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Reati tributari: contabilità semplificata non esonera dall’obbligo di tenuta dei libri e scritture contabili

sottrazione scritture contabili

Cassazione penale sez. III, 08/04/2019, n.24152

In tema di reati tributari, il regime fiscale di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l'esonero dall'obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili previsto dall'art. 2214 cod. civ., sicché, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può legittimamente tener conto della mancata tenuta della scritture contabili obbligatorie e della conseguente mancata tracciabilità delle movimentazioni finanziarie correlate alle operazioni economiche poste in essere.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza 15.06.2018, la Corte d'appello di Lecce, sez. dist. Taranto, in riforma della sentenza del tribunale di Taranto 23.02.2016, appellata dal B., escludeva il reato contestato (dichiarazione infedele: D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4) limitatamente alla evasione dell'IVA per insussistenza del fatto, per l'effetto riducendo la pena inflittagli per tale violazione, in relazione all'evasione delle imposte sui redditi, applicando al medesimo, in continuazione con altra sentenza emessa dal tribunale di Taranto 12.02.2015, irr. 14.03.2015, la pena di 2 mesi e gg. 25 di reclusione; confermava nel resto la sentenza appellata che lo aveva ritenuto colpevole del reato di dichiarazione infedele, commesso in relazione al periodo di imposta 2007, secondo le modalità esecutiva e spazio - temporali meglio descritte nel capo di imputazione. 2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all'Albo speciale previsto dall'art. 613, c.p.p., articolando tre motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, ed all'art. 192 c.p.p., comma 2, e art. 546 c.p.p., lett. e), in tema di valutazione della prova nonchè violazione del principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio" di cui all'art. 533 c.p.p., e correlato vizio di manifesta illogicità, mancanza e contraddittorietà della motivazione. In sintesi, ad avviso del ricorrente, la decisione di primo grado, pedissequamente seguita dalla Corte di Appello, avrebbe violato i canoni di ragionevolezza, logicità e valutazione probatoria tout court. I fatti a sostegno della condanna, fondati sull'imprinting dato dal giudice di prime cure alle testimonianze, avrebbero costituito il punto di partenza del giudizio di secondo grado, sollevando la Corte dal dovere di ricercare un proprio schema logico attraverso la lettura diretta delle fonti probatorie e del loro autonomo apprezzamento. Ne sarebbe conseguita la ripetizione degli errori commessi dal primo giudice, valorizzando oltre i limiti della logica e del buon senso alcune dichiarazioni rese in dibattimento, omettendo addirittura di motivare in merito alle altre. Si riporta sinteticamente il contenuto, contestato con l'impugnazione dalla difesa, della testimonianza del teste M.T., evidenziando come sul punto la Corte abbia riportato la medesima motivazione del giudice di primo grado. Sostiene il ricorrente che la sola assenza di insegne o targhe presso la sede amministrativa di una ditta individuale non potrebbe ritenersi idonea di per sè ad incrinare l'effettività delle operazioni commerciali intercorse tra la medesima azienda ed i suoi committenti, nella specie la società MD2000, giacchè la peculiarità dell'attività espletata non richiedeva un particolare allestimento degli uffici amministrativi, svolgendosi essa esclusivamente presso i canteri ove i servizi richiesti dai clienti dovevano essere prestati. Conferma del luogo in cui si trovava la sede della società La Fenice e dei rapporti con la MD2000 si avrebbe nelle dichiarazioni del teste N., commercialista del B. al tempo dei fatti oggetto di contestazione. Tuttavia di ciò non vi sarebbe alcuna traccia nella motivazione. Secondo il ricorrente la sentenza di primo grado, fatta propria dal giudice di appello, si fonderebbe unicamente su presunzioni le quali, in materia di reati tributari, possono essere ritenute valide solo per la procedura cautelare non anche ai fini della condanna, rappresentando indizi che necessitano di essere integrati da ulteriori elementi (Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 30890). Perchè possano assurgere a prova, pertanto, devono trovare oggettivo riscontro in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni che siano però gravi, precise e concordanti. Sebbene l'autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non