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Omessa dichiarazione patrimoniale e truffa aggravata: conferma della condanna per indebita percezione del reddito di cittadinanza

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Corte appello Napoli sez. III, 25/06/2024, n.7388

L’omessa dichiarazione di beni patrimoniali rilevanti nell’autocertificazione per l’ottenimento del reddito di cittadinanza integra gli "artifici e raggiri" necessari per configurare il reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 bis c.p., in quanto idonea a determinare una falsa rappresentazione della realtà economica, inducendo la Pubblica Amministrazione in errore. L’indebita percezione del beneficio configura un ingiusto profitto con danno per l’erario, anche in presenza di un sistema fondato sull’autocertificazione.

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La sentenza integrale

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Con la sentenza appellata, emessa in data 31 marzo 2022 dal Tribunale di Nola in composizione monocratica, l'imputata AD.Ab., all'esito di giudizio abbreviato, veniva giudicata colpevole del reato di cui all'art. 640 bis c.p., in esso assorbito il reato, contestato in continuazione, di cui all'art. 7, primo comma, del D.L. n. 4/2019, convertito in Legge 26/2019, esclusa la continuazione e riconosciute le circostanze attenuanti generiche, veniva condannata alla pena, già ridotta per il rito, di anni uno di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, con il beneficio della pena sospesa e la confisca, ai sensi dell'art. 640 quater c.p., della somma di denaro in sequestro.

Il convincimento del primo giudice si fondava sugli esiti della istruttoria investigativa, dalla cui disamina si evince che AD.Ab. con istanza avente protocollo n. (…) del 15 aprile 2019, beneficiava a far data dal mese di maggio 2019 e per tutta la durata prevista dei 18 mesi, di prestazioni economiche erogate dall'INPS-Reddito di Cittadinanza, in difetto del requisito di "possedere un valor del patrimonio immobiliare, come definito ai fini ISEE, diverso dalla casa di abitazione, non superiore ad una soglia di euro 30.000,00".

In particolare, dagli accertamenti eseguiti risultava che l'Ad. ometteva di dichiarare nella DSU (dichiarazione sostitutiva unica per il calcolo dell'ISEE) presentata a corredo dell'istanza del reddito di cittadinanza, in data 08/04/2019 ed avente protocollo (…), nel quadro "FC3, patrimonio immobiliare" i dai relativi agli immobili posseduti in Italia aventi quota di rendita pari al 1000/3000, (33 per cento) per un valore corrispondente ad un totale di euro 63.019,39 c quindi superiore a quanto consentito dall'art. 2, c. 1 lett. b) n.2 del D.L n.4/2019 che sancisce un valore del patrimonio immobiliare, come definito ai fini ISEE, diverso della casa di abitazione, non superiore ad una soglia di euro 30.000,00.

Inoltre, l'imputata ometteva di indicare il predetto patrimonio immobiliare nell'attestazione ISEE, alla voce "patrimonio immobiliare del nucleo" e di presentare la dichiarazione dei redditi, relativamente all'annualità oggetto del controllo, come poteva evincersi dal sistema informativo collegato all'Anagrafe Tributaria.

2. L'imputata, a mezzo del suo difensore, proponeva rituale appello avverso la sentenza, impugnandola nella sua totalità, ed in particolare chiedendo:

l'assoluzione perché il fatto non sussiste ex art. 530 co. 1 c.p.p., ovvero perché non è provata la sua penale responsabilità ex art. 530 co. 2 c.p.p.;

dichiararsi la nullità della sentenza per omessa valutazione della memoria difensiva depositata all'udienza del 31 marzo 2022;

riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p.; revoca della confisca di quanto in sequestro.

