenuto la certificazione in oggetto, di tale circostanza non fece poi cenno durante le indagini, negando, anzi, che fosse in possesso della clinica. Il Lo.Ca. inviò alla Procura l'elenco dei dipendenti ma né il Pubblico Ministero né il giudice monocratico sentirono alcuno di essi.
Per queste ragioni, si delinea, nel caso di specie, sia un vizio di motivazione, sia un vizio di travisamento della prova in relazione ad elementi decisivi ai fini della decisione.
3. Il ricorrente ha altresì presentato una memoria difensiva in cui ribadisce l'illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
2. Precisato che, essendosi al cospetto di una c.d. doppia conforme, le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente in quanto costituiscono un unico complessivo corpo decisionale (Vd. Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218), per ragioni di chiarezza espositiva, si riassume di seguito la vicenda storica da cui è originato il presente procedimento, per come emersa nei due gradi di giudizio, e, di seguito, i passaggi essenziali dell'argomentazione che ha condotto al riconoscimento di responsabilità penale.
2.1. Il giorno (Omissis), in apertura dell'udienza in appello (alle ore 14.00), il difensore dell'imputato produceva un certificato medico proveniente dalla casa di cura (Omissis), recante la data del (Omissis), nel quale si attestava: "il Sig. Ne.Ma. è ricoverato presso la suddetta clinica per essere sottoposto in data odierna di intervento cistoscopico e laparoscopico addominale, con posizionamento di Stent, il paziente resterà quindi ricoverato per i successivi 3 (tre) giorni e successivamente alle dimissioni si consiglia riposo assoluto per ulteriori giorni 20 (venti) previo controllo medico e salvo complicazioni".
La parte civile, avendo il Ne.Ma. chiesto in precedenza già ben dodici rinvii, si allarmava e sollecitava il proprio difensore a domandare che fossero disposti accertamenti presso l'istituto.
La Corte d'appello, quindi, richiedeva, con urgenza copia della cartella clinica dell'imputato, con sospensione ad horas del processo.
Nel mentre, e precisamente alle 15.30, perveniva via fax un certificato medico, questo firmato dal prof. Lu.Ma. e datato (Omissis) (il giorno stesso dell'udienza) nel quale si certificava che: "Ne.Ma. è stato sottoposto a ricovero per effettuare intervento chirurgico in data (Omissis). Pertanto il paziente necessita di riposo assoluto e terapia antibiotica per almeno sette giorni. Si rilascia per gli usi consentiti di legge".
La pronuncia di primo grado precisa altresì che, successivamente, si scopriva che tale secondo certificato era stato inviato dall'imputato direttamente al fax della Corte, la quale dichiarò il legittimo impedimento con ordinanza, salvo revocarlo poco dopo, quando, acquisita l'intera cartella clinica, dalla stessa si evinse non soltanto che l'imputato non era ricoverato alla data del (Omissis), ma che nemmeno era stato sottoposto ad alcun intervento chirurgico il (Omissis), essendosi, la sera stessa, allontanato dalla clinica.
2.2. Ciò premesso, i Giudici di merito revocano in dubbio la veridicità della dichiarazione ((Omissis)) resa all'autorità giudiziaria dall'imputato il quale, per il tramite del suo difensore, aveva prodotto un certificato attestante come egli fosse "ricoverato presso la clinica per essere sottoposto in data odierna ad intervento cistoscopico e laparoscopico addominale, con posizionamento di stent", aggiungendo il documento, subito di seguito: "il paziente resterà quindi ricoverato per i successivi 3 (tre) giorni e successivamente alle dimissioni si consiglia riposo assoluto per ulteriori 20 (venti) giorni previo controllo medico e salvo complicazioni".
A tal fine, i Giudici argomentano dalla circostanza, non revocabile in dubbio in quanto provata nei giudizi di merito, che il ricorrente, al momento della produzione di tale certificato, non si trovasse più presso la struttura sanitaria, essendone stato, per sua richiesta, dimesso aprile 22.00 dello stesso giorno.