escluda la possibilità per il giudice di avvalersi degli stessi elementi posti alla base dell'accertamento tributario (accertamenti condotti dalla Guardia di Finanza e dall'Agenzia delle Entrate), essi dovrebbero essere assunti non con efficacia di certezza legale bensì come dati processuali oggetto di libera valutazione probatoria. Sul punto si rammenta anche il principio espresso dall'art. 533 c.p.p., evidenziandosi che l'organo giudicante dovrebbe procedere ad un effettivo accertamento delle circostanze costitutive del reato ascritto al contribuente, il che escluderebbe l'operatività delle presunzioni fiscali in sede penale, qualificabili come meri indizi. Il giudice quindi non potrebbe recepire acriticamente i dati emersi dal controllo fiscale, essendo tenuto ad indicare in maniera specifica le ragioni per le quali ritiene gli stessi attendibili. Applicando quanto detto al caso di specie, non potrebbe farsi discendere tout court la sussistenza dell'ipotesi di reato da una mera catena di presunzioni semplici, dovendosi acquisire ulteriori elementi di riscontro al fine di verificare la concreta esistenza dell'evasione, nè potrebbe ritenersi operante l'inversione dell'onere della prova, spettando all'accusa pubblica dimostrare l'elemento costitutivo del reato rappresentato nella specie dall'effettivo superamento delle soglie poste dalla norma. Il minor versamento, effetto dell'evasione, dovrebbe quindi essere commisurato ad attività concretamente poste in essere: il reddito nascosto dovrebbe essere un reddito reale e il patrimonio occultato tangibile e concreto, non potendo trovare spazio una mera presunzione semplice inidonea a fondare la responsabilità penale per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4. 2.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge e correlato vizio di motivazione. In sintesi, sostiene il ricorrente che la motivazione sarebbe censurabile anche in ordine al regime fiscale semplificato nel quale rientrava l'azienda del B.. Secondo il giudice di secondo grado, infatti, questo non avrebbe esonerato l'imprenditore dal tenere le scritture contabili in ossequio all'art. 2214 c.c.. Ad avviso del ricorrente sarebbe invece vero il contrario in quanto il regime speciale consentirebbe adempimenti contabili ridotti rispetto a quello ordinario, caratterizzandosi inoltre per un criterio di determinazione del reddito basato sulla ricostruzione analitica dei costi e dei ricavi cui vanno sommati e sottratti gli elementi positivi e negativi indicati dalla legge. Pertanto, alle imprese ammesse al regime di contabilità semplificata, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 18, sarebbe consentito non tenere i libri sociali ed alcuni registri contabili, permanendo l'obbligo di tenere i registri previsti dalla normativa IVA. Questi dovrebbero accogliere anche le operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sui redditi seppure in forma semplificata mediante annotazione del documento fiscale attestante la spesa, pur non rientranti in campo IVA. Tuttavia, le componenti negative non registrate ma specificamente afferenti a ricavi e altri proventi di esercizio sarebbero comunque ammessi a deduzione se e nella misura in cui risultino da elementi certi e precisi. Non essendo prevista la redazione del bilancio, il reddito imponibile per tali fattispecie sarebbe tratto dal solo conto economico d'esercizio, da riportarsi nell'apposito quadro annesso al modello di dichiarazione dei redditi, non essendo prevista nè determinabile, in assenza di registrazione delle movimentazioni non aventi rilevanza economica, una situazione patrimoniale dell'azienda. Da ciò si evincerebbe che ai soggetti rientranti nel suddetto regime non potrebbe addebitarsi la mancata traccia-bilità delle movimentazioni finanziarie correlate alle operazioni economiche poste in essere, giacchè essi sarebbero esonerati dall'obbligo della contabilità ordinaria e tenuti solo ad annotare i documenti fiscali, rilevanti ai fini della maturazione economica dei costi e dei ricavi, sui registri IVA senza possibilità alcuna di annotare anche gli aspetti monetari della gestione. Altrettanto illogica sarebbe la pretesa carenza di vantaggiosità, rectius convenienza economica, nelle operazioni intercorse tra La Fenice e la MD2000 a causa della differente localizzazione geografica delle rispettive sedi legali. Si finirebbe infatti per confondere il concetto di elusione con quello di evasione con la conseguenza che non si comprenderebbe se il comportamento posto in essere sia qualificabile come "elusivo" o "di evasione", con