2.1. Con il primo motivo di gravame la difesa contesta la valutazione del primo giudice nell'ammettere che la semplice omissione, quale elemento oggettivo del reato di cui all'art. 7 D.L. 4/2019, sia da individuare, anche, quale elemento per ravvisare gli artifici e i raggiri, da intendere quale diverso e altro elemento richiesto per l'integrazione della ben più grave fattispecie del reato di cui all'art. 640 bis c.p., nonché per la grave confusione in cui il medesimo giudicante sarebbe incorso, utilizzando le omissioni ripetute dall'Ad., non solo per ritenere integrato l'elemento oggettivo degli artifici e raggiri, ma anche per sostenere l'integrazione dell'elemento soggettivo del dolo generico richiesto per l'integrazione del reato di cui all'art. 640 bis c.p.; inoltre secondo la difesa il basso grado di istruzione, già di per sé sarebbe bastevole per ammettere che l'Ad., non essendo in grado di valutare il tenore della norma, si sia affidata, per le dovute informazioni, ad un ente preposto per l'effettuazione della domanda. La condotta dell'imputata sarebbe stata, quindi, improntata al dovere di informazione, normalmente gravante su ogni consociato, e come tale scusabile, quantomeno sotto il profilo soggettivo.

Orbene, le citate deduzioni difensive appaiono prive di pregio, ritenendosi, al contrario, che la sentenza appellata sia frutto di un corretto ragionamento logico-giuridico e deve intendersi in questa sede integralmente richiamata.

Le censure svolte in questo segmento di gravame sono state sostanzialmente già esaminate e risolte, nel senso della loro infondatezza, dal primo giudice.

Sul punto è bene rammentare che qualora siano dedotte questioni già esaminate e risolte, il giudice dell'impugnazione può motivare per relationem (cfr. in tal senso Cass. sez. V, 15 febbraio 2000, n. 3751).

Tale motivazione è consentita con riferimento alla pronuncia di primo grado, laddove le censure formulate contro di quest'ultima non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi poiché il giudice di appello non è tenuto a riesaminare dettagliatamente questioni sulle quali si sia già soffermato il primo giudice con argomentazioni ritenute esatte ed esenti da vizi logici (Cass. sez. V. 22 aprile 1999, n. 7572).

Per tale motivo la Corte fa proprie, sul punto, le argomentazioni diffusamente illustrate nella sentenza impugnata.

Nondimeno, in questa sede appare d'uopo precisare che i rilievi difensivi non colgono nel segno in quanto non tengono conto dell'evoluzione giurisprudenziale che la materia ha subito nel tempo, nel corso del quale si è affrontato anche il rapporto che intercorre tra la fattispecie di legge speciale (art. 7 d.l. 4/19) e quella di cui all'art. 640 bis c.p., oltre che tra quest'ultima e l'ipotesi di cui all'art, 316 ter c.p.

Nel caso di specie, si ritiene che il P.M, nel formulare l'imputazione abbia individuato correttamente il reato più grave nel delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all'art. 640 bis c.p., in luogo del reato p. e p. dall'art 316 ter c.p.

Come chiarito dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza 27 aprile 2007, n. 1658, il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato è in rapporto di sussidiarietà, e non di specialità, con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, con la conseguenza che il primo reato è configurabile soltanto laddove difettino nella condotta gli estremi del secondo.

La Suprema Corte, pertanto, individua il discrimen tra i delitti in parola proprio nella c.d. induzione in errore, presente nella truffa e mancante nel delitto di cui all'art. 316 ter c.p.

Ne consegue che, ciascuna della condotte descritte nell'art. 316 ter c.p. (utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, e omissioni di informazioni dovute) può concorrere ad integrare gli artifici ed i raggiri previsti dalla fattispecie di truffa, ove di questa figura criminosa siano integrati gli altri presupposti, come si verifica qualora le falsità o le omissioni si traducano in una artificiosa rappresentazione della realtà idonea ad indurre in errore quanti, non per scelta soggettiva, ma in ragione del carattere giuridicamente fidefacente degli atti o documenti ad essi destinati, siano tenuti a fare sugli stessi affidamento.

Ciò che rileva, dunque, non è tanto la definizione dei concetti di "artifizi" o "raggiri", in cui come si vede sono ricomprese anche le condotte omissive, contrariamente a quanto deduce la difesa, bensì l'idoneità della condotta a determinare l'induzione in errore del soggetto, a cui consegue l'effettiva indebita percezione dell'emolumento.

Ne deriva che, laddove, come nel caso dì specie, l'obbligo di dire la verità è non solo sancito dalla legge, ma è presidiato da un'apposita figura di reato, l'omissione di informazione dovute di cui all'art. 7, comma 1, legge cit. deve essere inquadrata nell'ambito degli artifizi e raggiri che integrano il reato di cui all'art. 640 bis c.p.