La falsità dell'attestazione viene inferita anche dalla produzione, sempre nel corso dell'udienza del giorno (Omissis), di un successivo documento, questo recante la medesima data dell'udienza ((Omissis)) e almeno in apparenza firmato dal prof. Lu.Ma., allora medico curante del ricorrente, in cui si certificava che quest'ultimo era "stato sottoposto a ricovero per effettuare intervento chirurgico in data (Omissis). Pertanto il paziente necessita di riposo assoluto e terapia antibiotica per almeno 7 (sette) giorni".
Infine, le pronunce in oggetto, nel revocare in dubbio la veridicità/genuinità del certificato datato (Omissis), motivano sulla base del disconoscimento che del documento fecero: per un verso, il dott. Al.La., direttore della clinica (Omissis); per altro verso, il prof. Lu.Ma., il medico che aveva in cura il Ne.Ma..
Spiega, in particolare, il Tribunale che il primo (Al.La.) si soffermò sul contenuto, definito dalla sentenza di primo grado, "anomalo" del certificato che "per la sua formulazione non era di quelli a conoscenza" del teste e che il secondo (Lu.Ma.), in una prima occasione, si limitò a disconoscere la paternità "sia formale che contenutistica" del certificato; in una seconda occasione, su domanda, spiegò che per la data del (Omissis) era stato concordato un day-hospital per eseguire approfondimenti diagnostici; aggiunse che soltanto all'esito della più volte citata colonscopia era emersa l'esistenza di una comunicazione impropria tra intestino e vescica la quale necessitava di intervento chirurgico; precisò, infine, che l'imputato si era rifiutato di eseguire quest'ultimo, poiché preferiva ricevere il parere di un proprio urologo di fiducia e che peraltro tale intervento, sebbene necessario, non era stato preventivato (né rivestiva i caratteri della indifferibilità e dell'urgenza).
3. Tutto ciò premesso e passando all'esame del ricorso, il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il certificato cui entrambe le sentenze di merito si riferiscono per argomentare la falsità delle attestazioni all'autorità giudiziaria procedente è quello datato (Omissis), che è lo stesso cui espressamente si riferisce il capo di imputazione.
Nell'economia delle due sentenze di merito, l'ulteriore certificazione, datata (Omissis), è citata soltanto ad adiuvandum, e cioè come riscontro indiziario a conferma della falsità delle attestazioni rese attraverso il primo documento: falsità, come si è riferito, desunta anche da altri elementi.
Più specificamente, nel contesto motivazionale delle pronunce, la produzione del secondo certificato serve a dimostrare che quella del primo non fosse dipesa da mero errore (non essendo in discussione che l'imputato si trovava il giorno (Omissis), fino alle 22.00, nella clinica per accertamenti diagnostici), ma fosse intenzionalmente volta a guadagnare una ulteriore sospensione del processo per l'imputato, con i riflessi che tale circostanza produce sull'accertamento del delitto in contestazione.
Di conseguenza, nel caso di specie, non si delinea alcuna difformità tra sentenza e accusa e, tantomeno, alcuna omessa contestazione.