inevitabili ripercussioni sulla configurabilità del reato. L'affermazione della Corte sembrerebbe inoltre fine a sè stessa non essendo motivata, non specificando quale comportamento "normale" avrebbe dovuto adottare la società al fine di non incorrere nella antieconomicità. Innanzi a più alternative, non vi è l'obbligo per il contribuente di optare per quella fiscalmente più onerosa, dovendosi anzi ritenere sussistente il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che consenta di contenere i propri oneri fiscali, non potendo quindi integrare un abuso una scelta gestionale attuata per strutturare una operazione in modo da evitare l'onere fiscale massimo. Il ricorrente richiama la disciplina comunitaria e nazionale in materia di abuso del diritto (Direttiva n. 90/4341; Direttiva n. 2016/1164; L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, introdotto con il D.Lgs. n. 128 del 2015) evidenziando la residualità della fattispecie e la sua collocazione interstiziale fra legittimo risparmio ed evasione. 2.3. Deduce, con il terzo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 81,99,132 e 133 c.p., e per la mancata concessione delle attenuanti di cui all'art. 62 bis c.p.. In sintesi, sostiene il ricorrente che la Corte d'appello avrebbe erroneamente operato nell'applicare l'aumento di pena anche per la recidiva. Il giudice dovrebbe infatti verificare se la reiterazione dell'illecito sia effettivo sinonimo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e di ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza. Invero, i precedenti penali a carico del B. nonostante siano ricadenti nella disciplina dei reati fiscali sono datati nel tempo ed alcuni persino depenalizzati. Mancherebbe inoltre la motivazione circa il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche le quali, se il giudice avesse operato un'accurata indagine sotto il profilo tecnico-giuridico, avrebbe applicato considerandole equivalenti alla recidiva, con conseguente dichiarazione di prescrizione del reato contestato. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. Il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza. 4. E' anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive (che, vengono, per così dire "replicate" in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849). 5. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che la Corte d'appello ha spiegato, con motivazione adeguata e del tutto immune dai denunciati vizi, le ragioni per le quali ha ritenuto infondata la doglianza difensiva in ordine alla insussistenza del reato di dichiarazione infedele con riferimento all'evasione delle imposte sui redditi, nonchè congruo il trattamento sanzionatorio alla luce del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ed all'applicazione della recidiva contestata. 6. In particolare, quanto al primo motivo, devono anzitutto premettersi alcune considerazioni in diritto in ordine al tema delle presunzioni fiscali in sede penale e degli accertamenti fiscali alla base della sentenza di condanna. La giurisprudenza è infatti granitica nel sostenere che nel processo penale le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sè fonte di prova della commissione dell'illecito, assumendo il valore di dati di fatto che, unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa, devono poter essere valutati liberamente dal giudice penale (Cass., Sez. III, 30 ottobre 2018, n. 7242; Cass., Sez. III, 23 giugno 2015, n. 30890; Cass., Sez. III, 23 gennaio 2013, n. 7078). Diversa posizione è stata invece assunta in materia cautelare: tali presunzioni possono infatti costituire ex se fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, riconoscendosi un valore indiziario sufficiente ad integrare il presupposto del fumus commissi delicti necessario ai fini dell'applicazione di una misura cautelare reale (Cass., Sez. III, 10 maggio 2018, n. 26274). Tale orientamento è giustificato dalla natura stessa delle presunzioni tributarie le quali rappresentano sostanzialmente una "scorciatoia" probatoria a favore dell'amministrazione pubblica competente, comportante un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente. La presunzione, infatti, si fonda sul meccanismo logico del "come se", consentendo di inferire da un fatto noto (non da provare) quanto costituisce thema probandum. In sede penale, diversamente dal contesto tributario, non trova cittadinanza la c.d. presunzione legale, vigendo piuttosto il principio del libero convincimento del giudice, il quale dunque non potrebbe essere "esonerato" da un'indagine sul fatto mediante