In particolare, si intende evidenziare come, a parere di questo Collegio, l'idoneità alla induzione in errore è, nel caso di specie, configurabile sotto il duplice profilo, oggettivo e soggettivo.

In primo luogo, sotto il profilo oggettivo, in astratto, la condotta ingannevole, nei termini descritti dalla censura, nella misura in cui è, come nel caso di specie, determinate ai fini della erogazione, appare senza dubbio tale da procurare una falsa rappresentazione dei fatti in chi deve provvedere, il quale ultimo - proprio perché non è tenuto ad alcun accertamento, dovendo fare affidamento solo sull'autocertificazione dell'istante - eroga il beneficio, ritenendolo dovuto, sull'erroneo presupposto che le informazioni offerte all'atto della richiesta siano veritiere, ancorché in concreto l'istante non abbia alcun diritto.

Il privato posto nell'ottica di voler ottenere un beneficio, che per la reale situazione patrimoniale in cui versa, non gli spetterebbe, decide di raggirare la Pubblica, Amministrazione attraverso una rappresentazione difforme della propria realtà patrimoniale, che induce pertanto a ritenerlo idoneo alla elargizione dell'utilità.

Pertanto, può ritenersi che nella "fraudolenza" della condotta sussistano gli artifici e i raggiri che inducono in errore e permettono l'ottenimento di un ingiusto profitto tale da configurare la fattispecie più grave di cui all'art. 640 bis c.p.

Peraltro, come precisa la Suprema Corte "una dichiarazione attestante una consistenza patrimoniale diversa da quella reale perfeziona gli artefici e raggiri, in modo da indurre in errore la P.A., tenuto conto che l'ingiusto profitto è rappresentato dalla riscossione dell'emolumento" (Cassazione penale, Sez. II, Sent n. 2402 del 20.01.2021).

La Corte, in particolare, rimarca che la dichiarazione di una consistenza immobiliare diversa da quella reale integri - quale condotta violatrice degli obblighi di lealtà sottesi alla disciplina del reddito di cittadinanza - gli "artifici e raggiri" tale da indurre in errore la Pubblica amministrazione.

A rimarcare la rilevanza penale della condotta, si chiarisce che una simile condotta "elusiva e non trasparente" impedisce la concessione del reddito di cittadinanza di talché esso è da qualificare come "ingiusto profitto" quand'anche l'autore della condotta presenti i requisiti reddituali per ottenere il beneficio.

Tutto ciò posto, deve necessariamente mettersi in evidenza la correttezza del ragionamento del primo giudice, a mente del quale, stante la clausola di sussidiarietà espressa prevista dall'art. 7, comma 1, L. cit., tra il reato descritto dalla norma in parola e il reato di cui all'art. 640bis c.p. non si configura un concorso formale di reati, bensì si è in presenza di un concorso apparente di norme regolato dal principio di sussidiarietà, in forza del quale, quando una medesima situazione di fatto presenta in apparenza tutti gli elementi costitutivi di più fattispecie incriminatrici, si applica quella il cui interesse si presenta come più importante, o comprensivo di ogni altro interesse tutelato dalle norme convergenti, salvo, in caso di incertezze sulla gerarchia dei beni tutelati, dover applicare la norma che sancisce il trattamento più grave.

Per tali ragioni, laddove, come nel caso di specie, dalla mancata indicazione della consistenza del patrimonio immobiliare sia derivato un profitto ingiusto per il truffatore e un danno patrimoniale per lo Stato, si potrà ritenere sussistente il reato di truffa ex art. 640 bis c.p.

Qualora, al contrario, dall'omissione dell'informazione dovuta il richiedente il RDC non avesse conseguito alcun profitto, poteva ritenersi astrattamente configurato soltanto il reato di cui all'art. 7, comma 1, Legge Cit., che prescinde dalla presenza di tale elemento.

Sussiste dunque nel caso in esame la fattispecie p. e p. dall'art 640 bis c.p., in essa assorbita la fattispecie di cui all'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, atteso che il comportamento omissivo del richiedente ha permesso all'intero nucleo familiare di percepire un benefìcio non dovuto.