D'altronde, come chiarito da tempo, posto che "per "fatto nuovo" (...) si intende (...) un episodio storico che non si sostituisce ma si aggiunge a quello oggetto dell'imputazione originaria, affiancandolo quale autonomo thema decidendum" e che invece, "qualora il fatto storico emerso nel corso dell'istruzione dibattimentale sia legato a quello originariamente contestato da vincolo di connessione ex art. 12 cod. proc. pen., lett. b) (...), ricorre la fattispecie di reato concorrente, contemplata dall'art. 517 cod. proc. pen., comma 1 (...) tanto nell'ipotesi di reato concorrente quanto in quella di fatto nuovo, ove il pubblico ministero non proceda a contestazione suppletiva, il dibattimento seguirà il suo corso e il giudice si pronuncerà esclusivamente in merito all'imputazione originaria, fermo rimanendo il potere-dovere della pubblica accusa di procedere in separata sede in merito ai fatti ulteriori emersi nel corso del dibattimento. Dunque la mancata contestazione suppletiva, sia essa ascrivibile all'assenza delle condizioni previste dagli artt. 517 e 518 cod. proc. pen. o semplicemente all'inerzia del pubblico ministero di udienza, non abilita il giudice a disporre la restituzione degli atti al requirente, provocando così un indebito regresso dell'azione penale (Sez. 6, n. 24377 del 06/03/2014, Margutti, Rv. 260065, in cui, subito dopo, si precisa che l'unico effetto della mancanza di contestazione suppletiva è che il thema decidendum rimane circoscritto all'ambito originario dell'imputazione).
Ciò, senza considerare per inciso che la situazione eccepita sarebbe comunque ridondata a favore, e non a svantaggio, dell'imputato.
4. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
4.1. Quanto al dedotto travisamento della prova, si ricorda che, per essere deducibile in sede di legittimità, il vizio deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto (Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087). Mentre, ribadito il persistente divieto di rilettura e di reinterpretazione nel merito dell'elemento di prova, nel caso di specie la cognizione del giudice di legittimità non sarebbe circoscritta - come ancora di recente precisato - alla mera verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, così da rilevarne l'incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e a-valutativa, del "significante", ma non del "significato" (Sez. 5, 26455 del 09/06/2022, Dos Santos, Rv. 283370).
4.2. Quanto all'eccepita illogicità e contraddittorietà della motivazione, al netto dei numerosi ed articolati rilievi in esso svolti, l'impostazione difensiva mira a dimostrare che il certificato del (Omissis) non era falso (materialmente o ideologicamente), essendo stato rilasciato dalla casa di cura in cui l'imputato realmente si trovava, al tempo della formazione del documento, per effettuare accertamenti in vista di un intervento chirurgico in effetti programmato (anche se successivamente annullato perché rivelatosi più invasivo del previsto).
Invece, le considerazioni dedicate dal ricorrente alla natura di intervento "chirurgico" della colonscopia sembrano piuttosto voler depotenziare la suggestione derivante dal secondo documento (quello del (Omissis), nel quale si attestava che l'imputato aveva effettivamente subito, appunto, un intervento "chirurgico" e che necessitava, pertanto, di riposo assoluto e di terapia antibiotica per i successivi sette giorni), suscettibile di indiziare, come si è detto e in modo per così dire retrospettivo, la falsità della prima attestazione.
4.3. Ora, in disparte la considerazione che, ad onta di ogni sforzo argomentativo, la colonscopia è e resta un intervento meramente diagnostico (per il quale, già solo in base a mere massime di esperienza, di regola non si dispone alcuna terapia antibiotica) e tralasciando anche il fatto che negli stessi allegati al ricorso essa è, d'altronde, definita (per ragioni peraltro legate alla regolamentazione economico/amministrativa) intervento "operatorio" - e non "chirurgico", le deduzioni difensive non scalfiscono la coerenza e la logicità della motivazione della sentenza impugnata.
Le pronunce di merito ravvisano, infatti, la falsità del documento del (Omissis) sulla base delle riferite, chiare dichiarazioni di cui si è detto.
Peraltro, dai verbali di sommarie informazioni del La. e del Lu.Ma., allegati al ricorso risulta, rispettivamente, che il direttore della clinica sanitaria specificò che il documento presentava caratteristiche anomale rispetto ai documenti standard e, in particolare, che: la carta intestata non era completa in quanto mancavano i riferimenti della clinica; non erano riportati gli estremi dell'ufficio/persona che avrebbe dovuto rilasciarlo; la firma era illeggibile (allegato n. 17) e che dalla visione della cartella clinica non risultò che il certificato fosse stato presente nella documentazione (allegato n. 18).