la prova presuntiva dello stesso operata a monte dal legislatore, sebbene comunque non possa parlarsi di "illimitata signoria del giudice sulla prova". Nel processo penale l'imputato non è tenuto, pena la sanzione, a fornire la prova della propria innocenza, essendo invece la pubblica accusa a dovere dimostrare la responsabilità penale dello stesso, con conseguente inammissibilità, ex art. 27 Cost., comma 2, di un'inversione dell'onere probatorio analoga a quella operante nel sistema tributario. Il legislatore pone inoltre un limite al giudizio del materiale probatorio qualora esso si riduca ad elementi indiziari, quali sono le presunzioni: l'art. 192 c.p.p., comma 2, stabilisce infatti che perchè esse possano legittimamente fondare l'esistenza di un fatto dovranno essere gravi, precise e concordanti. Tali differenze riflettono chiaramente le distinte finalità perseguite dai due procedimenti: quello tributario mira sostanzialmente al recupero del quantum evaso, mentre quello penale è diretto ad accertare, oltre ogni ragionevole dubbio, l'attribuibilità o meno della condotta illecita all'imputato, ergo la sua colpevolezza e sanzionabilità. Ne consegue che gli elementi raccolti da parte della P.A. competente verranno impiegati come meri indizi dal giudice penale, cosicchè quanto posto a fondamento del/'iter ricostruttivo condotto dall'ufficio tributario in sede di accertamento, non possiederà, nel giudizio penale, la valenza propria di prova legale relativamente al risultato dell'accertamento stesso, dovendo gli stessi essere apprezzati autonomamente dall'organo giudicante nella loro reciproca gravità, precisione e concordanza, ed unitamente alla rimanente parte del patrimonio probatorio disponibile. Si deve escludere dunque una meccanica trasposizione delle presunzioni tributarie tale da ritenere provato il fatto solo perchè il contribuente non è riuscito a fornire la prova necessaria per il superamento del risultato ottenuto mediante il sistema presuntivo. Ulteriore conferma dell'incompatibilità sostanziale tra i due procedimenti si riscontra nella possibilità riconosciuta all'ufficio tributario, sebbene a determinate condizioni, di fondare l'attività accertativa anche su presunzioni c.d. semplicissime, ossia non connotate dai requisiti di cui all'art. 2729 c.c., le quali ovviamente non potrebbero trovare spazio alcuno nell'iter decisionale del giudice penale. In sintesi, è pertanto possibile riconoscere nelle presunzioni tributarie elementi utili a formare, nella disamina completa e critica del compendio probatorio acquisito nel corso del dibattimento, il (libero) convincimento del giudice, non potendo invece costituire via più breve per una condanna, essendo assunte non con l'efficacia di certezza legale ma come dati aventi valore indiziario che, per assurgere a dignità di prova, dovranno trovare un riscontro oggettivo o in distinti elementi probatori o in altre presunzioni, purchè gravi, precise e concordanti (Cass., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 30890). Anche per tali indizi dovrà quindi essere seguito quel procedimento induttivo che consente di inferire con certezza il dato ignoto da quello noto, con la conseguenza che un'affermazione di responsabilità potrà essere fondata su elementi indiziari soltanto se gli stessi, specificamente indicati in motivazione e valutati nel loro nesso logico, permettano l'attribuibilità del fatto all'imputato oltre ogni ragionevole dubbio, nel senso che non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma anche che lo stesso non può essersi ragionevolmente svolto in modo contrario. 7. Tanto premesso in diritto, il motivo è inammissibile. E' inammissibile in quanto deduce una violazione di legge ed un vizio motivazionale (il ricorso alle presunzioni tributarie) di cui non vi è cenno nei motivi di appello depositati in data 5.07.2016, nè nelle note difensive depositate in data 8.06.2018 in vista dell'udienza davanti alla Corte d'appello del 15.06.2018, donde il motivo è inammissibile a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 3. In ogni caso, si tratta di censura del tutto priva di pregio perchè manifestamente infondata. Infatti, il ricorrente, oltre a prospettare in parte una diversa ricostruzione fattuale della vicenda, non tiene conto di quanto argomentato dalla sentenza impugnata. Il giudice, infatti, non ha tenuto conto delle sole dichiarazioni del teste dell'accusa operante in seno all'amministrazione fiscale, ma anche di quanto dichiarato dallo stesso imputato e dal testimone citato dalla difesa, evidenziandone l'inidoneità a fondare la credibilità della tesi difensiva. 