Sotto il profilo soggettivo, altresì, chi formula una falsa dichiarazione, ovvero omette informazioni rilevanti ai fini della integrazione del diritto al RDC, come nel caso che occupa, è mosso dalla volontà, e a tali fini si rappresenta, che, attraverso tali mezzi, si determini un errore nell'ente erogatore tale da indurlo a concedere quanto gli sarebbe sicuramente negato qualora avesse dichiarato la verità.

A parere della Corte, non può ritenersi che, nel caso di specie, l'imputata sia incorsa in colpa se solo si valuta la struttura stessa della condotta posta in essere dall'AD., per come si evince dagli atti, in quanto la prevenuta, nella sostanza, ha omesso ogni indicazione che riguardasse la consistenza del patrimonio immobiliare riconducibile al suo nucleo familiare, che, come da accertamenti presso il "Catasto dei fabbricati e terreni", era composto da ben nove voci di rendita (cfr. prospetto contenuto nella informativa del 15 dicembre 2020 a cura della GDF Tenenza di Baiano).

Appare, pertanto, logico e ragionevole ipotizzare che gli uffici competenti ai quali si è rivolta l'appellante le abbiano offerto ogni informazione utile, prima di presentare la domanda, compresa la necessità di indicare i cespiti immobiliari, quali componenti consistenti e principali del proprio patrimonio, informazioni che l'imputata, tenuto conto che comunque ha la licenza media conseguita con la votazione di ottimo, fosse nelle condizioni di comprendere e utilizzare ai fini della compilazione della domanda di interesse.

Si ritiene, pertanto, che non possa valere ad escludere il dolo richiesto dalla norma il basso grado di istruzione, sia per le argomentazioni svolte dal primo giudice, sia perché il basso grado di istruzione è stato solo dedotto e non provato, sia perché l'imputata era al corrente del diritto cui mirava, al punto da essere stata nelle condizioni di inoltrare la domanda telematicamente.

Ne consegue che sussistono fondati elementi per ritenere che l'imputata abbia con coscienza e volontà presentato una dichiarazione attestante una consistenza patrimoniale diversa da quella reale, perfezionando in tal guisa, senza dubbio alcuno, un artificio che ha indotto la P.A., a ritenere la richiedente idonea alla riscossione dell'emolumento, atteso che è proprio la mancata dichiarazione della reale situazione di fatto che ha permesso la riscossione dell'indebito beneficio, non risultando necessario a tal fine alcun controllo esperibile dall'ente erogatore.

2.2. Con il secondo motivo la difesa eccepisce la nullità della sentenza per omessa valutazione della memoria difensiva o per carenza motivazionale, avendo il giudice di primo grado omesso di considerare del tutto le conclusioni formulate dallo scrivente difensore all'udienza del 31 marzo 2022, benché rette dalle produzioni documentali effettuate ai sensi dell'art. 419 c.p.p., influendo sulla congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione della sentenza oggetto del presente gravame.

Il presente motivo di doglianza appare destituito di fondamento, sulla scorta di un prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui l'omessa valutazione di una memoria difensiva non determina alcuna nullità, potendo solo confluire sulla congruità e correttezza della motivazione della sentenza, dovendosi escludere al contempo che il semplice deposito di una memoria difensiva nel corso del procedimento, il cui contenuto non sia oggetto di specifica confutazione da parte del giudice, determini una nullità, in quanto sanzione non prevista dall'art. 121 c.p.p. e, dunque, l'omesso esame della stessa può integrare il vizio di motivazione nella misura in cui sia dimostrato che argomenti difensivi rilevanti e decisivi non siano stati valutati dal giudice di merito (Cass. Pen., sez. II, 10/03/2018, n. 14795 e da ultimo Cass. P. sez. II, 17 dicembre 2019, dep. 10 gennaio 2020 n. 696)).

In altri termini, il vizio dedotto dalla difesa non configura alcuna ipotesi di nullità prevista dalla legge, sicché le ragioni difensive vanno attentamente considerate dal giudice cui vengono rivolte, siano esse espresse in un motivo di impugnazione, in una memoria scritta o nell'ambito di un intervento orale, ma le conseguenze di una mancata considerazione rifluiscono sulla congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione della decisione che chiude la fase o il grado nel cui ambito tali ragioni, eccezioni, o motivi di impugnazione siano stati espressi (Sez. 2, n. 14975 del 16/03/2018, Tropea, Rv. 272542; Sez. 6, n. 18453 del 28/02/2012, Cataldo, Rv. 252713).