Delle risultanze probatorie, dunque, il ricorrente opera un'indebita decontestualizzazione, per un verso, e una parcellizzazione, per altro vero: finendo, conseguentemente, con il sollecitare una rivalutazione del compendio probatorio non ammissibile in sede di legittimità.
4.4. D'altronde, e ancor prima, a prescindere cioè dalle prove della falsità del documento (che il ricorso assume travisate), si rileva quanto segue.
Il motivo è tutto incentrato sulla dimostrazione della veridicità/genuinità della documentazione prodotta in udienza dall'imputato e non si confronta, dunque, con la motivazione della pronuncia impugnata la quale, sulla scia della sentenza del Tribunale, poggia l'affermazione di responsabilità anche su elementi preliminari e - come riferito - ampiamente provati, ammessi d'altronde dallo stesso ricorrente: vale a dire sul dato che l'imputato aveva attestato, producendo i documenti di cui si è detto per il tramite del suo difensore, di essere impossibilitato a partecipare all'udienza in corso e che tale attestazione non corrispondeva al vero, posto che, al momento della dichiarazione, Ne.Ma. non era più ricoverato in clinica da ben due giorni.
4.3. In proposito, si premette che, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, la fattispecie di cui all'art. 374-bis cod. peri, prescinde dalla circostanza che l'atto destinato all'autorità giudiziaria sia materialmente vero o falso (vd. per esempio, Sez. 6, n. 2967 del 23/09/2020, dep. 2021, Lafleur, Rv. 280963; Sez. 6, n. 23547 del 26/04/2016, Bonetti, Rv. 267395).
L'art. 374-bis cod. pen. è stato infatti introdotto nel sistema per tutelare l'esigenza di assicurare il corretto funzionamento della giustizia, in relazione, in particolare, all'emanazione di provvedimenti giurisdizionali sulla base di presupposti enucleabili da dichiarazioni provenienti da privati, per cui, a differenza delle altre ipotesi di falso, non tutela il documento in sé, ma la funzione probatoria esplicata in concreto dall'atto.
Se è così, non c'è dubbio che il delitto di cui all'art. 374-bis cod. pen. si configuri quando la falsa dichiarazione passa attraverso un documento esso stesso (ideologicamente o materialmente) falso. Ciò, in via incidentale, necessariamente accade ove la commissione del reato si arresti alla fase della formazione del documento stesso (per tutte, Sez. 6, n. 6062 del 05/11/2014, dep. 2015, Moro, Rv. 263110, che precisa come il reato abbia natura di pericolo e può consumarsi, a talune condizioni, anche a prescindere dalla presentazione della documentazione all'autorità giudiziaria).
Tuttavia, nel caso in cui, come nella specie, il documento sia effettivamente prodotto davanti al giudice ed assumendo - con la citata giurisprudenza - che esso rappresenti il mero strumento attraverso cui viene a veicolata la dichiarazione ideologicamente difforme, allora, il reato sussisterà anche se il documento, per ipotesi, al momento in cui è stato creato, era ideologicamente vero ma, quando è stato speso, aveva senza dubbio cessato di attestare una situazione di fatto corrispondente alla realtà: a condizione, ovviamente, che di tale difformità sia consapevole il soggetto agente.
4.4. Appunto rispondendo, infine, ad un'eccezione difensiva sul dolo, nel caso di specie, l'imputato era senza dubbio consapevole della difformità tra quanto indicato nell'attestazione (ove era scritto che sarebbe rimasto ricoverato in clinica per interventi operatori) e la realtà fattuale (si era fatto dimettere due giorni prima), con la conseguenza che l'omessa motivazione sul punto non produce vizi deducibili in cassazione (di recente, Sez. 6, n. 20522 del 08/03/2022, Palumbo, Rv. 283268).
5. Sulla base delle osservazioni che precedono, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell'art. 616 cod. proc. pen.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Eu.Po., che liquida in complessivi euro 3.510, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2024.
Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2024.