8. Anche il secondo motivo si appalesa del tutto privo di pregio. Ed invero, per meglio lumeggiare le ragioni dell'approdo cui è pervenuta questa Corte devono essere operate alcune considerazioni sulle due questioni giuridiche poste dal ricorrente. Da un lato, l'individuazione delle scritture contabili obbligatorie per le imprese "minori" e, dall'altro, il tema della c.d. linea di confine tra l'abuso/elusione non penalmente rilevanti e l'evasione fiscale. 9. Orbene, quanto al primo punto, va premesso che, in materia di scritture contabili, è necessario innanzitutto considerare la normativa civilistica, espressione del valore attribuito alla regolare e corretta tenuta della contabilità e della rilevazione periodica della situazione patrimoniale dell'ente societario. Tali adempimenti infatti consentirebbero non soltanto un controllo ab interno per l'imprenditore il quale può avere contezza dell'andamento della propria impresa, ma anche ab extemo a garanzia dei soggetti terzi che con l'impresa stessa entrano in contatto. Diversa è invece la ratio fondante la fissazione di peculiari regimi in sede tributaria: gli obblighi contabili imposti sono infatti principalmente finalizzati a permettere all'amministrazione finanziaria di esercitare le verifiche sulla corretta determinazione del reddito d'impresa, in stretta relazione con le modalità tipiche con cui l'evasione può essere realizzata. Tale differenza funzionale tra le due normative comporta la non derogabilità/modificabilità delle disposizioni civilistiche da parte di quelle in materia di accertamento delle imposte sui redditi, dati i fini esclusivamente tributari della normativa fiscale. Qualora si ritenesse che il regime di contabilità semplificata D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 18, consenta all'imprenditore di tenere le scritture contabili solo in relazione a quelle previste dal medesimo testo normativo, si ammetterebbe, implicitamente, un'abrogazione dell'art. 2214 e ss., tesi questa che, per i motivi sopra sinteticamente esposti, non può trovare accoglimento. E' bene inoltre evidenziare come la stessa lettera dell'art. 18 prefato faccia salvi "gli obblighi di tenuta delle scritture previste da disposizioni diverse dal presente decreto", con inclusione nell'eccezione anche dell'art. 2214 c.c.. Questa Corte è chiara sul punto, anche se le pronunce di riferimento attengono alla materia dei reati fallimentari. Si è infatti affermato che: "il regime tributario di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l'esonero dall'obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili, previsto dall'art. 2214 c.c., con la conseguenza che il suo inadempimento può integrare la fattispecie incriminatrice del reato di bancarotta semplice (Cass., Sez. V, 3 maggio 2017, n. 33878; Cass., Sez. V, 30 ottobre 2014, n. 52219). 10. Quanto, poi, al secondo profilo, afferente alla individuazione della c.d. linea di confine tra l'abuso/elusione non penalmente rilevanti e l'evasione fiscale, deve essere ricordato che l'introduzione della L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, mediante il D.Lgs. n. 128 del 2015, ha rappresentato un intervento del legislatore sulla vexata quaestio della rilevanza penale dell'abuso del diritto in materia fiscale, attuando una radicale ristrutturazione della normativa previgente. Il comma 13, dell'articolo prefato, infatti, dispone espressamente la non sanzionabilità in sede penale delle operazioni abusive, fornendone anche una definizione. Tale novità si impone, delegittimandolo, su quell'orientamento giurisprudenziale perorante la riconducibilità dei comportamenti elusivi nel raggio di azione delle fattispecie incriminatrici tributarie in materia di dichiarazione. Tuttavia, non poche sono le questioni venute alla luce nella individuazione in concreto dei comportamenti definibili abusivi/elusivi, soprattutto nella fissazione del confine di separazione tra questi e le figure riconducibili all'evasione fiscale, manifestandosi l'imprescindibilità di un coordinamento con i reati tributari. L'art. 10 bis, comma 1, dispone che "configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti", chiarendosi nei commi successivi cosa debba intendersi per "operazioni prive di sostanza economica" e "vantaggi fiscali indebiti": le prime consistono in "fatti, atti, contratti, anche tra loro collegati che potrebbero produrre effetti diversi dai soli vantaggi fiscali", e i secondi nei "benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario". Il terzo ed il comma 4, precisano ulteriormente