Tale impostazione giurisprudenziale appare del tutto condivisibile, in quanto non solo coerente con la lettera del codice, in particolare con la norma invocata dalla difesa, ma anche conforme all'indirizzo interpretativo fornito dalla giurisprudenza sovranazionale, tutta a favore della certezza e della prevedibilità della sanzione non solo sostanziale ma anche processuale, fondato sul principio di tassatività delle nullità (art. 177 c.p.p.).

E esclusa, pertanto, l'automatica rilevanza della omessa valutazione di memorie quale causa di nullità.

Del resto, la sanzione invocata dalla difesa non si giustifica alla luce della struttura della sentenza di appello che si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando, esaminando le censure proposte dall'appellante, non si trascurano gli argomenti non attenzionati dal primo giudice, sebbene non manifestamente infondati, come nel caso di specie.

2.3. Con il terzo motivo l'imputata chiede applicarsi l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p.

In linea con un orientamento costante della Suprema Corte, finalizzato a precisare la portata applicativa dell'art. 62, c. 1, n. 6, c.p., si rileva che, ai fini della riconoscibilità dell'attenuante in esame, è necessario che il soggetto tenuto al risarcimento abbia, prima del giudizio, integralmente provveduto alla riparazione del danno cagionato con il reato da lui commesso ovvero si sia spontaneamente ed efficacemente adoperato per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato stesso (cfr. Corte di cassazione, Sezione V penale, 22; settembre 2009, n. 36595).

Fermo restando che la suddetta distinzione non è priva di conseguenze in relazione alla possibilità di ricondurre la fattispecie concreta alla previsione astratta, posto che, mentre per ciò che attiene alla seconda ipotesi di attenuante, è necessario che l'attività riparatoria sia frutto di una spontanea volizione del soggetto agente, nella prima ipotesi tale condizione non è indispensabile, essendo sufficiente, ferma restando la tempestività del risarcimento, che questo sia integrale e volontario (Corte di cassazione, Sezione V penale, 27 dicembre 2017, n. 57573), nel caso di specie, si ritiene che non ricorrano in atti elementi tali da giustificare il riconoscimento della attenuante in questione atteso che, al di là del tenore del documento con cui si attesta l'accettazione da parte dell'INPS di un piano rateale di rientro per il lucro indebitamente conseguito, non sono stati prodotti documenti attestanti una seria coltivazione della proposta transattiva, con la conseguenza che, al di fuori delle due rate già pagate - delle quali una pari ad euro 585,18 (il 26 gennaio 2022) e l'altra di euro 210,51 (25 marzo 2022) - non si ravvisa la prova che l'imputata abbia posto in essere una spontanea azione riparatoria e si sia efficacemente adoperata per restituire l'indebito, non risultando ulteriori adempimenti rispetto alla predetta restituzione in minima parte.

Alla luce delle considerazioni in rassegna, la sentenza impugnata deve essere confermata.

2.4. Ribadendo che mancano elementi per ritenere che l'imputata abbia assunto un concreto impegno a restituire l'indebito, tale non potendosi ritenere la mera predisposizione di un piano transattivo di rientro cui è seguita la restituzione solo di una minima porzione, la confisca non é suscettibile di revoca totale, dovendo essere mantenuta in base al combinato disposto di cui agli artt. 640 quater e 322 ter c.p., essendo obbligatoria ex lege e suscettibile unicamente di riduzione nel limite dell'indebito ancora da restituire all'INPS.

Ai sensi dell'art. 544, co. 3 c.p.p. si dispone il deposito della motivazione della sentenza nel termine di 30 giorni, in considerazione della complessità della e del carico dell'ufficio.

P.Q.M.
Letto l'art. 605 c.p.p., in riforma della sentenza emessa in data 31 marzo 2022 dal Tribunale di Avellino, in composizione monocratica, nei confronti di AD.Ab., appellante, limita la confisca all'importo dell'indebito ancora da restituire all'INPS. Conferma nel resto.

Letto l'art. 544, comma 3, c.p.p. indica in giorni 30 il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in Napoli il 17 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2024.

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