il perimetro applicativo, non qualificando come abusive quelle operazione che risultino giustificate da valide ragioni extra-fiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, dirette al miglioramento dell'impresa sul piano strutturale o funzionale. Al contribuente è sostanzialmente riconosciuto il c.d. lecito risparmio di imposta, restando ferma la libertà dello stesso di scegliere tra i diversi regimi opzionali offerti dalla legge nonchè le operazioni comportanti un carico fiscale inferiore. La norma sottolinea, quindi, che l'unico limite alla suddetta libertà è costituito dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito mediante l'impiego di mezzi leciti ed in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi del diritto tributario. La lettura combinata delle nuove fattispecie penali tributarie e dell'art. 10 bis, comma 13, St. contr., consente di avere una prospettiva più chiara circa il vero significato di quest'ultima norma, soprattutto alla luce del quadro giurisprudenziale che l'ha preceduta: non si è tanto voluto negare che una condotta abusiva possa avere di per sè un rilievo penale, quanto piuttosto, sulla base di una scelta di politica criminale, sottrarre in modo inequivocabile tali fattispecie dall'area di rilevanza penale, nella quale erano state attirate in precedenza. Non preteribile sarebbe anche considerare le nuove definizioni di "operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente", consistenti in operazioni apparenti diverse da quelle disciplinate dall'art. 10 bis, e poste in essere con la volontà di non realizzarle, in tutto o in parte, ovvero quelle riferite a soggetti fittiziamente interposti, nonchè la definizione di "mezzi fraudolenti" da intendersi come condotte artificiose, attive o omissive, realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico e determinanti una falsa rappresentazione della realtà. 11. Indispensabile diviene quindi l'esatta determinazione del contenuto e dei limiti della fattispecie di abuso/elusione, cosicchè essa possa distinguersi dall'ipotesi di condotta totalmente lecita del legittimo risparmio d'imposta e, nondimeno, da quella del risparmio "illecito" dell'evasione fiscale. Questa Corte non ha tardato ad esprimersi sul punto, chiarendo come i rapporti fra il campo di applicazione dell'abuso del diritto e quello coperto dal presidio penalistico debbano essere improntati alla mutua esclusone, di talchè la fattispecie abusiva non può essere contestata qualora l'operazione perseguita dall'agente sia suscettibile di essere fonte di responsabilità penale (in quanto violazione di una disposizione fiscale e integrante gli estremi un illecito tributario) e, a sua volta, quest'ultima non può poggiare su una contestazione di abuso/elusione (Cass., Sez. III, 1 ottobre 2015, n. 40272). Chiarisce espressamente questa Corte come l'abuso sia una categoria diversa dalla simulazione, dalla falsità, dalla fraudolenza, recte da quelle condotte punite penalmente sulla base del D.Lgs. n. 74 del 2000, con carattere residuale rispetto alle stesse. La residualità dell'art. 10 bis, è stata riaffermata recentemente da questa Corte (sentenza 21 aprile 2017, n. 38016) proprio in riferimento all'ipotesi criminosa di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, (dichiarazione infedele) la quale è integrata ogni qual volta siano stati posti in essere comportamenti simulatori preordinati alla immutatio veri del contenuto della dichiarazione ed integranti una falsità ideologica caratterizzante il fatto evasivo. Questi incidono sulla veridicità della stessa dichiarazione per occultare, in tutto o in parte, la base imponibile, non trovando applicazione la disciplina dell'abuso avente portata solo residuale. Per la S.C., quindi, in un quadro caratterizzato dalla presenza di elementi tipici del falso, non è possibile contestare l'abuso/elusione in quanto rappresentante una fattispecie sussidiaria che dovrà cedere innanzi ad una contestazione D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 4, avente origine non in un uso distorto della normativa di settore (determinante un vantaggio fiscale "indebito"), bensì dall'intrinseca illiceità dell'operazione la quale, mediante il mendacio, è tesa all'occultamento, totale o parziale, della base imponibile. Il legislatore oltre ad indicare in positivo le condotte costituenti abuso del diritto ed in negativo quelle che fuoriescono da tale perimetro, opera un'importante precisazione prima di sancirne l'irrilevanza penale: l'art. 10 bis, comma 12, dispone infatti che, in sede di accertamento, l'abuso può configurarsi solo se i vantaggi di cui si discute non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche norme tributarie. Su tale puntualizzazione normativa la giurisprudenza fonda la sussidiarietà delle ipotesi abusive/elusive rispetto ai fatti connotati da fraudolenza, simulazione o, comunque, teleologicamente diretti alla creazione e utilizzo di documentazione falsa. 12. Tanto premesso, il motivo proposto è manifestamente infondato. Come infatti è possibile evincere dalla lettura della sentenza impugnata, nonchè da quella del giudice di prime cure, l'imputato non soltanto era obbligato alla tenuta delle scritture contabili ex art. 2214 c.c., ma non aveva fornito alcun elemento probatorio a fondamento della propria tesi difensiva. In modo particolare, il Tribunale di Taranto aveva evidenziato come il B. si fosse limitato a riferire che i pagamenti di somme ingenti avvenivano anche in contanti, senza però che fosse rinvenuta traccia documentale delle movimentazioni di denaro e, nello specifico, dei bonifici mediante i quali l'imputato avrebbe proceduto ad una certa percentuale dei pagamenti. Nessun rilievo a favore della ricostruzione fattuale della difesa era attribuibile peraltro alle dichiarazioni del teste Dott. N., il quale si era limitato a riferire di aver preso visione delle (sole) fatture, il che non escludeva che i rapporti contrattuali tra le due società fossero stati fittizi. Proprio la natura fittizia dei rapporti commerciali intercorsi tra La Fenice e la MD2000, refluenti nel modello unico del 2008 con indicazione di elementi passivi inesistenti, consente quindi il positivo accertamento della responsabilità del B. relativamente al reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4. 13. Resta, infine, da esaminare il terzo ed ultimo motivo, che non sfugge al giudizio di inammissibilità. Ed invero, il motivo è inammissibile in quanto l'aumento per la recidiva specifica non può ritenersi illegittimo a fronte della condanna divenuta irrevocabile il 14.3.2015, la quale conferma un giudizio negativo della personalità del reo (sul punto si rammenta che il giudice può motivare anche implicitamente sull'applicazione o meno della recidiva facoltativa: Cass., Sez. VI, 14 marzo 2018, n. 14937; Cass., Sez. III, 12 dicembre 2017, n. 4135). Dal testo della decisione del 2015 si evince, inoltre, che, in sede di patteggiamento, le parti avevano considerato nel calcolo della pena anche i precedenti dell'imputato, già dunque qualificato come recidivo in quella sede. Si rammenta, poi, che la giurisprudenza ha sottolineato la non incompatibilità fra gli istituti della recidiva e della continuazione, sicchè, sussistendone le condizioni, andranno applicati entrambi, praticando sul reato base l'aumento di pena per la recidiva e, quindi, quello per la continuazione (ex plurimis: Cass., Sez. IV. 22 marzo 2018, n. 21043; Cass., Sez. V, 19 settembre 2017, n. 51607). Quanto al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, non vi è traccia nei motivi di appello depositati in data 5.07.2016, nè nelle note difensive depositate in data 8.06.2018 nè nel verbale dell'udienza davanti alla Corte d'appello del 15.06.2018, di una richiesta in tal senso. Dunque nessun vizio è ravvisabile in ordine alla mancata motivazione sul punto da parte della Corte d'appello. In ogni caso, deve qui essere ribadito che la concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, e può ben essere motivato implicitamente attraverso l'esame esplicito di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p., esame operato dalla Corte d'appello con riferimento alla determinazione della pena (Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003 - dep. 22/09/2003, Dell'Anna e altri, Rv. 227142). 14. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. 15. Solo per completezza, infine, deve qui evidenziarsi come non rilevi la prescrizione medio tempore intervenuta del reato contestato. Ed invero, attesa l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi, trova applicazione il consolidato principio, più volte affermato da questa Corte, anche a Sezioni Unite, secondo cui l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p. (Nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso: Sez. U, n. 32 del 22/11/2000 - dep. 21/12/2000, D. L, Rv. 217266). P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila Euro in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, nella sede della Suprema Corte di Cassazione, il 8 aprile 2019. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2019
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